Kagame e il premio sulla pena di morte, al di là delle polemiche
In tanta povertà di fatti e di idee, la scelta di Paul Kagame, presidente del Ruanda, come destinatario di un premio «buonista» e «pacifista» brillava per un'insolita acutezza e poteva essere lo spunto giusto per trattare i problemi dell'Africa in modo meno conformista del solito. Purtroppo l'occasione, caratterizzata da inevitabili polemiche, non è stata sfruttata al meglio. Certo, non era nelle intenzioni di nessuno far scadere il dibattito su un soggetto oggettivamente controverso al rango ormai logoro del dittatore africano perdonato e incensato perché prono alla strategia americana, dimenticando pressoché tutto del suo passato di ufficiale dell'esercito dell'Uganda, di capo guerrigliero che ha usufruito di un addestramento militare ad hoc negli Stati Uniti, di «uomo forte» di un regime che doveva porre fine a una guerra civile, di esportatore della guerra in Congo-Zaire prima per rovesciare Mobutu e poi per depredare le sue ricchezze minerarie destabilizzando il governo che proprio l'esercito ruandese aveva contribuito a insediare a Kinshasa e finalmente di capo di stato plebiscitato in elezioni a dir poco dubbie. Alto, magro, occhialetti d'oro, Paul Kagame ha il physique du rôle dello statista dell'era globale ed è stato a lungo gratificato da Washington con l'aureola del «democratico». Con l'ugandese Museveni è diventato l'elemento di punta di quella élite postcoloniale che ha cercato di far uscire l'Africa dal caos applicando un sommario stato di diritto e sposando per filo e per segno la retorica del mercato. L'intreccio di violenza attiva e passiva in cui è maturata e si è affermata la sua leadership lascia capire peraltro quali e quanti siano i passaggi oscuri o decisamente criminosi del suo curriculum, giustificando ampiamente le proteste che da più parti si sono levate per l'incoronazione di Kagame come «abolizionista dell'anno».
È impossibile riassumere in breve le circostanze in cui è avvenuto l'accesso al potere di Paul Kagame e del suo Fronte patriottico ruandese (Fpr). L'anomalia è iscritta nella coincidenza fra la vittoria di Kagame alla testa di un movimento militarizzato di esuli tutsi penetrato in Ruanda dal vicino Uganda e l'eccidio a danno soprattutto dei tutsi residenti per opera delle milizie del governo hutu morente. Per ragioni di comodo, si fa uso qui delle categorie di hutu (la maggioranza numerica della popolazione del Ruanda) e tutsi, sapendo tuttavia che dietro le definizioni etniche ci sono appartenenze e rappresentazioni con valenze più complesse d'ordine politico, sociale e individuale. Il rovello storico, e in una certa misura morale e anche penale, che si accanisce contro Kagame riguarda appunto il rapporto fra la marcia trionfale dei tutsi da una parte e il massacro dei tutsi dall'altra. Quale la causa e quale l'effetto? In termini giudiziari, Kagame, personalmente o attraverso alcuni stretti collaboratori, è inquisito dalla giustizia francese non per il genocidio in sé (come si è scritto) ma per aver organizzato o ordinato l'operazione - atto di guerra o terrorismo - contro l'aereo su cu cui viaggiava il presidente (hutu) del Ruanda. Il presidente Habyarimana stava tornando a Kigali dalla Tanzania dopo un ennesimo round del negoziato fra governativi e ribelli per una tregua. Era il 6 aprile 1994 e subito dopo si è scatenata l'insana strage di tutsi. A rigore, confermando l'ambiguità della dicotomia hutu-tutsi, i primi ad essere uccisi furono alcuni eminenti esponenti dell'establishment hutu considerati troppo teneri con i tutsi.
Sono due le ipotesi circa l'origine dell'atto di quel fatale 6 aprile. La prima è un'accusa a Kagame, che con Habyarimana vivo temeva di doverlo accettare, in proprio o per il tramite di un uomo fidato, come capo anche di un eventuale governo di unità nazionale. La seconda è un regolamento di conti all'interno della comunità hutu fra estremisti e possibilisti. Molti indizi fanno pensare che il genocidio sia stato un'azione preordinata e concordata. Come detto, un procuratore francese ritiene di avere le prove per incriminare Kagame e i suoi. La congiura potrebbe essere stata preparata dagli zeloti del Potere Hutu per una qualsiasi emergenza. Sull'inchiesta della magistratura francese grava il sospetto di una manovra di disturbo per oscurare le molte e imbarazzanti complicità di Parigi con il regime hutu e gli autori degli eccidi.
La strage di tutsi finì quando il Fpr di Kagame conquistò la capitale. Nei mesi successivi ci fu l'esodo massiccio di hutu (difficile distinguere i contadini impauriti dai genocidari) verso il Congo seguito da un contro-eccidio di hutu nei campi di raccolta sul confine mentre era in corso la «guerra di liberazione» dell'allora Zaire da parte di un esercito che faceva capo a Kabila ma che era in realtà una coalizione orchestrata da Ruanda e Uganda con reparti regolari dei due eserciti e molti «tutsi» (in questo caso un'etichetta più politica che etnica) residenti in Congo.
Per anni sulle atrocità commesse in Ruanda hanno indagato due giustizie: quella internazionale (un'agenzia del Tribunale speciale dell'Aja con sede a Arusha) e quella ruandese. Il codice applicato a Arusha esclude la pena capitale. In Ruanda sono state comminate condanne a morte. Il governo di Kagame è stato accusato di voler condizionare Arusha sottraendogli i «nemici» più pesanti e ricattandolo perché non svelasse i segreti dei misfatti in Congo. Nelle condizioni del Ruanda, con migliaia di accusati e una «colpabilità» virtualmente di massa, l'abolizione della pena di morte, che si accompagna a una rivalutazione della giustizia comunitaria accanto a quella formale, acquista un significato che va al di là di una semplice riforma della legislazione. Come ha scritto di recente Wole Soyinka, le procedure di confessione pubblica, perdono e riconciliazione, su cui pure lo scrittore nigeriano ha qualche riserva, almeno nel caso del Sudafrica post-aparheid, possono essere un'ancora di salvezza per l'Africa degli orrori, addirittura un rilancio dell'umanesimo in grado di contagiare nel bene tutto il mondo.
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