“Nonviolenza e riforma di religione” (pubblicato col titolo La nonviolenza ha bisogno di religione)
“Nonviolenza e riforma di religione”
Pisa, Centro Gandhi, 10 settembre 2006. Convegno "100 anni di Satyagraha"
Testo dell’intervento di Enrico Peyretti nella Tavola rotonda
1 - La nonviolenza ha bisogno di religione
2 - La persona nonviolenta ha bisogno di religione
3 - La religione ha bisogno di nonviolenza, di riforma nonviolenta
4 - La nonviolenza è una fede?
5 - Ma quale tipo di fede? fede fanatica? assolutistica? fondamentalista?
6 - Violenza giusta?
7 - Né azzardo, né garanzia
8 - La politica è mista
9 - Quasi per conclusione provvisoria
1 - La nonviolenza ha bisogno di religione
Capitini fa opposizione “religiosa” al fascismo. Gandhi dà un fondamento “religioso” alla nonviolenza, addirittura – dice - impossibile a chi non crede in Dio. Martin Luther King, Abdul Ghaffar Khan: tutti questi maestri hanno una politica ispirata dalla religione. Si tratta, per ciascuno di loro, di una religione che non è anzitutto rigida istituzione, tradizione, dottrina, culto, ma soprattutto spirito, sentire, centro profondo della persona e luogo di relazione-incontro-unione con gli altri.
Mi aiuta spesso un antico verso riferito da Aulo Gellio, nelle Noctes Atticae (XX, 4, 9), con il quale credo che si possa interpretare il senso di “religione” per i maestri della nonviolenza, e per questa nostra riflessione: «Religentem esse oportet, religiosus nefas»: è cosa nefasta essere “religioso”, cioè ritenere di rapportarsi, in senso dipendente e passivo, ad un Originario, quasi che fosse ormai a propria disposizione, come un oggetto, una cosa; ma bisogna essere “religente”, cioè di quelli che attivamente sempre di nuovo, in atto, si collegano per qualche via all’Originario, e così anche collegano, congiungono tutti gli esseri e tutte le cose (cfr Maria Cristina Bartolomei, Intersezioni tra scrittura e interpretazione: la Bibbia, Libreria Cuem, Milano 1990, p. 85-86).
Dunque, una religione quanto mai libera da forme di imposizione e di violenza spirituale-psicologica-intellettuale, una religione che, sebbene attraverso questa o quella specifica confessione o credenza, sempre di nuovo attinge alla scaturigine universale più genuina e profonda dello spirito, là dove essa si libera e si autentica, e dove trova anche il punto d’incontro dell’amicizia umana universale: sia in Dio, per chi crede in lui, sia nel cammino e nella ricerca dell’umanità di tutti, per ogni essere umano.
Perché dico che la nonviolenza “ha bisogno” di religione? Perché se non avesse l’inquietudine e l’anelito religioso, che cerca e prefigura più e “altro” dal mondo così com’è, la nonviolenza sarebbe una piccola prudenza, un meschino schivare il pericolo; sarebbe la nonviolenza dei deboli o dei vili; sarebbe una tattica possibile come un'altra, con valore strumentale e funzionale, non la qualità di vita più vera e giusta; non sarebbe il Principio nonviolenza (titolo del libro di Jean-Marie Muller, Pisa University Press 2004; v. specialmente p. 22 e 67-70).
2 - La persona nonviolenta ha bisogno di religione
La nonviolenza è un profondo cambiamento di mentalità, alternativa alla cultura dominante, e sempre da rinnovare. Richiede una riforma interiore continua, una con-versione (vedi gli atti del convegno Perugia 11 maggio 2002, nel libro curato da Matteo Soccio, Convertirsi alla nonviolenza?, Il Segno dei Gabrielli, Negarine 2003, pp. 19, 20). Voglio forse dire che non è possibile essere nonviolenti senza fede in Dio? (così Gandhi e Tolstoj; cfr Soccio p. 21).
Nel senso più ampio intendiamo con “religione”, qualcosa di molto importante e profondo per la persona, che dà un senso all’esistenza e ci unisce come persone; “religione” del riconoscimento universale dell’uguale dignità umana, da non violare; “religione” della Verità (Satyagraha), la quale per Gandhi è Dio, al di là delle diverse dottrine religiose.
In pratica, il nonviolento ha bisogno di “religione” in questo senso: “relazione” quotidiana profonda (empatia) col prossimo (anche tra noi, che non siamo sempre gentili, non sempre disposti a comprendere, non sempre nonviolenti!). È possibile che si verifichi anche una violenza dell’affermazione ideale, se viene opposta e imposta alla realtà umana attuale, senza misericordia (che è pure un’espressione di nonviolenza). Perciò è importante il “potere su di sé”, che è la prima forma del potere nonviolento; controllare il proprio carattere, non giustificare il proprio imporsi con il fatto che l’idea è giusta, perché nessuna verità ci autorizza a sentirci nel giusto e a giudicare gli altri.
A volte, chi osserva i nonviolenti trova che c’è una “violenza dei nonviolenti”. Riconosciamo uno spazio legittimo all’invettiva per la verità contro l’ipocrisia (anche Gesù inveisce: Matteo 23), ma ci chiediamo: come dare segno insieme di mitezza e di persuasione forte? Questo è un problema del lavoro interiore, spirituale, dei cercatori di nonviolenza.
3 - La religione ha bisogno di nonviolenza, di riforma nonviolenta
C’è una violenza delle religioni, sugli spiriti e sui corpi. Senza ridurre le religioni a violenza, è pur vero che c’è un appoggio delle religioni ad istituzioni violente (alleanza trono-altare, non solo nel cristianesimo). C’è una giustificazione e consacrazione religiosa delle violenze. C’è una spinta religiosa e una causa religiosa delle violenze, quando le religioni sono pervase da una pretesa di possesso della verità e si arrogano il diritto di imporla e di condannare e persino eliminare chi vedono in errore. Ci sono nelle religioni e nei libri sacri immagini violente di Dio e del divino, perciò divinizzazioni della violenza. C’è una storia violenta del cristianesimo, opposta alla storia dello spirito evangelico.
Riguardo in particolare al cristianesimo, ho una testimonianza di Ernesto Balducci. In una lettera del 21 gennaio 1989 (pubblicata su il foglio n. 238, aprile 1997, www.ilfoglio.info), mi scriveva: «Sono convinto, diversamente da Küng [ il quale accusa Erasmo, in confronto a Lutero, di «troppo poco coraggio paolino» e di «fuga»; cfr Hans Küng, Teologia in cammino, Mondadori 1987, pp. 21-55, spec. 48 ], che Erasmo, tra Roma e Lutero, aveva visto giusto: la questione dirimente, che avrebbe portato con sé anche la riforma della chiesa, era quella della pace. Non è forse oggi la vera questione ecumenica?». Questo importante giudizio di Balducci su Erasmo si ritrova anche nel suo libro L’Altro, Ed. Giunti, Milano 2004, a p. 27.
Il 12 marzo dello stesso 1989, tornando sul tema, a proposito del libro di Paolo Ricca Le chiese evangeliche e la pace (Edizioni Cultura della Pace, Fiesole, 1989), Balducci mi scriveva: « Io resto convinto che la vera via della Riforma era quella di Erasmo», e cioè la via della pace.
Dunque, la chiesa cristiana occidentale ebbe, col movimento protestante, una riforma evangelica (è la fede che salva, non le opere; non la gerarchia è misura della verità, ma la Bibbia e lo Spirito), che però non fu, salvo minoranze significative, una conversione delle chiese alla pace e alla nonviolenza. Si legga Erasmo sulla pace (specialmente il piccolo trattato sulla guerra e la pace, ancora attuale, Dulce bellum inexpertis, più che la Querela pacis, più famosa ma meno significativa) e si vedrà la verità del giudizio di Balducci: se le chiese cristiane avessero seguito la via di Erasmo, la chiesa sarebbe diventata con Lutero più evangelica e con Erasmo più pacifica, e forse la modernità sarebbe stata meno violenta.
Oggi i cristiani hanno scoperto la nonviolenza evangelica per lo stimolo venuto da maestri non cristiani, come Gandhi, o post-cristiani, come Capitini. Se le chiese cristiane si convertiranno cordialmente alla nonviolenza, superando certe remore (Antonino Drago spinge ad esaminare quali siano queste remore), troveranno il modo più evangelico di servire il mondo con l’amore di Cristo, senza farsi servire.
Abbiamo un compito di critica nonviolenta delle religioni, in particolare di cristianesimo e islàm, per una loro chiara riforma nonviolenta. Capitini ha dato e avviato un contributo molto significativo.
4 - La nonviolenza è una fede ?
Non basta alla nonviolenza la ragionevolezza, la saggezza, l’etica umana universale? Certo, sono qualità importanti. Ma molti maestri nonviolenti sono stati sostenuti e animati da una fede. Bonhoeffer diceva addirittura: «Osare la pace per fede». Ciò vale anche per i «diversamente credenti» (secondo l’espressione di Gian Enrico Rusconi).
Ma la nonviolenza è una fede? Su cosa sia la fede (intimo atteggiamento personale, cosa diversa dalla dottrina di una determinata confessione religiosa), dice Raimon Panikkar,: «La fede è la costitutiva apertura dell'uomo verso la trascendenza [ e verso la migliore umanità, la Verità ]. È la consapevolezza di essere in/finito, non/già/finito, e dunque di poter crescere. Ogni uomo è aperto a questo "più". È un'apertura esistenziale, di cui ogni uomo è capace. L'atto di fede, che salva, è l'atto con cui l'uomo si riconosce non/finito, non perfetto. Ogni uomo, poi, cerca di far cristallizzare questa visione in proposizioni, in formulazioni. Queste sono le credenze, diverse dalla fede, anche se la fede che non si esprime in credenze può restare vaga, inefficace» (dai miei appunti di una conversazione dell'ottobre 1992, a St. Jacques, pubblicati col titolo Dopo il cristianesimo, Cristo, in il foglio n. 195, dicembre 1992). Ciò che qui Panikkar chiama fede, in altri linguaggi è denominato come religiosità, spiritualità: l’atteggiamento interiore e aperto che accomuna persone di religioni diverse e anche senza religione.
Lo stesso Panikkar parla della pace come del «mito emergente e unificatore del nostro tempo» (La torre di Babele. Pace e pluralismo, ECP, 1990, p. 173-174; ma per un interrogativo su di ciò vedi Soccio, opera citata, p. 21), dove “mito” significa «l’orizzonte che rende possibile la definizione», e l’orizzonte è ciò che non “prendi” mai e non “perdi” mai. Il mythos non può essere separato dal logos, né può essere identificato con esso, dice Panikkar. Perciò un determinato concetto (logos) di pace non può essere imposto: farebbe perdere e ridurre l’orizzonte della pace, che è concetto polisemico, comprensivo, più grande.
Dunque la pace, e la nonviolenza come la forma più positiva e attiva di pace, può essere detta una fede, perché è tensione ad una ulteriorità verso cui siamo aperti e confidenti; ed è una religione, perché unifica gli umani anche se fanno diversi cammini e hanno diversi concetti di pace, purché correlativi e non assoluti, non escludenti; anzi, unifica incoativamente e amorevolmente anche con chi si pone come “nemico”.
5 - Ma quale tipo di fede? fede fanatica? assolutistica? fondamentalista?
L’idea volgare della nonviolenza è quella di un’utopia mite, ingenua, ma anche pericolosa, perché ispira fanatici assolutisti, in quanto rifiutano la realtà dura e le responsabilità che la realtà impone. Anche Bobbio criticava la nonviolenza assoluta perché lascerebbe mano libera al violento.
Giuliano Pontara si impegna a dimostrare che pacifismo e nonviolenza, alla scuola di Gandhi, non sono assolutisti. Ecco qualche indicazione bibliografica sul non-assolutismo della nonviolenza gandhiana: Gandhi, Teoria e pratica della nonviolenza, Einaudi 1996, pp. 69, 72, 73, 74, 77, 78-116, 103-104, 116; Giuliano Pontara, Se il fine giustifichi i mezzi, Il Mulino 1974, pp. 44-46. 49. 51-52; idem, Antigone o Creonte. Etica e politica nell’era atomica, Editori Riuniti, Roma 1990, pp. XII-XIV, 51, 88-90, 96; idem, Guerre, disobbedienza civile, nonviolenza, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1996, pp. 108-116; idem, La personalità nonviolenta, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1996, pp. 42-48 e specialmente 46-47; Enrico Peyretti, Esperimenti con la verità. Saggezza e politica di Gandhi, Pazzini editore, Villa Verucchio 2005, pp. 31-33.
Proprio in base all’etica della responsabilità (cioè degli effetti dell’atto, e non dei soli princìpi, o delle intenzioni), Pontara pensa che non è possibile, a suo giudizio, sostenere in teoria che la norma che proibisce la violenza sia una norma ultima e assoluta, ma sostiene «la tesi per cui è desiderabile che a livello pratico, di morale positiva, gli individui interiorizzino una norma che proibisce l’uso della violenza»; e ciò perché tale norma pratica di comportamento riduce meglio la violenza complessiva.
Cioè, non è assoluta la norma nonviolenta perché, nel caso di un conflitto tra diversi doveri – a) non uccidere o non infliggere sofferenze a qualcuno; b) salvare la vita o risparmiare gravi sofferenze a molte persone – questo secondo dovere prevale sul dovere di non uccidere qualcuno (norma nonviolenta). Infatti, lasciar uccidere, cioè omettere l’atto di salvare la vita, equivale moralmente – osserva Pontara - al commettere l’atto di uccidere; tra due doveri incompatibili (non uccidere alcuni; non lasciare che molti siano uccisi), si deve scegliere il male minore; dunque si può avere il dovere di uccidere se ciò comporta meno violenza e sofferenza (La personalità nonviolenta, Ega, 1996, pp. 44-47).
Già Gandhi afferma che ci sono situazioni tragiche in cui uccidere può essere un dovere. Jean-Marie Muller contesta Gandhi affermando che fare violenza non può mai essere un dovere, ma solo una tragica necessità, in cui non si ha libertà di scelta. Forse non c’è differenza sostanziale: in quella necessità si è obbligati a fare il male minore perché si ha il dovere di evitare il male maggiore. Ma Muller ha ragione nel dire che «la necessità di uccidere non sopprime affatto il comandamento di non uccidere», che uccidere non può mai diventare un diritto, che «la necessità della violenza non sopprime l’esigenza della nonviolenza» (Il principio nonviolenza, citato, pp. 69, 77, 78, 275). Muller però deve riconoscere che il principio nonviolenza non può essere realizzato sempre e comunque, in modo assoluto, nella realtà stretta. Quindi la norma di non fare violenza, di non uccidere, permane sempre: un atto concreto può dover andare contro questa norma, quando così facendo impedisce che siano uccisi molti di più, e cioè che la norma sia violata più abbondantemente e gravemente, ma quell’atto fuori dalla norma non inficia la norma.
La nonviolenza ha qualcosa di assoluto, cioè di “religioso”, che fonda e vincola, ma non è cieca di fronte alle situazioni difficili e drammatiche: non dice “fiat justitia, pereat mundus”, perché la giustizia è che il mondo non perisca. E questo si realizza sempre soltanto in qualche misura, non totalmente, e mentre dobbiamo cercare di realizzarlo nella maggiore misura possibile, dobbiamo anche accettare che, spesso, in qualche misura non si può realizzare. Se non accettassimo questo limite, abbandoneremmo l’impresa, accontentandoci di proclamare verbalmente il principio.
6 - Violenza giusta?
Qui incontriamo un problema: si potrà obiettare che l’escludere un’assolutezza teorica della nonviolenza, ristabilisce la teoria della “guerra giusta” (meglio: giustificata), cioè della violenza giusta, perché necessaria per un fine giusto (teoria insegnata anche dalle religioni compromesse coi poteri violenti). Regge questa obiezione? Mi pare di no: la nonviolenza non è principalmente una teoria che conceda patenti di giustizia alla violenza necessaria. La nonviolenza è verità e politica, religione e azione; è attenzione ad un valore ultimo, massimo, non per contemplarlo o pensarlo, ma per realizzarlo qui e ora.
Jean-Marie Muller ritiene che Gandhi, nonostante il linguaggio religioso, più che un religioso sarebbe un razionale, un filosofo e un politico (Il principio nonviolenza, p. 250 ), sarebbe più uno scienziato del conflitto che un uomo della trascendenza, più un pratico che un contemplativo («idealista pratico», dice Gandhi di sé stesso).
Quindi la nonviolenza cerca la maggior verità possibile della vita, riducendo la violenza reale al minimo possibile: la violenza da cui non riesce a liberarsi non è qualcosa di giusto, ma è l’ingiustizia che non sappiamo ancora superare, nella quale riconosciamo umilmente di essere ancora impastoiati. La violenza che non riusciamo a superare (p. es. mangiare, anche un’insalata) non diventa giusta per il fatto che ci è necessaria, ma resta ingiustizia, anche se attualmente inevitabile.
Naturalmente, ogni violenza residua è tanto più colpevole quanto meno cerchiamo, con impegno e immaginazione, i modi per superarla: la guerra può essere superata, perciò non va giustificata.
Ma riconosco che resta il problema, l’obiezione possibile: se una violenza è tragicamente necessaria (uccidere chi sta uccidendo, se non c’è altro modo di fermarlo), allora è anche dovere e giustizia?
Riformando nella verità e nell’amore la pratica della vita, la nonviolenza riforma le religioni (ogni religione è un’interpretazione del senso della vita), cioè le porta alla loro migliore verità; non permette che sacralizzino questa presente realtà limitata, che consacrino di aura religiosa la realtà così com’è (esse che hanno consacrato spesso la guerra omicida come “guerra santa”!).
La nonviolenza non è una religione fanatica, totalitaria (con pretesa di sapere tutto, vedere e avere tutto), e, influendo sulle religioni, toglie o riduce in esse quei fattori di assolutismo e totalitarismo che le rendono violente.
7 - Né azzardo, né garanzia
Un altro problema: la nonviolenza è una fede provata, dimostrata, certa? Ha la forza dell’evidenza che si impone (dato che evidente è la necessità di eliminare la grande violenza per sopravvivere)? Essa è fondata, anche su esperienze storiche e su esigenze vitali, logiche, politiche, ma non sulla certezza di fatti acquisiti, o sulla dimostrazione scientifica della sua realizzabilità, bensì nell’esigenza umana essenziale di non distruggere ciò che siamo. Come ogni fede non è un puro azzardo, senza ragione e fondamento, ma neppure è un obiettivo garantito. Comporta una fiducia, un “affidamento”, un “far credito”, che è il “credere”, e non lo stringere in pugno una certezza.
Ha una forza di verità, ma ha anche la debolezza della ricerca di ciò che ci manca. La nonviolenza non deve essere fideistica, mitica, ma critica: cioè consapevole della sua in-certezza, delle resistenze presenti nella realtà storica come nelle persone dei nonviolenti, della gradualità, imperfezione, parzialità e quindi delle contraddizioni inevitabili dei suoi passi nella storia.
Vediamo, p. es., la previsione parziale di Gandhi di voler fare a meno dell’esercito, ma di non poter fare a meno della polizia. Pur nella differenza tra forza della polizia e violenza della guerra, Gandhi riconosce la “imperfezione” di questa sua visione e non riesce a superarla.
8 - La politica è mista
Il movimento ampio per la pace ha incontrato questi problemi. Ci siamo anche divisi tra noi nelle valutazioni concrete, recentemente, riguardo alle spedizioni militari italiane di guerra, sul come e quando diminuirle o ritirarle, dati gli equilibri politici italiani difficili, e sul se e come partecipare alla missione Onu in Libano, presentata sperabilmente come di polizia internazionale, di interposizione, sostitutiva dell’unilateralismo bellico statunitense (che ha imperato dal 2001), mentre altri la vedono invece come funzionale a questa politica bellicosa.
È molto dubbio che il personale e le strutture militari siano preparati e adeguati a stabilire la pace; però, oggi, nonostante il generoso volontariato, mancano strutture sufficienti, preparate e sostenute per interventi di pace non armati e nonviolenti.
La politica è sempre mista, mai allo stato puro, quasi mai è una scelta tra bene e male, quasi sempre solo tra approssimazioni incerte all’uno o all’altro. Chi non considera questo fatto, giudica tradimento morale l’accettare questa incertezza, e la dura lentezza del piano politico, che però è necessario per introdurre il valore nella realtà.
Mi spiego con un brano di un’altra lettera a me di Balducci, del 6 novembre 1988 (pubblicata come l’altra suindicata). Il 20 ottobre precedente aveva avuto un dibattito in tv col gen. Carlo Jean, vinto da Balducci. Gli scrissi chiedendogli perché non aveva parlato della difesa popolare nonviolenta. Mi rispondeva, tra l'altro: «Io ritengo che sia venuto il tempo dell’abbandono delle armi, ma a tale scopo mancano ancora le condizioni soggettive della comunità civile di cui faccio parte. Come fare a far maturare l’opportuna coscienza comune? Accettando, come vogliono le regole della dialettica, le posizioni contrarie per dimostrare che esse sono contraddittorie e che dalla contraddizione non si esce se non adottando la posizione di chi tira tutte le conseguenze dalla novità dell’era atomica. Mi basta che nel grande pubblico il mio discorso abbia fatto breccia».
Se, per raggiungere un obiettivo necessario, è necessario attendere che maturino le "condizioni soggettive della comunità civile" e la "coscienza comune", altrettanto è necessario mantenere le condizioni politiche meno peggiori, anche se al momento non raggiungono la capacità di decidere bene su guerra e pace, mentre l'alternativa politica che si minacciava (se sul voto sull'Afghanistan fosse caduto il governo) avrebbe certamente deciso in modo ben peggiore. Con un paragone alpinistico, direi: non lasciare un appiglio nella roccia, seppure precario (un centro-sinistra insoddisfacente), se non ne hai un altro migliore (una maggioranza pacifista), ma rischi (fuor di metafora) una nuova deriva a quella destra che abbiamo conosciuto.
9 - Quasi per conclusione provvisoria
La nonviolenza abbia profondità di impegno (personale e collettivo, di pensiero e di azione) e obiettivi di alto valore, “come” una religione: dedizione e azione radicata nell’interiorità dello spirito, che dà senso al vivere, faticare, morire, verso risultati non tutti a noi visibili.
La nonviolenza sia un ramo di quella “vera religione” che Gandhi vede trascendere e unire tutte le religioni storiche, positive, e tutta la ricerca umana di verità (Enrico Peyretti, Esperimenti con la verità, citato, p. 79); o anche di quella “vera religione” che, nella Bibbia tutta, dai profeti fino al Nuovo Testamento (basti indicare Isaia 58; Matteo 15, 1-9; Marco 12,33; Giacomo 1,27), è la vita giusta, in soccorso attivo al prossimo bisognoso, al contrario del solo culto formalista e ipocrita, o di uno spiritualismo disincarnato.
La religione “vera”, non come superiore giudizio di falsità sulle altre (per Arturo Paoli ciò sarebbe una «dichiarazione di guerra»), ma come religione non esclusiva, ma intera, inclusiva, aperta (Gandhi) e religione operante nell’amore (Bibbia).
Senza pensare, ovviamente, di assorbire o soppiantare le religioni storiche, la tradizione nonviolenta le può fecondare (come sta facendo), riducendo i loro fattori di violenza teologica e morale, e badando di non farsi contaminare dai loro fattori di assolutismo. La nonviolenza è religione sui generis in quanto fiducia in un bene, possibile, presente in seme, da coltivare e sviluppare; ha da essere esempio alle religioni di fede non fanatica, di amore del valore dentro la realtà storica contingente, senza evasioni.
La nonviolenza (come ogni religione) ha qualcosa di assoluto e qualcosa di relativo: se stiamo nell’assoluto ci sembra di avere piena ragione, di essere in piena luce di verità, e se stiamo nel relativo ci sembra di perdere qualcosa. Ma è davvero così? Nel relativo si attua parzialmente – facciamo sì che ciò significhi progressivamente! – la ragione possibile. Nell’assoluto si rischia di sacrificare il reale all’ideale, l’uomo al sabato, lo spirito alla lettera, l’errante alla legge, la parte al tutto, il concreto all’astratto, la pazienza del cammino alla precipitazione violenta nell’arrivo forzato (che non può essere stabile).
La nonviolenza è storicità, è verità nella storia, è «varco della storia» (Capitini) verso la sua liberazione e autenticità.
La nonviolenza è una passione calda e una ragione fredda; è persuasione e amore, ed è anche ricerca, opinione e dubbio; è una strada giusta, non senza inciampi ritardi ed errori; è una fede, con la quale criticare il mondo, ma una fede critica, che si lascia criticare dai fatti e dalla storia; cerca la fecondità lunga nel tempo più dell’efficacia immediata, ma non rinuncia a cercare pronta doverosa efficacia di fronte a offese e dolori patiti dall’umanità violentata. La nonviolenza non può essere semplificata, ridotta ad uno solo di questi suoi lati, senza venire impoverita e tradita. La nonviolenza è gioiosa coscienza di spendere la vita per verità e giustizia, ed è anche, spesso, lavoro faticoso e oscuro nelle radici della nostra umanità personale e, in infinitesima ma reale misura da parte di ciascuno, nelle radici della umanità universale e del suo futuro buono.
Enrico Peyretti
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