Il vecchio che avanza
Gli incontri annuali di Banca mondiale e Fondo monetario internazionale, svoltisi a Washington a fine ottobre, sono stati senza dubbio molto fiacchi rispetto al passato. Eppure, in tanti si aspettavano un colpo di reni delle istituzioni finanziarie internazionali, sfidate politicamente dai paesi sudamericani, che pochi giorni prima avevano annunciato la firma dell’accordo per la creazione della nuova Banca del Sud.
In realtà, dei due organismi quello apparso più a corto di fiato è stato il Fondo. Sul fronte della Banca mondiale, invece, si è già intravista la linea decisionista e tutta rivolta al privato del neo-presidente Robert Zoellick, ex super-negoziatore al commercio dell’amministrazione Bush, nonché direttore della potente banca d’affari Goldman Sachs. Zoellick – ovviamente americano, come tutti i presidenti della Banca mondiale, per tradizione “feudale” dal 1944 in poi – non appare per ora intenzionato a ripetere gli errori commessi dal suo predecessore, Paul Wolfowitz, che nei suoi due anni di gestione aveva pensato bene di mandare alle ortiche la credibilità della Banca, prima di farsi cacciare per uno scandalo di favoritismi interni.
L’undicesimo “gran capo” della Banca, astuto manovratore, è riuscito in poche settimane a ritrovare l’appoggio del Consiglio dei direttori, a maggioranza europea, e, quindi, a lanciare un piano di revisione strategica. Tra le priorità: l’individuazione di nuovi strumenti finanziari per continuare a prestare a minor costo ai paesi emergenti e non perderli come clienti, pena il tracollo finanziario della Banca; trovare maggiori fondi per le realtà più povere, convincendo il titubante Congresso Usa; infine, l’emergenza climatica, rispetto a cui rimodellare l’operato dell’istituzione. Ogni soluzione che il nuovo presidente ha menzionato nei suoi discorsi d’insediamento vede la centralità indiscussa del mercato. Certo, nel caso degli aiuti ai paesi più poveri, si batte ancora affinché le realtà più ricche s’impegnino nella ricapitalizzazione delle risorse messe a disposizione dalla Banca, tramite il suo ramo che presta agli stati (l’International Development Association, Ida), che, a dicembre a Dublino, vedrà l’incontro decisivo per la difficile conclusione dei negoziati ora in atto. A questi fondi, però, si potrebbero aggiungere le donazioni delle imprese e delle fondazioni, a partire dalla Bill Gates Foundation.
Inoltre, tali aiuti saranno orientati, in maniera sempre più preponderante, allo sviluppo del settore privato nei paesi del sud del mondo e potrebbero essere rimpolpati dai profitti dell’agenzia del gruppo della Banca mondiale che presta alle imprese, spesso con pesanti impatti ambientali e sociali associati ai progetti sostenuti.
Nessuna autocritica
Ciò che non ha potuto siglare nei negoziati nell’Organizzazione mondiale del commercio, Zoellick cercherà di ottenerlo utilizzando il ricatto degli “aiuti al commercio” che la Banca mondiale potrebbe iniziare a concedere a breve: in particolare la liberalizzazione degli investimenti nei mercati del Sud, la protezione della proprietà intellettuale e la conversione dell’intero settore agricolo a un approccio produttivista, ancora più orientato all’export globale.
D’altronde, bastava dare una rapida occhiata al World Development Report, che per la prima volta in circa 25 anni la Banca ha dedicato quasi esclusivamente all’agricoltura, per avere una riprova della linea politica di Zoellick. Nel rapporto, infatti, la Banca mostra il meglio della sua attitudine iper-economicista, dimenticando di proposito l’importanza sociale, culturale e ambientale in termini di biodiversità e cura del territorio collegata al settore rurale. Nemmeno a parlarne della presenza di una qualsiasi autocritica sui macroscopici errori del passato, connessi all’imposizione di aggiustamenti strutturali alle economie dei paesi più arretrati e che, negli anni ’80 e ’90, hanno devastato il settore agricolo.
Anche per l’emergenza cambiamento climatico la soluzione è nel mercato e la Banca mondiale intende gestire sempre di più i “depositi di carbonio” che facilitano lo scambio dei permessi d’inquinamento. Di ridurre il sostegno ai combustibili fossili o di frenare il rilancio delle grandi infrastrutture, che purtroppo trova consenso anche tra i governi del sud del mondo, neanche a parlarne.
Infine, la Banca vorrà ancora di più essere leader nella conoscenza, pronta a consigliare i poveri su ogni tema inerente il loro sviluppo. La stessa presunzione di un “liberismo compassionevole” con cui l’istituto finanziario sta imponendo all’Afghanistan la privatizzazione di ben 60 enti statali, nonché spingendo paesi di mezzo mondo a deregolamentare il mercato del lavoro, perché di intralcio agli investitori, come denunciato con forza a Washington dai sindacati internazionali. Anche se i democratici dovessero tornare alla Casa Bianca nel 2009, difficilmente Zoellick sarà scalzato, vista la sua profonda rete di contatti politici e, così, potrà completare la “privatizzazione” della Banca mondiale.
Passando al Fondo, va subito detto che non ha raggiunto nessun accordo con gli Usa – e tanto meno con la Cina – sull’equilibrio tra i tassi di cambio che generano il “super euro”, né alcuna soluzione per arginare i possibili rischi associati alla crisi finanziaria dei mutui sub-prime. Ma, soprattutto, si è bloccato di nuovo il travagliato negoziato che doveva rivedere la struttura decisionale interna al Fondo, facendo così spazio alle economie emergenti. Le proposte sul tavolo presentate dallo stesso management del Fondo hanno rasentato la presa in giro: alcuni paesi del G7, tra cui l’Italia, guadagnerebbero ancora più peso; tranne la Cina, quasi tutti gli stati del Sud perderebbero ulteriore potere e quelli più poveri non avrebbero quasi più voce in capitolo; il Belgio conterebbe di più di tutta l’Africa subsahariana, incluso il Sudafrica, e il Lussemburgo più di Uganda, Kenya e Tanzania messe insieme. E pensare che il negoziato di riforma interna del Fondo era iniziato proprio per dare “voce ai più poveri”.
Da qualche settimana l’Italia ha maggiori responsabilità, visto che la presidenza della Commissione monetaria e finanziaria che guida politicamente l’Fmi è stata affidata al ministro dell’economia, Tommaso Padoa-Schioppa, noto nei circoli della finanza globale, senza non pochi mal di pancia nelle capitali del sud del mondo, che vedono ancora una volta gli europei far man bassa dei posti di comando del Fondo. Il 1° novembre, infatti, si è insediato il francese Dominique Strauss-Khan, social-liberista, che succede alla fallimentare gestione dello spagnolo Rodrigo de Rato, che ha fatto precipitare l’Fmi in una crisi forse senza ritorno.
“Il mondo contro la Banca”. La società civile ha anticipato la Banca mondiale e, pochi giorni prima dell’inizio dei suoi incontri annuali, ha organizzato un’udienza del Tribunale permanente dei popoli all’Aia. Nella città simbolo della giustizia internazionale, questa volta, a sedere sull’immaginario banco degli imputati del tribunale – le cui decisioni non sono purtroppo vincolanti – erano proprio la Banca mondiale e le sue ricette di (presunto) sviluppo. Per i numerosi testimoni venuti dall’America Latina e dall’Africa, l’istituzione, che in teoria dovrebbe combattere la povertà, è stata complice, se non mandante, di gravi violazioni dei diritti dei popoli del Sud, oltre che responsabile di pesanti impatti sociali e ambientali.
La giuria convenuta per l’occasione era di assoluto prestigio. Ne facevano parte cinque esperti di lunga data sul tema delle istituzioni finanziarie internazionali, guidati dal senatore italiano Francesco Martone. Tra i giurati spiccava Medha Patkar, famosa per la sua battaglia contro le dighe in India.
Due le questioni al centro della giornata di lavori: quanto la Banca interferisce nelle strategie nazionali dei paesi in via di sviluppo, e perché continua a finanziare ossessivamente progetti per l’estrazione di combustibili fossili, contribuendo così al cambiamento climatico. La società civile europea sostiene che, se i governi europei non produrranno cambiamenti sensibili su questi due temi, è giunto il momento di tagliare i fondi alla Banca e incanalarli in altri meccanismi più democratici e controllabili. I testimoni hanno spiegato come la Banca mondiale abbia imposto liberalizzazioni e privatizzazioni al settore agricolo in Malawi, a quello elettrico in Nicaragua e al mercato del cotone in Mali, nonostante la volontà dei governi locali di sostenere politiche diverse, dando un ruolo centrale allo stato.
Ma c’è di più: proprio nel recente caso del Malawi, la Banca ha letteralmente piegato l’opposizione dichiarata del parlamento del paese, tagliando i fondi al punto da generare una terribile carestia, con pesanti perdite di vite umane nel 2003. Ma, dal 2004, il governo africano ha trovato la forza di seguire il proprio modello di sviluppo, con il sostegno di altri donatori, e da solo ha riconquistato la propria sicurezza alimentare. Oggi è in grado di esportare cibo verso il Lesotho e lo Swaziland.
Nel caso dell’industria estrattiva, le testimonianze sono state dure come sempre, iniziando dalla dipendenza del Perù dallo sfruttamento delle miniere d’oro, incoraggiata dalla Banca mondiale a vantaggio solo di poche élite locali e di multinazionali occidentali, e proseguendo con l’allarmante storia delle estrazioni petrolifere in Kazakistan, sulla costa del Caspio e in Nigeria.
Nella sua dichiarazione finale la giuria ha riconosciuto le responsabilità di una Banca che, dietro parole di circostanza, continua a non imparare le lezioni del passato.
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