Sudan: sarà l’anno della pace?
Dopo vent’anni di guerra civile molti, in particolare negli ambienti diplomatici internazionali, giurano che il 2003 è l’anno buono: si firmerà la pace. Proprio la storia insegna che quando si parla di pace in Sudan bisogna essere molto cauti (dall’indipendenza, nel 1956, i sudanesi hanno vissuto una tregua solo dal 1972 al 1983); si possono comunque analizzare le tappe che hanno portato a questa pace annunciata.
In Sudan la guerra civile tra Nord e Sud dura dal 1983: nel più vasto Paese d’Africa, grande otto volte l’Italia con circa 30 milioni di abitanti, si fronteggiano da un lato il Governo di Khartoum, dall’altro l’Esercito di liberazione popolare del Sudan (Spla) guidato fin dall’inizio da John Garang. Negli anni Novanta ci sono state almeno altre due importanti fazioni staccatesi dall’Spla che hanno combattuto separatamente Khartoum per poi arrivare a una pace separata; i rispettivi leader sono stati in qualche modo successivamente cooptati nel Governo; alcuni di loro rientreranno poi nell’Spla. Non si deve inoltre dimenticare l’opposizione “nordista” all’attuale Governo di Khartoum, raggruppata nella coalizione Nda, magari meno forte da un punto di vista militare rispetto all’Spla ma sicuramente rilevante da un punto di vista politico.
Alcuni analisti hanno voluto interpretare - in modo probabilmente troppo semplicistico - questo conflitto solo come una guerra tra musulmani (al nord) e cristiani (al sud), oppure tra arabi e africani: oggi nel nord - e in particolare nei campi di sfollati attorno alla capitale - vivono milioni di neri del sud, spesso cristiani; mentre ci sono alcuni comandanti dell’Spla musulmani… Inoltre nel sud gli scontri tra appartenenti a etnie diverse hanno causato numerose vittime.
Senza voler negare le contrapposizioni etniche, culturali e religiose, non si può dimenticare che cause economiche (occupazione delle terre più fertili, gestione delle acque del fiume Nilo, accesso alle risorse - in particolare quelle petrolifere) e politiche (il problema della divisone tra Stato e religione e quello dell’autodetermi-nazione del Sud, che risale all’indipendenza del 1956 da Regno Unito ed Egitto) rendono la questione alquanto più complessa.
In 20 anni di guerra, che hanno causato direttamente o indirettamente - per fame e malattia - almeno 2 milioni di morti, ci sono state diverse diplomazie che hanno, finora inutilmente, cercato la pace.
La diplomazia ufficiale è quella svolta in ambito Igad, l’autorità intergovernativa per lo sviluppo, composta da Etiopia, Eritrea, Somalia, Gibuti, Sudan, Kenya, Uganda, delegata da Onu e Ua (Unione africana, in precedenza Organizzazione per l’unità africana)) a gestire i colloqui di pace. Innumerevoli e troppo spesso inconcludenti incontri hanno dimostrato come la guerra civile in Sudan abbia connessioni con tutta la regione (si pensi per esempio all’appoggio offerto soprattutto dall’Uganda e in parte dall’Etiopia all’Spla; al sostegno di Khartoum all’Lra, gruppo paramilitare che da anni insanguina il nord dell’Uganda, e a gruppi estremisti islamici in Etiopia e in Eritrea; alla forte influenze diplomatica dell’Egitto che ha sempre ostacolato l’auto-determinazione del sud Sudan per paura di perdere gli accordi sulle acque del Nilo raggiunti con Khartoum e Addis Abeba). Accanto all’Igad si è formato un gruppo di Paesi partner tra cui alcuni europei e, a partire dal 1999, l’Egitto.
Una diplomazia in qualche modo parallela è stata quella portata avanti della grandi agenzie di aiuto umanitario legate al sistema Onu e alle, piccole e grandi, organizzazioni non governative. Il Sudan infatti è un laboratorio impressionante dell’intreccio tra guerra, carestie, aiuti umanitari, diplomazia. Sia il Governo di Khartoum sia l’Spla hanno utilizzato la fame e gli aiuti come un’arma per combattere la loro guerra. L’«Operation lifeline Sudan» (Ols), attiva al nord come al sud dal 1989, è la più grande (e costosa) operazione di “emergenza” al mondo mai realizzata dall’Onu. L’aeroporto di Lokichokio in Kenya e il vicino campo profughi di Kakuma sono modello e simbolo, nel bene e nel male, di questa sorta di overdose umanitaria. Decine di ong occidentali sono attive nel Paese: spesso i loro dirigenti hanno avuto rapporti conflittuali tanto con il Governo di Khartoum quanto con l’Spla/Splm e hanno esercitato azioni di lobby e di pressione sui Governi dei Paesi di provenienza. Ancora nel 1998 si è parlato dell’ennesima “emergenza Sudan” e di centinaia di migliaia di morti per stenti nel Bahr el Ghazal (Sud Sudan). Accanto a queste ong umanitarie è cresciuta sempre più l’attenzione di organismi impegnati a monitorare la violazione di diritti umani, e recentemente anche espressioni della società civile. Un esempio importante in Italia è la «Campagna italiana per la pace e il rispetto dei diritti umani in Sudan». (1)
In questa complicata diplomazia due fatti nuovi hanno prodotto un cambiamento importante: il petrolio e l’atteggiamento degli Usa.
Non è poi passato così tanto tempo da quando nell’agosto 1998 gli Usa hanno bombardato la più grande fabbrica farmaceutica del Sudan (e dell’Africa orientale) accusando il Governo di Khartoum di utilizzarla per produrre armi chimiche. L’azione americana era giunta dopo gli attentati - i primi in Africa subsahariana - alle ambasciate Usa in Tanzania (Dar es Saalam) e in Kenya (Nairobi) che avevano causato centinaia di morti. Già allora gli Usa incolpavano Osama Bin Laden, il quale era stato un assai attivo uomo d’affari ospitato in Sudan fino al 1996. Per tutti gli anni Novanta l’attuale Governo di Khartoum (giunto al potere con un colpo di stato militare nel 1989 e dominato dal Fronte islamico nazionale) e il suo ideologo Hassan el Turabi erano ritenuti dagli Usa i principali propagatori del terrorismo islamico in Africa. Eppure dal 1999 ad oggi l’atteggiamento della diplomazia Usa (che oggi promette di abolire l’embargo contro il Sudan e che ha emanato un’apposita legge di aiuti finanziari in caso di un accordo di pace) è completamente cambiato. Perché?
Da un lato il presidente Omar el Bashir ha messo agli arresti domiciliari el Turabi (dicembre 1999), ha riallacciato rapporti diplomatici con i vicini Uganda ed Eritrea, alleati Usa; soprattutto però si è affrettato dopo l’11 settembre 2001 ad offrire una collaborazione - cioè preziose informazioni, probabilmente mescolando mezze verità a utili omissioni - nella lotta contro il terrorismo internazionale.
D’altra parte non si può dimenticare che il Sudan è diventato di colpo un Paese esportatore di petrolio (e osservatore all’Opec). Nell’agosto 1999 la prima petroliera lascia Port Sudan, dove arriva un oleodotto lungo oltre 1.600 chilometri che pompa petrolio dalle regioni del sud, al centro degli scontri e delle tattiche governative di terra bruciata. Secondo stime Ue nel 2002 l’11% del prodotto interno lordo del Paese, oltre l’80% del valore delle esportazioni e oltre il 40% del budget a disposizione dello Stato derivano dall’attività e dalle esportazioni di petrolio. Khartoum vuole arrivare a 325mila barili al giorno entro il 2003 e 450mila entro il 2005.
È fin troppo noto e forse scontato ricordare quanto questa amministrazione Bush sia sensibile al richiamo dell’oro nero, che in Sudan - pur essendo stato scoperto dagli americani - oggi serve ad arricchire prevalentemente le compagnie di Cina, Malaysia, India, mentre premono addirittura francesi e russi. Esiste inoltre da alcuni anni una serie di analisi teoriche e iniziative pratiche da parte di aziende petrolifere e Governo Usa per aumentare le importazioni di petrolio africano a scapito di quello medio-orientale.
Negli ultimi due anni l’attività diplomatica Usa è cresciuta in maniera assai visibile: prima è stato promosso un cessate-il-fuoco che da un oltre un anno mantiene in pace le montagne Nuba (regione al centro del Paese grande come l’Austria): una sorta di prova generale; poi si è aperto, grazie anche alla pressione di Gran Bretagna, Norvegia e Italia e in seguito Sudafrica il negoziato di Machakos (in Kenya) che ha portato a un protocollo firmato il 20 luglio 2002, poi a una prima tregua, rinnovata per 6 mesi a partire dal 1° luglio 2003. A fine giugno ci sono state voci che si sarebbe addirittura aspettato un viaggio di Bush in Africa per dare la maggior copertura mediatica possibile alla firma della pace.
Resta da valutare se un accordo di pace firmato sulla carta assicurerà un vivere pacifico tra i sudanesi. Oggi si parla di un sorta di confederazione con molta autonomia per Nord e Sud per un periodo di transizione di 6 anni, in attesa di un eventuale referendum sull’autodeterminazione del Sud. Però non è ancora chiaro quale deve essere lo status giuridico di Khartoum e se nella capitale continuerà a venire applicata la legislazione islamica. Scontri diplomatici continuano anche per stabilire chi e come dovrà amministrare aree contese come i monti Nuba, il Southern blue Nile e la zona di Abyiei. Soprattutto rimane ancora insoluto quello che molti considerano un punto chiave: la spartizione delle risorse economiche e in particolare delle rendite petrolifere.
Qualunque sia l’accordo che verrà firmato, rimane la constatazione che i firmatati sono due eserciti e le rispettive leadership. E mentre ancora nessuno ha spiegato come verrà gestito il rientro a sud di milioni di sfollati, senza contare le tradizionali diffidenze tra alcuni gruppi etnici al sud che potrebbero sfociare in conflitti, rimangono fuori dai colloqui di pace molte voci sia del mondo della politica (per esempio nel nord i musulmani comunisti e i fratelli repubblicani, i seguaci moderati e non violenti di Mahmoud Mohamed Taha: gruppi numericamente esigui ma con una storia rilevante) sia e soprattutto nel mondo della società civile (leader religiosi, docenti universitari, avvocati, ex sindacalisti, insegnanti…). La pace tra i sudanesi in uno stato multietnico, multireligioso e multiculturale non potrà non passare anche da loro.
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