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Intervista a Sergio Romano

Iraq: resistenza o terrorismo?

Gli attentati, la guerriglia e i militari occidentali. L'ex ambasciatore risponde a proposito di chi lo ha criticato per aver usato la parola "resistenza" per quanto riguarda l'Iraq.
21 novembre 2003
Fonte: «I rischi della guerra asimmetrica» - Liberazione 16 dicembre 2003
http://www.liberazione.it/giornale/031116/LB12D6BA.asp

«La situazione in Iraq, più del Vietnam, ricorda lo scenario che trovarono i russi in Afghanistan. Il nemico non ha nessuna intenzione di controllare il territorio, ma è ovunque. E insidia l'avversario con i mezzi classici di una guerra asimmetrica, ovvero non sfidandolo in campo aperto ma con attentati e guerriglia. L'epilogo di questa guerra è ancora tutto da decidere, molto dipenderà dalle operazioni militari, ma altrettanto dai dodici mesi che ci separano dalle elezioni americane». Alle domande di Liberazione sugli sviluppi della situazione in Iraq, l'ambasciatore e analista politico Sergio Romano insiste più volte sul termine «guerra asimmetrica». Per spiegare i rischi militari della missione come l'attentato costato la vita a 19 militari italiani. Ma anche per chiarire le polemiche che da destra hanno criticato la sua definizione di «resistenza irachena».

Oggi (ieri, ndr) in Turchia, tre giorni fa Nassiriya e la scorsa settimana Riyad. Gli attentati e al Qaeda c'erano prima dell'intervento in Iraq, ma forzando un bilancio provvisorio si direbbe che per ora l'effetto domino in Medio Oriente è quello della escalation e della violenza. Condivide?

In un certo senso condivido. Devo dire che gli attentati mantengono una tipologia diversa, ma la presenza Usa in Iraq ha avuto certamente l'effetto non desiderato di creare un obiettivo visibile contro cui i terroristi possono ora mobilitarsi. In altre parole c'è oggi un avversario concreto. Non dimentichiamo che esiste dalla fine degli anni '70 una sorta di legione araba che si è costituita grazie alle molte guerre in cui il mondo islamico è stato coinvolto. Afghanistan, Bosnia, Algeria, Kosovo, Cecenia, Azerbaijan, Armenia, Timor e ancora. Il campo di battaglia è oggi l'Iraq.

A Baghdad non sembrano esserci i presupposti per l'equilibrismo entico-tribale instaurato a Kabul, non si trova il Karzai iracheno e manca il Pakistan di turno, anzi l'Iran è stato avvertito di non impicciarsi. Oggi gli Usa parlano di un cambio di strategia e trasferire il potere ai locali. A suo avviso quali saranno le mosse concrete di Casa Bianca e generali? Torneranno a chiedere aiuto all'Onu?

Non credo che vogliano cambiare la loro politica e rivolgersi all'Onu. Desidererebbero maggiore avallo dalle Nazioni Unite, ma non al prezzo di rinunciare al controllo. Però occorre tener presente che il problema con l'Onu rischia di riaprirsi già a metà dicembre, data in cui il mandato fissa il termine per fornire un calendario politico-istituzionale. Vorrebbe dire fissare l'assemblea costituente, la costituzione, le elezioni. Sembra invece che quello che accadrà sarà una soluzione di ripiego con un governo non eletto e un'assemblea legislativa eletta da notabili, sceicchi e poteri locali. Bisogna vedere come l'Onu reagirà di fronte a questo programma, che appare diverso da quello che avevano chiesto con la risoluzione.

E' stato criticato per aver usato la parola resistenza per quanto riguarda l'Iraq. Vuole spiegare meglio come definirebbe gli armati iracheni?

Anzitutto, nel corso del ventesimo secolo, alcune parole hanno assunto connotazioni positive o negative. Resistenza è positiva. Guerriglia ha assunto una connotazione meno positiva ma tutto sommato associata al concetto di guerra di liberazione, popolare, legittima. Mi rendo conto che usare una parola che ha un significato positivo in un altro contesto può creare una certa repulsione. Tuttavia, francamente, non vorrei lasciarmi imbrigliare dalle parole. Le uso per quello che significano e basta. In questo senso la gente che resiste è resistenza. Poi se resistano per buone o cattive ragioni è tutto da decidere. Ma non credo che si possa permettere alle parole di tiranneggiare chi le usa. Bisogna partire da una costatazione, dal fatto che è una guerra asimmetrica. A livello militare una parte dispone di tutto e l'altra di niente. Quindi non va a combattere sul terreno del primo, ma dove l'avversario è più vulnerabile. In altre parole colpisce sotto la cintura. Come posso affrontare un avversario come la prodigiosa potenza militare americana? Con i mezzi dove lo colgo impreparato.

Oltre all'etimologia c'è un corollario etico, una sorta di disumanizzazione del proprio nemico. Dopo l'11 settembre da noi si chiamano «guerre al terrorismo» confilitti che hanno più a che fare con irredentismo, rivendicazioni sociali o altro. Ma nei Paesi arabi si guarda al Jazeera e le mamme che piangono sono musulmane mentre i carnefici spesso occidentali. Il nemico è sempre cattivo e disumano?

Non mi stupisco. La disumanizzazione dell'avversario inizia con le società di massa, non è una novità. E' un fenomeno del novecento principalmente, ma si intravede già nella guerra franco-prussiana. Perché non si possono far combattere le masse senza banalizzazre e semplificare il conflitto. L'ho visto fare in questo secolo dall'Urss, dagli Usa, dalla Gran Bretagna o dalla Germania. Se si vogliono far combattere e morire milioni di persone occorre dipingere l'avversario come un essere spregevole, da eliminare.

Condivide il rischio di una «vietnamizzazione», cioè che gli Stati Uniti e i «volenterosi» che li aiutano possano essere costretti ad andarsene dall'Iraq?

In Vietnamn c'era un esercito in uniforme con ufficiali, il quartier generale, uno Stato, un territorio e dei legami internazionali. Era una guerra classica. La situazione irachena ricorda più quella dei sovietici in Afghanistan nel '79. Anche Mosca controllava il territorio, teoricamente. In realtà il nemico era dappertutto e non voleva conquistare il territorio. Altrimenti sarebbe diventato vulnerabile.

Il rischio che l'epilogo sia lo stesso che in Afghanistan?

Questo penso sia presto per dirlo. Se ad esempio prendono Saddam o altri importanti leader porebbe cambiare tutto. Se la cosa si trascina, o cresce nel tempo, il rischio c'è. Molto dipende però da una scadenza. Questa scadenza sono le elezioni americane. In questi dodici mesi gli avvenimenti iracheni si incrocieranno con la campagna elettorale. Bisogna vedere chi sarà eletto, come e con quali attese della pubblica opinione.

La mutua deterrenza è alle spalle, ma a sentire Sharon e Bush il problema della proliferazione si risolve a forza di ultimatum e conflitti. Lei ha una lunga militanza di politica estera alle spalle, pensa ci siano strade alternative?

Io ho sempre avuto l'impressione che la battaglia contro la proliferazione fosse una battaglia comprensibile e giustificabile, ma virtualmente perduta. Se vediamo le cosa dall'Occidente la decisione di un governo di acquisire armi nucleari è una minaccia per la pace nel mondo. Però se fosse indiano e avesse sulla testa la Cina armata fino ai denti e non proprio amichevole forse si sentirebbe semplicemente più sicuro con la bomba atomica. Il trattato di non proliferazione, che gli Usa hannno immaginato come uno strumento, è un po' come l'aspirina. Nel senso che cura i sintomi, non la malattia.

Ivan Bonfanti

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