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Intervento nel convegno "100 anni di satyagraha" Pisa 10 settembre 2006

Giustizia, pace e verità

Giustizia e pace - Pace e verità
28 agosto 2007
Fonte: L'11 settembre di Gandhi, in quaderni Satyagraha n. 12, luglio 2007, pp. 115-123 - 28 agosto 2007

Giustizia, pace e verità

Pisa, Centro Gandhi, 10 settembre 2006. Convegno "100 anni di Satyagraha"
Intervento di Enrico Peyretti nella Tavola rotonda

A) Giustizia e pace

1 - «Opus justitiae pax» (Isaia 32,17) : «la pace è frutto della giustizia». Prima la giustizia, poi potrà esserci la pace come suo frutto. Non c’è dubbio! Ma facilmente questa verità diventa: prima la (mia) giustizia – come la penso e la vedo io - poi la pace. Per la giustizia si fa anche la guerra: tutte le guerre si dicono fatte per imporre la giustizia (la nostra giustizia)! Perciò: “no justice no peace”, e siccome la giustizia è un orizzonte, un’idea regolativa, e sempre ne manca un po’, e la mia giustizia non è la tua, e sempre qualcuno ne rivendica per sé, e sempre ci sono torti offese violenze da togliere e riparare, dunque non si fa mai pace.
Proviamo a invertire: «Opus pacis justitia»: «la giustizia è frutto della pace». Facciamo questo «esperimento con la verità» analogo a uno di quelli che fece Gandhi: egli sbloccò il vincolo violento che constatava tra una “teo-logia” determinata e la verità, passando dal dire «Dio [come lo penso io] è verità» - cioè: la mia cultura è verità, la mia civiltà, i miei valori sono la verità - al dire «la Verità è Dio», cioè Dio (il massimo valore, il massimo Bene) è là dove nessuno può dire di essere pienamente arrivato: solo se tu fossi arrivato alla Verità potresti dire che i tuoi valori, la tua civiltà, sono i valori tutti veri; ma la Verità è sempre più avanti di tutti i passi umani pur veri in parte, perciò in parte falsi o fallibili.
Così, noi proviamo a invertire il detto di Isaia: «la giustizia è frutto della pace»: prima la pace, poi il suo frutto: la giustizia. Ma lo troviamo anche nella Bibbia stessa: lettera di Giacomo 3, 18: «Il frutto della giustizia è seminato nella pace da coloro che operano nella pace».
Primo risultato: la giustizia non è frutto della guerra, come il precedente pensiero ci permetteva di illuderci. La guerra è «l’antitesi del diritto» (Bobbio), cioè della giustizia; frutto della guerra è solo la sopraffazione del più forte, violento, spregiudicato; per puro caso può accadere cha la maggior ragione sia dalla sua parte, ma è merito del caso, non della guerra.
Troviamo che anche il grande Erasmo ripete (nel Dulce bellum inexpertis e nella Querela pacis): «Meglio una pace ingiusta di una guerra giusta». E la Cassandra di Christa Wolf: «Tra uccidere e morire [tra vincere e perdere] c’è il vivere». E il film Wargames avvertiva: in questo gioco, l’unica mossa vincente è non giocare. E allo slogan ultraatlantico della guerra fredda «meglio morti che rossi» era sensato opporre «meglio rossi che morti», e dunque anche «meglio americani che morti» e oggi: «meglio musulmani che morti», perché finché c’è vita c’è speranza.
Allora, noi dobbiamo dire oggi, non «la pace verrà dalla sicurezza» (dalla guerra che pretende di sradicare il male che temiamo), ma «la sicurezza è un effetto della pace», e non la sua condizione. E dobbiamo dire non che ci deve essere dappertutto la nostra democrazia perché ci sia pace, ma piuttosto che la pace favorirà dappertutto la difesa dei diritti umani.
Devo ad Armido Rizzi (vedi la sua relazione dal titolo: Dalla pace alla giustizia: il perdono. Esperienza religiosa e educazione alla pace, in: AA.VV., Pace, giustizia, salvaguardia del creato, LAS, Roma 1998, pp. 31-48. N.B. Il titolo stampato, sia nel corpus del libro sia nell'Indice, è inspiegabilmente sbagliato: "Dalla giustizia alla pace..."!!!), questa inversione, suggerita dalla logica evangelica: prima la riconciliazione (dare e accettare pace), prima il perdono, poi la giustizia come frutto. Leggiamo in Matteo (5, 23-24): «Se dunque presenti la tua offerta sull'altare e lì ti ricordi che tuo fratello ha qualche cosa contro di te, lascia lì il tuo dono davanti all'altare e và prima a riconciliarti con il tuo fratello e poi torna ad offrire il tuo dono»: il culto di Dio è giusto, ma il primo culto e la prima giustizia è togliere la divisione tra te e il tuo fratello. Anzitutto offrire la riconciliazione a chi ti è avversario o nemico, anche se tu non hai inimicizia verso di lui, ma c’è tra voi il suo risentimento, che impedisce una pace positiva (qualcosa di più del cessate-il-fuoco)! La riconciliazione ha la precedenza sul culto, è il primo culto vitale, è esercizio di «sacerdozio esistenziale» (Severino Dianich, teologo), cioè di esistenza in contatto col Bene.
Laicamente il culto è la celebrazione, la consapevole esaltazione dei tuoi valori di civiltà, delle tue persuasioni profonde: questa valorizzazione è legittima e giusta, ma non deve precedere la ricerca di soluzione del conflitto che ti divide e ti oppone all’Altro, allo straniero, all’immigrato, al diverso per lingua, cultura, religione, costumi, all’antipatico, al concorrente, …
Se posponi la pace con lui all’esaltazione dei tuoi valori, a ciò che per te è la giustizia, e pretendi che lui li riconosca, allora il frutto della pace non verrà mai. Tornare sul conflitto rimosso, per cercare riconciliazione è gestire attivamente il conflitto nonviolento, costruttivo; è nonviolenza all’opera.

2 - Dunque, certamente, perché ci sia pace occorre che ci sia giustizia, cioè assenza di violenza strutturale; dunque la parola di Isaia è vera: togliere l’ingiustizia è condizione della pace; porre giustizia dà come frutto la pace. Ma è altrettanto vero che la giustizia è frutto della pace, cioè si realizza la giustizia coi mezzi pacifici, nonviolenti; per non confondere la giustizia con la volontà egoista del più potente, del prepotente, con la mia volontà soggettiva, la giustizia va pensata nel “diritto”.
E il diritto in quale senso? Non solo nel senso dell’ordinamento giuridico, del «governo delle leggi e non degli uomini», che è lo stato di diritto e la democrazia; non solo nel senso del sistema vigente di assegnazione e distribuzione del potere, del diritto “positivo”, le leggi vigenti di fatto; ma, ancor più, nel senso di “diritto” che compete in modo essenziale alla persona, quello per cui Antonio Rosmini diceva che la persona è «diritto sussistente», quella «legge non scritta», a cui fa appello Antigone. Cioè non una legge o un sistema giuridico, non il diritto di possedere questa o quella cosa o di fare questa o quella azione, ma diritto nel senso di dignità inviolabile di ogni persona.
La giustizia come frutto della pace non è soltanto la legalità, perché “giusto” non è sempre l’ordine esistente, il diritto oggettivo, che può essere il «disordine stabilito» (Emmanuel Mounier). Ma “giusto” è il comportamento di colui che, pur nei comuni limiti umani, riconosce, rispetta, realizza il diritto-dignità altrui, specialmente del povero, del bisognoso, dell’oppresso, ed è quindi “uomo giusto”. È giustizia frutto di pace non l’ordine imposto dal più forte, ma la giustizia “resa” al povero, all’ultimo, all’oppresso, alla vittima, quella cioè che “restituisce” qualcosa che era negato alla dignità di una persona, o categoria di persone.
Nei termini evangelici che abbiamo sentito, Dio vuole questo “culto” esistenziale della dignità del mio prossimo, prima del culto religioso reso alla sua santità. La pace produce giustizia perché pace è anzitutto non-violare (ahimsa), non negare la vita e dignità altrui (pace negativa); e poi soprattutto è cercare la positiva realizzazione del suo diritto (pace positiva).
Si costruisce pace col “rendere” (non “prendere”) giustizia; dal restituire dignità a ciascuno viene un ordine collettivo giusto e pacifico, dignitoso e buono per tutti.

3 - C’è dunque questa circolarità: 1) la giustizia produce pace, perché riconoscere e dare il dovuto ottiene relazioni di reciproca soddisfazione, senza rivendicazioni aspre (la pace maggiore, per Raymond Aron e Norberto Bobbio); 2) la pace produce giustizia: cioè la buona disposizione verso l’altro, l’empatia, la rinuncia a violenza e dominio, la costruttività favorevole verso la sua vita, la generosità del perdono e riconciliazione, rendono all’altro giustizia nel senso più pieno, di dignità venerata, e ottengono maggiore probabilità di reciprocità nella giustizia.
«Per avere pace bisogna dare pace» ha detto Moni Ovadia, l’attore e autore ebreo, all’inizio della guerra di Israele al Libano. Ciò vale per questi due popoli e vale sempre per tutti.

4 - Bisogna essere giusti, più che forti e minacciosi, per avere probabilità di pace. La sicurezza viene dal dare sicurezza. Mettere paura, minacciare, cercare potenza, è già ingiustizia e suscita nell’altro minacciosità, volontà di potenza a sua volta. Parte l’inseguimento a cercare pace nel farsi e sentirsi “maggiori” (Pat Patfoort): parte così l’escalation che in realtà allontana dalla giustizia e dalla pace.
Allora, la giustizia è la vera sicurezza? È la formula securitaria, in luogo della potenza? No, non si è giusti solo per stare tranquilli: lo scopo della tranquillità non basta a sostenere nell’impegno di essere giusti. Inoltre, anche il giusto (persona o popolo) può ricevere male. Il giusto può ricevere ingiustizia. La malvagità esiste. L’impulso di sopraffazione e ingiustizia esiste. Motivi e nodi irrisolti di precedenti antiche ingiustizie, che spingono alla violenza, esistono.
Trattare il violento (attuale o potenziale) con una giustizia superiore alla sua, è la garanzia non assoluta, ma la maggiore possibile, di potere stabilire una pace con lui. Offrire pace preventiva, invece di minacciare e fare guerra preventiva, ovviamente nella vigilanza e prudenza, è la probabilità maggiore possibile di ottenere che esso ripensi e riduca le sue intenzioni aggressive
Ostilità e minaccia non nascono improvvisamente da un uomo-diavolo, da una cultura diabolica, come se prima di loro e fuori di loro, tutto fosse giusto e pacifico. Ogni violenza trova facilmente, se vuole, una sua giustificazione: non solo quella tutta infondata del lupo della favola per mangiare l’agnello (causa inesistente come le armi di distruzione di massa in Iraq), ma qualche reale ingiustizia passata o presente: p. es. essere una dittatura duramente repressiva, alla quale dunque si fa la guerra del bene al male.
Di causa in causa si può risalire a Caino, e anche lui pensava di avere le sue ragioni; cercare la giustizia come condizione preliminare alla pace, e dunque sradicare ogni ingiustizia, è opera infinita – guerra infinita per la giustizia infinita (parole teologico-titaniche di Bush) – che non raggiungerà mai la pace.
Questa pretesa di giustizia assoluta non solo allontana indefinitamente la pace ma stabilisce la guerra sistematica, senza fine.

5 - Il male dell’altro – violenza, ingiustizia, terrorismo – non rende mai giusta una risposta analoga: un male non rende giusto un altro male. La prima giustizia da rendere anche a chi non è giusto – prima di qualunque giustizia punitiva e correttiva, o rieducativa e risocializzante, di cui si dovranno accuratamente vedere fondamento, limiti, effetti - è trattarlo da uomo: un uomo che sbaglia, ma un uomo; un uomo cattivo, ma non demonio, non pura sostanza di cattiveria. Un uomo come noi, che abbiamo in noi qualcosa di ciò che condanniamo in lui.
Perciò, anche demonizzare Hitler è sbagliato: lo si spinge a comportarsi più che mai da demonio. Serve ad assolvere la nostra comune umanità dalla relativa corresponsabilità, remota o prossima, nel male fatto da lui. Se è un demonio non è un uomo, non abbiamo nulla a che fare con lui. Invece abbiamo a che fare. È un uomo violento e malvagio, non è la violenza e la malvagità sussistenti. Non è l’eccezione unica, ma un massimo del male di cui siamo tutti capaci, delle ingiustizie che in qualche relativa misura noi commettiamo.
Fatto demonio o bestia, il violento, il nemico, non è più umano, non è più uno di noi, lo possiamo ammazzare, anzi dobbiamo ammazzarlo per purificarci: ed ecco allora che, disumanizzato un umano a causa di un suo errore, noi restiamo disumanizzati e commettiamo la stessa cosa disumana di cui lo accusiamo e per cui lo condanniamo.
«Summum jus summa injuria»: la pretesa di somma, assoluta, indiscutibile giustizia produce la somma ingiustizia. Il frutto della giustizia somma, o sommaria – giustizia infinita - è ben altro che la pace: è la guerra infinita.
Se il violento è un uomo ha la parola e la ragione, seppure dirette male da un animo (un «cuore smarrito» dice Isaia) che ha smarrito il contatto vitale con il resto dell’umanità, come una pianta sradicata dal terreno di cui vive. Trattarlo con la parola e la ragione, anche solo per contrattare l’utile e il conveniente ad entrambi, è la maggiore probabilità possibile di riavvicinarlo all’umanità, di riguadagnarlo all’umanità. Parlare, trattare, contrattare è sempre meglio, più giusto, più umano, meno costoso, più vantaggioso, che scendere al confronto violento, e lasciar decidere alla maggiore violenza, non alla maggiore ragione.
Perciò, anche ai terroristi si parla, si deve parlare. Quanto meno essi parlano un linguaggio umano, tanto più si deve noi parlare linguaggio umano. Più essi ci trascinano al linguaggio ottuso della violenza, più ci si deve rifiutare a questa contaminazione disumanizzante.
Se dicono le loro ragioni o i loro pretesti, si apre la possibilità di discuterne, in ciò che dobbiamo accettare, in ciò che dobbiamo contestare e respingere. Liquidare, come si fa di solito, come “farneticanti” i loro messaggi, per quanto effettivamente farneticanti, ottiene di confermarli nella farneticazione, e di scavare irrimediabilmente la distanza.
E con ciò passiamo dal binomio giustizia e pace al binomio pace e verità.

B) Pace e verità

Questo tema mi pare più difficile dell’altro.
1 – La verità sta nella relazione giusta tra noi, più che nel “vedere” (theorein), nello “scoprire” (aletheia, svelamento) le cose nella loro totale ultima essenza.
Il “pensiero debole” dice: verità, evidenza, è violenza, è imposizione. Ma intende una verità schiacciante, estrinseca, metafisica, a cui reagisce perché è “troppo” forte. Invece è verità il riconoscimento reciproco, la giustizia, la buona relazione. La relazione buona è rapportarsi con verità alla verità dell’altro.
Si tratta di “fare verità” della nostra vita, più che di registrare una verità che si impone al pensiero: la “filosofia prima” è l’etica, non la metafisica (Levinas); vivere la verità, vivere nella verità, è più che soltanto conoscerla e pensarla.
Perciò devo costruire attivamente relazioni giuste, per iniziativa mia, senza porre la condizione che sia l’altro a stabilire la buona relazione. Il vangelo suggerisce una regola attiva e creativa: «Date senza attendere restituzione» (Luca 6, 35). Fare credito arricchisce l’insieme, la relazione. Lasciar vivere (non fare violenza; ahimsa; non-violenza) è bene; far vivere, cioè liberare, contribuire, aiutare, servire, donare, è meglio, ha più verità (satyagraha). La prima delle due cose è “non-violenza” (due parole; negazione), la seconda è “nonviolenza” (una sola parola, affermazione), satyagraha, forza attiva della verità vissuta, non solo pensata e contemplata.

2 - La verità del satyagraha non è l’inaccessibile verità assoluta, metafisica, non è quella pretesa che il pensiero debole teme per la sua violenza; è invece la verità vivente nell’altro (verità della relazione) e la verità dei fatti come sono, belli o brutti (verità dei fatti).
Grande esempio di pace e verità è stato il processo di “verità e riconciliazione” nel Sudafrica uscito dalla doppia violenza, sia dell’apartheid imposto dai bianchi, sia della rivolta dei neri: un’uscita nella verità, una pace pur sempre fragile e imperfetta, ma sperimentata in luogo della probabile catena di vendette reciproche.
Dunque, verità dei fatti: riconoscere torti errori e colpe nei nostri comportamenti, limiti e contraddizioni della realtà, di cui tenere conto, come si deve tener conto delle opportunità, dei vincoli del possibile e del necessario, che sono regola (limite e appoggio) dell’azione. La verità dei fatti significa fedeltà alla realtà, umiltà dello stare nella realtà, certo per promuoverla verso il suo inveramento ulteriore, ma senza fughe irreali, che abbandonano la realtà (persone, situazioni, problemi, sofferenze, aspirazioni) a se stessa, al suo peso, senza sollevarla.
Ciò non significa identificare realtà e verità, fatto e ragione, storia e spirito (Hegel), ma vedere la differenza e congiungere i poli di un cammino, senza tagliare la relazione dinamica.

3 – Abbiano bisogno di verità: reagire alle falsità, alla realtà senza e contro la verità, quelle realtà che offendono le dignità: il dominio, l’ingiustizia, le false relazioni, l’abbandono, le risposte violente alle violenza.
Il bisogno di verità salva dalla rassegnazione al dato, è speranza che vince la disperazione riguardo alla pace e alla giustizia. Abbiamo bisogno di sentire l’assenza di verità, di soffrire questo vuoto, di non accettarlo come normale: questo vivere l’assenza sembra un nulla, un non-fare e non-avere, ma in realtà è lo stimolo e il primo passo dell’azione positiva.

4 - Oggi c’è un “conflitto di verità” (di “civiltà”), di verità parziali, assolutizzate, strappate e armate (vedi Ernesto Balducci, L’Altro. Un orizzonte profetico, Giunti 2004 ). Parliamo di “fondamentalismi” o “integralismi”, ma non è male avere un fondamento, non è male conservare integri certi valori e tradizioni; il problema reale è il “totalitarismo”, che si ha quando una visione della verità si fa esclusiva e totale, pretende di avere tutta la verità. Le verità oneste, umili e aperte sanno di non essere “tutto”, pur essendo vere, e dunque possono convivere, imparando dagli scambi reciproci con altre verità, mentre le verità totalitarie devono negare ciò che è altro da loro come semplicemente falso.

5 - Anche la nostra nonviolenza è una convinzione profonda, una persuasione irrinunciabile, ma credo che non possiamo sentirla, viverla, opporla nel dibattito sociale come una verità assoluta, senza problemi. Non sarebbe buona nonviolenza se fosse acritica, senza pazienza e rispetto dei tempi, con accuse di tipo “bolscevico” di deviazionismo a chi accetta la necessità della gradualità e la parzialità (= procedere per parti, anche con compromessi chiari) nel cammino della nonviolenza. Mi torna in mente la teoria del “social-fascismo”, nel 1929 e 1932 (chi era socialista moderato era un fascista!), che fece fallire il movimento social-comunista di fronte ai fascismi. Altrimenti si rischia di fare della violenza ideale in nome della nonviolenza, e si scandalizza chi osserva e legge i nostri dibattiti, o si dà soddisfazione a chi pensa la nonviolenza come un ideale fanatico, violento. “Violenza dei nonviolenti” è un termine che ho sentito circolare di nuovo. Sarà un alibi per non comprendere la nonviolenza, ma stiamo attenti…
Di fronte alla guerra stolta del 2001, all’unilateralismo interamente fuorilegge del 2003, era più facile, giusto, necessario affermare integralmente la nonviolenza e vedere esporre tante bandiere della pace, quasi come il tricolore del pallone. Oggi, di fronte ad una criticabile ma non inaccettabile azione di polizia internazionale Onu in Libano (pur con esitazioni e perplessità) la critica nonviolenta è più articolata, meno assoluta; stiamo attenti che chi non è assolutista non venga giudicato un infedele. Aspre divisioni tra i nonviolenti giovano ai violenti.
Il movimento per la pace e la nonviolenza, oggi, è più articolato e differente, che non significa diviso, fratturato: la differenza, infatti, è costitutiva di ogni muoversi nella vita. Ci sono differenze a) sulla valutazione della guerra e b) sul ruolo del movimento:
a) questa è una “guerra unica” continentale asiatica di Usa e Israele associati, a cui Onu ed Europa sarebbero solo partecipi e funzionali con i loro tentativi di entrare nel gioco? Oppure è sperabile e prevedibile l’avvio, se appoggiato da presa di coscienza popolare, da volontà e sostegno politico internazionali, di un controllo delle minacce e violazioni della pace, tramite la ri-legalizzazione del sistema internazionale, superando l'illegalità massima dell'unilateralismo Usa anti-Onu (oltretutto sanguinosamente fallito)?
b) davanti alla missione Onu in Libano, il movimento per la pace si differenzia tra “intransigenti” e “politici”: i primi, per il fatto che la missione avviene con personale militare (di cultura, organizzazione e strumentalizzazione militare) e non in forma davvero indipendente, di vera polizia internazionale e di intermediazione civile, sono portati a rifiutare tale missione; i secondi, pur con le stesse riserve per quei seri limiti, ne vedono anche il relativo valore di contenimento e possibile sostituzione dell’unilateralismo Usa.
Sul primo punto, del giudizio sulla guerra in corso, credo che non sia possibile né utile una nostra posizione unica sulla tesi pessimistica (non dico assurda, purtroppo) della "guerra unica". Avallare questa tesi come unica o principale interpretazione rischia di lasciarla verificarsi. Condannare la guerra non basta per arrestarla.
Sul secondo punto, poiché non c'è una vera polizia internazionale, con legittimazione, cultura e etica di polizia e non di esercito, perché storicamente le potenze, contro la carta Onu, non l’hanno voluta, e poiché non ci sono i corpi civili di pace sufficientemente consistenti e organizzati, penso che, oggi, richiedere con chiarezza e forza alla politica, magari con una grande unitaria iniziativa di legge popolare, l'istituzione, finanziamento, addestramento dei corpi civili di pace, sia la cosa più urgente per modificare la gestione internazionale dei conflitti in senso non bellico e non imperiale, ma cosmopolitico, pacifico e nonviolento. Questo sarebbe oggi un grande ruolo politico del movimento per la pace.

7 - L’orizzonte ideale è chiaro, la politica e la storicità procedono nella gradualità mista, che è valida se orientata: storia e politica non attingono l’orizzonte, ma percorrono passi sul terreno accidentato; non ottengono mai intere realizzazioni ideali, ma approssimazioni a giustizia, pace, verità; nella politica e nella storia (ma non è forse così anche nella vita personale?) raramente l’alternativa è netta tra il bene e il male, quasi sempre tra approssimazioni al bene o al male, al giusto o all’ingiusto.
Se vogliamo che la nonviolenza diventi storia e modifichi le istituzioni, dobbiamo accettare, senza nulla perdere di chiarezza e volontà, le leggi e opportunità dell’azione, che sono il possibile e il necessario, l’opportunità e la costrizione, l’occasione e l’attesa, il compromesso nobile e dinamico esaltato da Gandhi.
La nonviolenza non è una ricetta, ma una ricerca, un cammino con le sue erte e stanchezze e incertezze e anche arresti, come ogni cammino della vita. Non è un volo rettilineo, qualunque sia il terreno e l’atmosfera. La nonviolenza ha la forza della verità – satyagraha – a cui si orienta continuamente, ma noi non possiamo pretendere di sapere né di potere viverla sempre integralmente. Perciò la nonviolenza, per essere ben orientata e produttiva, ha da essere non solo ideale, ma anche seriamente problematica e critica, autocritica.

Enrico Peyretti

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