«Obiettori in divisa»
«A me non è lecito prestare il servizio militare, poiché sono cristiano. Non posso fare del male». Siamo nel 295 d.C. e a parlare, davanti al tribunale di Roma, è Massimiliano, poi condannato alla decapitazione per il suo rifiuto di fare il soldato (e per questo canonizzato dalla Chiesa). Se da allora le guerre non hanno mai smesso di insanguinare il mondo, anche quel «no» ha continuato a risuonare nella storia. Fino ai giorni nostri. Molte le motivazioni, religiose o laiche, ma sempre legate al primato irriducibile della propria coscienza sulle follie del «sistema».
Nel marzo 2006 il Pentagono ha registrato almeno 8mila disertori per motivi di coscienza tra le fila dell’esercito Usa dall’inizio della guerra in Iraq. Ma il fenomeno è esteso in molti altri Paesi, dalla Russia alla Turchia, da Israele all’Europa fino alla Cina. Ed è spesso sottostimato. Diversi i tempi e le modalità del rifiuto della guerra: ci sono gli obiettori di coscienza, i renitenti alla leva, i disertori. Tutti rischiano pene che, a seconda dei Paesi, possono arrivare anche a qualche anno di carcere o addirittura alla pena capitale nei regimi più oppressivi. Lo stesso Regno Unito ha cominciato a stringere le maglie della giustizia con l’Armed Forces Act del 2006, che minaccia l’ergastolo per i cosiddetti refusnik (termine entrato nel linguaggio corrente, in Israele e non solo, per indicare i soldati che, per motivi di coscienza, rifiutano di obbedire agli ordini), anche se per ora i provvedimenti sono più blandi: un tenente medico della Raf, Malcolm Kendall- Smith, è stato condannato a otto mesi per il suo rifiuto di recarsi in Iraq.
SEGNALI DI INSOFFERENZA
rifiutato di partire.
Dopo una campagna internazionale in cui ha svolto un ruolo determinante la madre, Carolyn Ho, con il nostro supporto, il processo è stato dichiarato nullo. Ma ora Watada rischia un secondo processo e una condanna a sei anni di carcere. A fine novembre sono 2.077 i militari in servizio che hanno firmato l’Appeal to Redress, per il ritiro di tutte le truppe e delle basi americane dall’Iraq».
Secondo un rapporto del settembre 2007 del Government Accountability Office, fra il 2002 e il 2006 negli Usa sono state presentate 425 domande di obiezione di coscienza. «Il numero basso può essere spiegato con l’iter procedurale lungo e complesso - rivela Stephanie Westbrook, attivista di Us Citizens for Peace & Justice, associazione di cittadini americani con base a Roma -, che ha una probabilità non superiore al 50% di essere approvato. Il risultato è che molti soldati scelgono di disertare. Si tratta di un fenomeno in crescita, probabilmente superiore a quanto viene dichiarato, grazie anche all’esempio di coloro che si sono mostrati pubblicamente e all’appoggio della società civile.
Quest’ultima ha un ruolo fondamentale, sia per dare coraggio ad altri militari che stanno pensando di intraprendere la stessa strada, sia per attirare l’attenzione della stampa, con la speranza che sotto i riflettori dei media i soldati vengano trattati meglio. Anche il gruppo Iraq Veterans Against the War ha deciso di fare del sostegno agli obiettori una sua priorità».
DAL CURDO AL CINESE
A registrare una massiccia renitenza alla leva è anche lo Stato di Israele, che negli ultimi anni ha inasprito la repressione verso i refusnik. Una prima ondata si ebbe nel 2001, quando venne diffusa una lettera aperta di 500 studenti delle scuole superiori, che dichiararono apertamente di non voler fare il militare nei territori occupati. A quella lettera seguirono oltre mille rifiuti sia all’arruolamento sia al combattimento.
Due anni dopo fece scalpore il caso dei «Cinque»: Haggai Matar, Noam Bahat, Adam Maor, Shimri Zameret e Matan Kaminer. «Vennero ripetutamente incarcerati, per un totale di due anni ciascuno, ma l’esercito fu costretto a congedarli nel 2004 - racconta Riva -. Ora l’esercito ha cominciato a mettere in prigione anche alcune donne, come Laura Milo nel 2004 e Hadas Amit nel 2006, poi entrambe congedate dall’esercito ».
Di segno decisamente diverso, ma comunque significativo, è il caso di una ventina di militari israeliani politicamente vicini alla destra religiosa che, nell’estate 2005, si sono rifiutati di eseguire lo sgombero della colonia di Gaza ordinato dal governo di Ariel Sharon. Spostandoci a Est, la feroce repressione del popolo ceceno registra tuttora non poche defezioni tra le fila dell’esercito russo. Un articolo dell’International Herald Tribune, del giugno 2005, rivela come nella patria di Tolstoj non siano più del 10% gli uomini in età di leva a fare il servizio militare. Si stimano a migliaia anche i disertori, che rischiano fino a sei anni di carcere. Minori informazioni vengono invece da regimi oppressivi come la Cina e il Sudan, dove il rifiuto di sparare può essere punito anche con la morte.
Voci non confermate rivelano che l’ufficiale al comando del carro armato che si fermò davanti al famoso manifestante solitario a Tienanmen, nel 1989, venne poi giustiziato. In Sudan, da quando è al potere il governo islamico, uomini tra i 18 e i 35 anni vengono reclutati con la forza e inviati nel sud del Paese per massacrare la popolazione civile, come racconta un ex colonnello dell’esercito sudanese: «Molti fuggono in Europa e negli Usa, pur di non combattere. Ma chi disobbedisce agli ordini può essere ucciso
immediatamente».
Sociale.network