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Verso la marcia Perugia-Assisi / Intervista a Flavio Lotti

Pace, pane e politica

Alla vigilia del 7 ottobre, il coordinatore nazionale della Tavola della pace spiega perché il movimento, se vuole puntare concretamente alla pace, deve confrontarsi con la politica. E ai pacifisti “radicali” risponde: «Non possiamo limitare la nostra azione a un progetto di pace che ha un futuro indefinito».
10 settembre 2007
Raffaello Zordan
Fonte: Nigrizia
Settembre 2007

Di sicuro non sarà una passeggiata. Soprattutto dopo la pausa del 2006. Il 26 agosto dello scorso anno le varie anime del movimento per la pace si sono confrontate e scontrate, in seguito alla decisione delle Tavola della pace – composta da una ventina di realtà, tra cui Acli, Beati i costruttori di pace, Arci, Lega Ambiente, Pax Christi, Coordinamento nazionale enti locali – di sostenere la missione Onu in Libano. Risultato: meglio evitare di mettersi in marcia.

Il cammino da Perugia ad Assisi riprende quest’anno, il 7 ottobre, nel segno dei diritti umani. E con qualche ulteriore polemica, innescata dalla scelta di far coincidere la parola “pace” con la parola “diritti”. «Un modo di togliere dall’imbarazzo tanti politici», ha affermato padre Alex Zanotelli. «Spingere sui diritti umani per tutti contribuisce a rendere la nostra domanda di pace ancora più credibile e concreta», ha ribattuto Flavio Lotti, coordinatore nazionale della Tavola della pace. Entrambi sono, comunque, disponibili a un dialogo «ampio e franco».

Il nodo è politico. Il movimento è capace di dialogare con la politica, in piena autonomia di analisi e di proposta, e contemporaneamente di stare con il fiato sul collo di chi deve decidere? Oppure il movimento deve mantenersi “altro” dalla politica, indicando obiettivi alti?

Abbiamo chiesto a Flavio Lotti di provare a sciogliere qualche nodo.

Come nasce la decisione d’incentrare la marcia sui diritti umani? Ha a che vedere con il rilancio dell’iniziativa, dopo lo stop del 2006?

Nasce all’indomani dell’ultima edizione della Perugia-Assisi, che si svolse l’11 settembre 2005 per ricordare gli eventi del 2001. Poi, nel gennaio 2006, celebrando ad Assisi i 10 anni della Tavola della pace, abbiamo iniziato a elaborare il tema della nuova marcia e delle iniziative collegate.

La ragione politica della scelta è chiara. Rimaniamo convinti che, se davvero vogliamo promuovere la pace per tutti, dobbiamo continuare a contrastare, a prevenire e a risolvere le guerre, intervenendo anche sui processi di riarmo. Ma, nello stesso tempo, dobbiamo riconoscere che non c’è pace per centinaia di milioni di persone che, pur non essendo coinvolte direttamente in una guerra, vivono una condizione di estrema sofferenza e di umiliazione, perché spogliate dei propri diritti e della propria dignità.

Dunque, promuovere “tutti i diritti umani per tutti” (slogan che avevamo già proposto dieci anni fa in occasione del 50° della Dichiarazione universale dei diritti umani) vuol dire che ci deve essere pace vera per tutti. E non puoi stare in pace quando non hai cibo per te stesso e per la tua famiglia, quando non hai acqua da bere, quando non hai un lavoro. Non vivi in pace quando l’aria che respiri ti fa male, a causa di uno sviluppo economico fondato su criteri inaccettabili.

In questi ultimi mesi, lei ha affermato più volte che va colmato il vuoto che c’è tra politica e pace. Che cosa significa per i variegati movimenti che costituiscono il movimento per la pace?

Colmare il vuoto tra politica e pace è l’obiettivo più alto della marcia e delle iniziative di ottobre. C’è bisogno di una politica nuova e di una nuova cultura politica fondata sui diritti umani.

Ciò vuol dire che non è possibile costruire la pace semplicemente con il “fai da te”, con i gesti di bontà e di generosità, con il volontariato. Sono tutte azioni preziosissime, indispensabili; spesso sono il sale della nostra vita. Ma da sole non bastano a rispondere alla crescente domanda di giustizia e di pace. Serve la politica. E se guardiamo alla politica, sia in chiave mondiale sia a livello italiano, non possiamo non renderci conto di quanta distanza c’è tra gli appelli, le sollecitazioni e le proposte formulati in tutti questi anni dalle società civili (ma anche dalle chiese e delle Nazioni Unite) e le politiche messe in campo dai governi.

Guardando alla politica di casa nostra?

Dobbiamo mettere fine a quello che io chiamo il “paradosso italiano”. L’Italia ha il più grande numero di persone, organismi, associazioni, enti locali impegnati con continuità nella promozione della pace e della giustizia nel mondo. Uno straordinario impegno, verso il quale la politica si dimostra pressoché sorda.

Con il governo Berlusconi questa sordità ha toccato il suo culmine, con l’appoggio alla guerra all’Iraq, nonostante il 70% degli italiani fosse contrario. Con Prodi la situazione non è cambiata radicalmente. Ci sono delle luci, ma siamo ancora molto lontani da quella saldatura con la società civile che potrebbe rafforzare e valorizzare l’impegno per la pace dell’Italia. A questo riguardo, stiamo preparando un rapporto che presenteremo alla vigilia della marcia.

Tra le luci, l’aumento dei fondi della cooperazione internazionale: con Berlusconi siamo scesi all’ultimo posto nella classifica dei paesi occidentali; con Prodi c’è stata una piccola inversione di tendenza, anche se siamo rimasti al terzultimo posto. Di segno
positivo è anche il disegno di legge per la modifica della Bossi-Fini sull’immigrazione. Aspetti negativi sono l’aumento delle spese militari e la vicenda della base Usa di Vicenza. Permane l’atteggiamento di chiusura nei confronti dei costruttori di pace: chi governa continua a ritenere la politica estera e di sicurezza monopolio di un ristretto club, che non dialoga con chi è impegnato su questi temi e potrebbe contribuire ad accrescere la credibilità e il ruolo internazionale di pace dell’Italia.

Torniamo agli equilibri interni al movimento per la pace. Che cosa intende quando afferma che la marcia di ottobre dovrà far emergere un pacifismo politico? Esiste forse un pacifismo antipolitico o un pacifismo qualunquista?

Ci sono alcune realtà, alcune esperienze del movimento per la pace che considerano la politica in modo così negativo da escludere qualsiasi possibilità di interlocuzione. Ritengono, cioè, che con la politica ci si possa solo scontrare e, sulla base dei rapporti di forza, ottenere o non ottenere ciò che si vuole.

È una posizione legittima. Che io ritengo sbagliata. Non si può dare della politica un giudizio negativo al cento per cento. Inoltre, penso che il compito del movimento per la pace non possa essere soltanto quello di sollecitare le coscienze e una maggiore consapevolezza dei cittadini. Noi abbiamo la responsabilità di fare i conti con il tempo in cui viviamo e di cercare di dare risposte concrete in modo tale che la politica – che è l’alternativa alla guerra, non dimentichiamolo – possa svolgere il ruolo che le spetta.

Ci dobbiamo confrontare su questo: in che modo oggi possiamo costruire, non una pace generica, ma la pace concreta per la gente che vive senza avercela. Se penso ai baraccati di Nairobi, ai palestinesi e agli israeliani, all’Iraq, all’Afghanistan, al Libano, se penso a tutte queste condizioni di non pace, ritengo che noi abbiamo il dovere non solo di invocare la pace, ma anche la responsabilità di vedere in che modo – con le condizioni che ci sono attualmente – far avanzare un processo reale di pace.

Si può dire che questo pacifismo politico si candida non solo a sottolineare le storture e le ingiustizie, ma anche a governare processi di cambiamento, a essere parte attiva assieme alla politica?

La responsabilità di governare spetta comunque ai governi e alle istituzioni. Società civile, movimenti e enti locali hanno un ruolo diverso: nostro compito è indicare e, per quel che è possibile, praticare (con i nostri progetti e con la nostra esperienza) le vie concrete che ci possono portare alla pace.

Esempio. Praticare la pace oggi a Gerusalemme significa spingere i nostri governi a mettere in campo subito un piano per una pace definitiva. E non continuare a discutere se bisogna negoziare o meno con Hamas. È ovvio che bisogna negoziare anche con Hamas, così come bisogna negoziare con la destra israeliana che non è disponibile a trattare nemmeno con la parte moderata palestinese. Dialogare vuol dire gettare le basi per la costruzione della pace. Le proposte concrete per la pace nella regione sono tutte arcinote; manca la volontà politica di attuarle. Spetta a noi far crescere la pressione intorno alla politica, perché si assuma le proprie responsabilità.

A chi si riferisce quando parla di settori del movimento che non ritengono di dover interloquire con la politica? Ai no global, ai centri sociali, al cattolicesimo radicale e terzomondista?

È un mondo molto composito. Storicamente c’è sempre stata un’anima pacifista che ritiene che la pace si possa ottenere soltanto quando ci sarà il cambiamento delle singole persone. È un’aspettativa corretta, ma non possiamo limitare la nostra azione a un progetto di pace che ha un futuro indefinito. Il cambiamento della cultura e della mentalità, che è fondamentale ed è una delle componenti del nostro agire come movimento, da solo non risponde alla domanda di pace che pone oggi la gente in carne e ossa.

Ci sono pezzi di movimento che vengono dalla politica ma sono delusi della politica; ci sono componenti più radicali di pensiero che non sanno o non vogliono coniugare l’impegno e l’interlocuzione con la politica; ci sono alcuni che pensano che la pace non c’entri niente con la politica. Queste tendenze pensano, cioè, che la politica sia una cosa sporca e la pace debba essere una cosa pulita. E, sulla base di questa considerazione, non si arriva a riconoscere che i cambiamenti possono avvenire o con la violenza o attraverso una via pacifica. Noi che rifiutiamo la via violenta, la cui massima espressione è la guerra, dobbiamo impegnarci a percorrere la via pacifica che la democrazia ci offre: la via della politica.

Note: 7 giorni di pace

La Marcia Perugia-Assisi , in programma il 7 ottobre, sarà anticipata dalla “Settimana per la pace”. Dal 1° al 7 ottobre, infatti, si svolgeranno in molte città italiane iniziative, convegni e dibattiti sul tema, organizzati da gruppi, associazioni, scuole ed enti locali.

Tra gli appuntamenti più importanti, da segnalare:

• il 2 ottobre, a Roma, in occasione della prima Giornata internazionale della nonviolenza proclamata dall’Onu, rappresentanti di gruppi ed enti locali impegnati per la pace chiederanno di essere simultaneamente ricevuti da governo e parlamento;

• il 3 ottobre, ad Assisi, un incontro degli operatori dell’informazione nell’ambito della seconda Giornata nazionale per un’informazione e comunicazione di pace;

• il 4 ottobre, festa di san Francesco, sarà celebrata la terza Giornata nazionale della pace, della fraternità e del dialogo, istituita dal parlamento;

• il 5 e 6 ottobre, a Perugia, la settima Assemblea dell’Onu dei Popoli, sul tema: “Un altro mondo è possibile se promuoviamo tutti i diritti umani per tutti”;

• il 5 e 6 ottobre, a Terni, la terza Assemblea dell’Onu dei giovani, con il titolo “Giovani in azione per i diritti umani e la pace”.

Per maggiori informazioni e per adesioni, si può consultare il sito: www.perlapace.it.

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