Presidente ribelle
Le notizie rimbalzano rapide per le vie di Ouagadougou in questa stagione di hivernage, delle piogge. Che, generose, promettono bene per i raccolti. Ma sono troppo abbondanti, e diverse regioni nell’ovest, nel nord e nell’est sono flagellate da inondazioni che distruggono i campi e mettono in ginocchio i villaggi di conca. Di fronte all’epidemia di meningite dei mesi scorsi e alla carestia (che ha investito centinaia di migliaia di persone in una decina di province), il governo ha dato forfait, riconoscendo la sua impotenza e rimettendosi alle piccole elemosine internazionali.
Ci si poteva aspettare che, nella gestione delle emergenze diffuse, i poteri locali, messi in piedi nel quadro del decentramento amministrativo, avrebbero portato un contributo apprezzabile. Ma, come si dice da queste parti, lo stato ha decentrato i problemi, non però le risorse.
Attorno a ferragosto, intanto, sono stati annunciati i risultati dell’ultimo censimento. La popolazione cresce in modo esplosivo: qualcosa come 340mila persone l’anno, tra il 1996 e il 2006. Il che vuol dire che un quarto dei burkinabé è nato nell’ultimo decennio. Una vera bomba demografica a orologeria, un fardello pesantissimo per un paese che deve importare di tutto e continua ad affidare al cotone l’essenziale delle sue esportazioni: una monocultura soggetta ai corsi internazionali, su cui il Burkina Faso non ha nessun controllo. Si tratta di una storia esemplare di mondializzazione asimmetrica. Di cotone infatti, direttamente o indirettamente, vive la metà della popolazione burkinabé. Ma il fiocco, che era stato pagato 210 franchi cfa al contadino cinque anni fa, nella scorsa stagione ha toccato appena 150 franchi cfa al kg. Gli Usa, d’altronde, “sussidiano” la loro produzione cotoniera con oltre 4 miliardi di dollari, sottraendo risorse e benefici a milioni di produttori saheliani, contro ogni regola di libero mercato.
Riconvertire, allora, le superfici destinate all’oro bianco? Per coltivare cosa? I prodotti alimentari hanno oscillazioni di prezzo ancora più violente. D’altra parte, la spinta verso il cotone è troppo forte, e una vera e propria febbre dilaga ormai nell’est del paese, che si affianca all’ovest, tradizionale produttore. Forse occorrerebbe trasformare in loco il cotone, invece di limitarsi a esportarlo come materia prima. Bisognerebbe che qualcuno ci pensasse…
Frattanto, i pastori peul sono tornati dalle loro transumanze sui terreni destinati al pascolo, verdi di erbe e ricchi di pozze d’acqua. L’attività pastorale, a volte così bistrattata, per fortuna tiene e, come seconda voce delle esportazioni, aiuta a reggere i disastrosi impatti del petrolio alle stelle.
LA FIGURA
“Radio Trottoir” (radio passaparola), naturalmente, evoca di frequente il 15 ottobre e le manifestazioni che in Burkina – come altrove in Africa e nel mondo – commemoreranno il ventesimo anniversario dell’assassinio di Thomas Sankara, falciato dalla mitraglia dei golpisti e dichiarato morto di morte naturale da un medico dell’esercito.
Per cosa fu abbattuto quest’uomo? Per un paese che continua a essere sballottato dalle emergenze, che viene considerato da decenni tra i più poveri del mondo e che, peggio ancora, langue da tempo tra i fanalini di coda dello sviluppo umano?
Il capitano sapeva: era giovane, dogmatico, ma non sprovveduto. Era carismatico, ma non esaltato. La lezione della sua collaborazione nei governi di Saye Zerbo (1982) e Jean-Baptiste Ouédraogo (1983), in qualità di ministro e addirittura di primo ministro, gli aveva fatto capire che non c’erano compromessi possibili con i poteri avvinti alle centrali della Françafrique, la rete di interessi politico-economici che per decenni ha gestito, de facto, i rapporti della Francia con l’Africa, quale che fosse l’inquilino dell’Eliseo.
Il capitano sapeva: la sola alternativa era la rivoluzione. Ma la sua stessa rivoluzione, dal 1983 in poi, gli aveva fatto comprendere molte cose. Il suo programma politico, il suo linguaggio diretto nell’Africa soporifera dell’Oua (l’Organizzazione per l’unità africana) avevano fatto scalpore: parola agli esclusi, mobilitazione delle campagne, emancipazione personale e ruolo sociale della donna, codice della famiglia, lotta alla corruzione, caccia ai privilegi, contestazione del debito estero... L’orgoglio nazionale comincia ad avere un senso. Il celebre slogan “Consumiamo burkinabé” fa il paio con l’idea di autoaggiustamento.
Di fronte alla presa di distanza della Francia e delle istituzioni internazionali, Sankara trova un formidabile alleato nelle organizzazioni non governative, che riescono a finanziargli qualcosa come un quinto delle sue riforme, attraverso una rete fittissima di microprogetti a tecnologia leggera.
Errori e orrori
Tuttavia, il nazionalismo rivoluzionario non riesce a impedire gli eccessi dei discorsi e delle pratiche di mobilitazione. È ben noto lo zelo dei cdr (comitati di difesa della rivoluzione), che utilizzano i loro temibili poteri amministrativi, economici e giudiziari per sanzionare comportamenti troppo facilmente definiti “antisociali”.
Ma ben più importanti scosse minano progressivamente l’esperienza rivoluzionaria. Il Cnr (Consiglio nazionale della rivoluzione) subisce la crescente influenza dei “dottrinari”, militari e fazioni comuniste di varia ispirazione (pro-cinesi, pro-sovietici, persino pro-albanesi), che non riescono a risolvere il problema del consenso. Anzi, seguendo il filo delle loro analisi autoreferenziali, si staccano dalla realtà africana. Si afferma la tendenza manichea che divide il mondo in “buoni” e “cattivi”. E tra questi ultimi non si esita a porre i sindacati, che reclamano il ripristino delle “libertà democratiche”.
Stride l’ambiguo posizionamento dell’islam, “la religione dei commercianti”, considerati alla stregua di sfruttatori del popolo. La riscossa contadina viene giocata in qualche modo contro i salariati urbani, che vedono diminuire di un terzo il loro potere d’acquisto in quattro anni.
Ma, soprattutto, rimane irrisolto il problema dell’integrazione delle culture e dei sistemi basici nell’ordine rivoluzionario. Nella tradizione di molti popoli burkinabé, i giovani e le donne non hanno coscienza sociale in quanto tali, ma sono categorie non istituzionalizzate. La rivoluzione combatte come “feudali” i poteri basici (le famose chefferies) e, però, non riesce a sostituirli con dispositivi efficaci di gestione sociale delle campagne. Ne è prova una riforma agraria che non viene attuata neppure dai cdr, che preferiscono non turbare l’ordine basico, al di là di piccoli compromessi locali.
Nuovo consenso
Ecco, questo aveva capito, infine, il compagno-presidente, mentre s’annunciava la caduta del muro di Berlino: dopo quattro anni di rivoluzione, doveva creare nuove basi di consenso al suo progetto, ancorando la ricomposizione delle alleanze sociali nella realtà urbana e rurale del paese, e non nelle astratte risoluzioni ideologiche di stampo tropico-marxista, che pure lo avevano sedotto al tempo del Roc (Raggruppamento degli ufficiali comunisti). Non a caso, nel discorso dell’anno 5° (4/8/1987), Sankara evocava, sì, l’indispensabile «unità dei rivoluzionari», ma annunciava «la pausa di cui abbiamo bisogno per consacrare i nostri sforzi ai compiti di organizzazione politica».
Ed è tutto questo, per contro, che non avevano capito i dottrinari del Cnr che l’hanno eliminato, appoggiandosi a Blaise Compaoré. Il nuovo presidente, del resto, spariglia subito tutte le carte, ripudiando il suo passato di co-fondatore del Roc e di luogotenente della rivoluzione sankarista. Cavalca la tigre delle “transizioni democratiche”, facendosi eleggere una prima volta nel 1991 e consolidando un sistema “compaorista” della politica burkinabé. In ambito interno, si sedimentano le pratiche autoritarie e corruttive, ben mimetizzate dai poteri in carica. Chi le ha denunciate è stato emarginato, come lo storico Joseph Ki-Zerbo, oppure è stato puramente e semplicemente liquidato, come Norbert Zongo, combattivo fondatore del giornale L’Indépendant.
Ma questi sono anche gli anni in cui il Burkina Faso si trasforma in una piattaforma obliqua, da cui transitano i traffici più scottanti. Nulla mai è stato davvero provato, sia chiaro, ma organi di stampa, ong, studiosi e osservatori per i diritti umani scovano, indipendentemente gli uni dagli altri, indizi ricorrenti che conducono a Ouagadougou. Sono le piste torbide delle armi in cambio di diamanti in Liberia, Sierra Leone, Angola; quelle che veicolano le mire di Gheddafi nell’Africa subsahariana; quelle che s’intrecciano alla crisi ivoriana o al colpo di stato in Niger contro Baré Maïnassara.
Potere a vita
Frattanto, il potere del presidente diventa a vita: Compaoré, dopo 18 anni di presidenza, è eletto per la terza volta nel 2005, con la solita maggioranza bulgara. Elezioni che non tranquillizzano il capo dello stato, a quanto pare. Che, infatti, cerca di consolidare la propria legittimità attraverso plateali processi di riconciliazione nazionale, richiamandosi all’esperienza del Sudafrica, ma dimenticando l’idea portante di quell’esperienza, ossia che non può esservi conciliazione senza verità. Il volto buonista del presidente, la sua generosità nel risarcimento finanziario delle vittime di crimini politici, non possono sostituire il bisogno di chiarezza. Una chiarezza, del resto, che il sistema giudiziario, inadeguato per uomini e mezzi, non può assicurare, favorendo così la diffusione di quella “cultura dell’impunità” che autorizza ogni arbitrio.
Sugli altopiani mossi, nelle terre jula, bobo, gurma, germa e fulbé, spazzati dal vento dell’harmattan, Thomas Sankara sognava un progetto di restaurazione della politica in un’Africa, dove – specie in quegli anni – la politica era stata confiscata dagli ultimi fantasmi della Guerra Fredda, dagli appetiti crescenti delle multinazionali, dalle grottesche ricette di “aggiustamento strutturale” dei giovanotti del Fondo monetario internazionale e della Banca mondiale. Errori ne sono stati compiuti, certo; eppure si andava profilando un inedito orizzonte della politica, rivolta a conciliare i valori dei principi con il pragmatismo dell’azione. Sankara, per questo decisivo aspetto della ricerca “africana” di una politica per l’Africa all’altezza dei tempi nuovi, può essere accostato a Nelson Mandela, piuttosto che ai grandi africani che l’hanno preceduto, da Nkrumah a Nyerere e a Lumumba.
L’assassinio di Sankara è più che un omicidio, che attende, comunque, giustizia, come anche le Nazioni Unite hanno riconosciuto nel 2006. E va ben oltre un colpo di stato, così anacronistico alla vigilia dei terremoti epocali di fine millennio. È un delitto contro la res publica, che ha impedito a una speranza di diventare storia e di sostenere l’Africa nella drammatica conquista della sua propria modernità politica.
21 dicembre 1949: Thomas Sankara nasce da una famiglia cattolica a Yako (Alto Volta).
1966: inizia la sua carriera militare; viene formato come ufficiale dell’esercito in Madagascar.
Settembre 1981: diventa segretario di stato per l’informazione nel governo del colonnello Saye Zerbo;
21 aprile 1982: si dimette dalla carica.
10 gennaio 1983: è nominato primo ministro dell’Alto Volta, dopo il colpo di stato di Jean-Baptiste Ouédraogo.
17 maggio 1983: il presidente Ouédraogo fa arrestare Sankara e lo destituisce dalla carica di primo ministro;
31 maggio: dopo violenti scontri e manifestazioni popolari, Ouédraogo è costretto a liberarlo.
4 agosto 1983: golpe militare; Sankara (34 anni) diventa capo di stato.
2 ottobre 1983: nel suo discorso di orientamento politico, definisce “antimperialista” l’ideologia della rivoluzione.
4 agosto 1984: Sankara cambia il nome al paese: da Alto Volta a Burkina Faso (“il paese degli uomini giusti”).
15 ottobre 1987: è decapitato assieme a dodici suoi col-laboratori, nel corso di un colpo di stato, organizzato dal suo vice, Blaise Compaoré.
Carovana e dibattiti su Sankara
Il 15 ottobre 2007, sono 20 anni dall’assassinio di Thomas Sankara. Se la data della sua morte è commemorata ogni anno in molte parti del mondo, il 20° anniversario risuona come un momento di forte riflessione. Proprio per questo motivo, il 2007 è stato dichiarato “Anno Thomas Sankara”. La dichiarazione ha fatto seguito al desiderio e all’impegno degli alter-mondialisti riuniti a Bamako, nella Repubblica del Mali, nel 2005. Per celebrare degnamente l’anniversario, a Ouagadougou, in Burkina Faso, sono attesi delegati che provengono da paesi africani, europei e americani... In questa occasione, si terrà un “Simposio internazionale sul pensiero e l’azione del presidente Thomas Sankara”, con l’obiettivo generale di formulare e promuovere gli ideali del leader assassinato. Nel frattempo, la famiglia Sankara, assieme ad artisti africani e latino-americani, ha organizzato una carovana internazionale che ha percorso diversi paesi, fra i quali l’Italia, per terminare a Ouagadougou proprio il 15 ottobre. Le due tappe italiane erano previste a Milano (il 29 settembre) e a Roma (il 1° ottobre).
Articoli correlati
- Appello di Alex Zanotelli da Nigrizia
Riace Riparte. Sosteniamo la Campagna
Considero Mimmo Lucano, sindaco di Riace, un amico. Di più, un fratello, uno di famiglia. Hanno rafforzato questo legame i dieci giorni passati con lui e suoi concittadini lo scorso agosto, in occasione di un campo di lavoro organizzato dai missionari comboniani.13 novembre 2018 - Laura Tussi - Aderisci alla petizione inviando un messaggio a antoniomele @ yahoo.fr
Il Premio Galileo a Blaise Compaoré è una vergogna intollerabile
Consideriamo oscure le ragioni che hanno portato a tale scelta, vista l'implicazione di Compaoré nell'assassinio del presidente Thomas Sankara, per pochi anni speranza dell'Africa libera.18 giugno 2008 - Missione armata ONU-UE in Ciad e Repubblica Centrafricana
Neutralità a rischio
Operazione militare nelle aree di confine con il Darfur. Ma c'è il timore che non sarà un'operazione indipendente: la guiderà la francia, il cui ruolo ambiguo nella regione non la rende interlocutrice imparziale16 ottobre 2007 - Gianni Ballarini "Abbiamo le prove: è un criminale"
parla Elio Boscaini, il prete comboniano che contesta la scelta di premiare il dittatore ruandese a Roma31 agosto 2007 - Marco Boccitto
Sociale.network