Tornare in Kurdistan due anni dopo
E' la testimonianza di un cammino che è proseguito in questi due anni trascorsi. E che si sta concretizzando attraverso progetti e ... amicizia.
E' da leggere e da gustare, anche per le numerose immagini che lo accompagnano.
Maybe. Forse. La parola che più è ricorsa nel viaggio in Kurdistan. Fin da Vienna. Inseguendo l’Air-Station Manager della Mesopotamia Air, l’ultima arrivata nel nuovo segmento di mercato delle compagnie civili irachene. Poi, di volta in volta, i “problemi tecnici” dell’Austrian Airlines fino ad Istambul, le attese mattutine nell’hall dell’Alborz Hotel al Khasraw Khal Bridge a Sulaimaniya, i cambiamenti repentini di programma.
La Raparin Hall è intitolata alla Rivolta del marzo 1991 che liberò la città dalla lunga oppressione. Situata all’interno dell’Università di Sulaimaniya, di fronte alla Biblioteca Centrale, si confonde tra gli edifici ad un piano dei ventidue college sparsi tra i viali. Gli studenti, libri e dispense sotto il braccio, si soffermano a parlare a piccoli gruppi.
Sono le 10,00 del 17 marzo e qui ha inizio il convegno Dal Genocidio alla cultura di Pace. Sono trascorsi vent’anni dalla strage di Halabja. E’ il momento di ragionare delle conseguenze che quei tragici eventi hanno prodotto nella coscienza di un popolo e come si possa ricercare il diritto alla serenità perduta.
Marzo è la stagione dei narcisi, che ragazze nei tradizionali abiti curdi dai vivaci colori monocromatici distribuiscono all’ingresso della sala insieme a caramelle e a piccoli dolci.
Presenti i rappresentanti istituzionali del Kurdistan iracheno: i Presidenti del Governo e del Parlamento Regionale, ministri e deputati, sindaci, così come esponenti dei partiti politici tornati alla luce del sole dopo gli anni di clandestinità. La sig.ra Hero Ibrahim Ahmed Talabani, i sindaci Khder Kareem di Halabja, Nawzad Jalal Muhamad di Chamchamal, Araz Hawez Sadq di Koya, Azad Mamand di Taqtaq, Aras Abid Akram dell’Halabja Chemical Victims Society, il professore Azad Hama Shekhani dall’italiano perfetto per gli studi nelle nostre università. L’intervento di Othman Rashid Aziz direttore delle municipalità di Sulaimaniya: “When this conference was held in Florence city in Italy, this year Kurdistan suggested to holding this conference in Halabja city of Sulaimaniya. Indeed, this suggestion was accepted to be appointed at the date of 16-March, As World Day as a symbol for standing against using the Chemical Weapon”. A seguito del convegno di Mayors for Peace del novembre scorso a Firenze, da qui parte la proposta del 16 marzo Giornata Mondiale contro l’uso delle armi chimiche.
Fulgida indossa l’abito ricevuto in dono dalla sig.ra Talabani. Il suo saluto in curdo, arabo, inglese e italiano trasmette un messaggio di comunanza.
“Ogni volta che un bambino è ucciso, al grido disperato di una madre si unisce quello di tutte le madri della Terra. I bambini, i figli di tutte le madri, sono il nostro comune futuro. La trasversalità dell’amore e del dolore non hanno confini”.
Parole che hanno fermato l’attenzione dei presenti, dirette al loro cuore.
L’intervento di Alberto. Parla di Pace e del progetto di peace education portato avanti nel convegno di Pianosa dall’International Peace Bureau e dai Comuni aderenti a Mayors for Peace.
Le biglie d’acciaio di Pol lasciate cadere nel contenitore sul palco ricordano, con il loro metallico rimbombo, le atomiche presenti nei depositi di tanti Paesi.
Le proposte italiane per stimolare la costruzione della pace nella coscienza della società civile passano anche attraverso nuove politiche scolastiche. L’adozione di un testo comune alle scuole di più Paesi, in quanto “non si conoscono le tragedie dei popoli perché non se ne conosce la letteratura”. Lo ha detto Attilio, vice sindaco di Pozzallo, Comune dei Monti Eblei che ha dato i natali, sono stati da poco ricordati i cent’anni, a quel precursore della fratellanza tra i popoli del Mediterraneo che fu Giorgio La Pira.
Le parole di Dante, assessore alla Pace e ai Gemellaggi di Campi Bisenzio e quelle di Eleonora, una donna che in questo Comune è nota per i molteplici impegni nell’associazionismo e nel campo dei diritti umani nel mondo.
Intanto, Jessica informa i giornalisti curdi televisivi e della carta stampata delle attività di I.P.B. ed invia in Italia comunicati stampa sull’andamento del convegno. La sua costante disponibilità e un sorriso smagliante contribuiscono a facilitarci i contatti.
L’incontro con Rizgar Mohammad Ameen, uno dei tre giudici, lui curdo, gli altri sunnita e sciita, che hanno giudicato Saddam Hussein. Otto sedute al termine delle quali è stato condannato per la strage di centoventi sciiti.
Il portamento eretto, quasi ieratico, Rizgar, completo blu, la cravatta con disegni bianchi su fondo blu, si muove con naturale, felpata eleganza. Alto, magro, bianchi capelli corti, baffi brizzolati, cinquant’anni da poco compiuti. Alle nostre domande su quest’esperienza professionale ed umana risponde che, come per qualsiasi altro processo, il suo impegno è stato tenere distinti nel giudizio la propria emotività e la pressione ambientale dall’analisi oggettiva dei fatti.
E’ tornato a svolgere le funzioni di giudice a Sulaimaniya.
Al poeta Salm è intitolata la principale strada della periferia ovest di Sulaimaniya, intasata di traffico sul finire del mattino.
Dietro un cancello guardato da uomini in armi, una bassa costruzione rettangolare è la sede del Puk, il Partito unitario curdo. Siamo ricevuti dal responsabile dell’ufficio politico, al quale Eleonora dona la sua sciarpa multicolore della Pace. Riceviamo un attestato onorario del Partito, con il simbolo del fiore nazionale, un narciso dai bianchi petali.
Il 18 marzo siamo tornati ad Halabja. All’ingresso della città il monumento dedicato alle vittime e distrutto due anni fa, presente la delegazione italiana, è ancora ingabbiato nei ponteggi.
Nel cimitero s’inseguono allineate le tombe senza morti, che furono invece raccolti in fosse comuni. Una lapide per famiglia, tutte uguali, con 5.000 nomi. I giovani di Halabja hanno presentato una rappresentazione teatrale di forte impatto emotivo.
All’ora del tramonto siamo davanti alla statua che ricorda la strage, una donna con le braccia protese verso il cielo, e ai cui piedi sono state accese candele e disposte scenograficamente delle mele a ricordare l’odore dolciastro, proprio delle mele, dei gas nervini. I ballerini dell’Accademia delle Belle Arti recitano Non dobbiamo dimenticare Halabja. Seduti accanto alle tombe, mentre le ombre della sera arrivano a stendersi tra le lapidi, ogni marmo illuminato da una candela, altri studenti iscritti al corso di pittura disegnano e dipingono il ricordo. Mescolandosi infine, ballerini e pittori, gli uni in una danza al rallentatore, gli altri in piedi, immobili, i disegni tra le mani. L’altoparlante diffonde note di dolore che si perdono nel nulla che sfuma oltre le tombe, nella piatta campagna d’attorno.
Ho trascritto, facendomi aiutare a tradurli dalla brochure, i nomi del regista Warzer Hama Salim e dell’autore delle musiche Farhad Faik eseguite dal Gruppo Musicale dell’Accademia di Halabja. Per notificare a chi legge e ringraziare così quei ragazzi.
Ciamciamal si trova sulla strada che collega Sulaimaniya a Kirkuk. Una striscia d’asfalto che corre diritta attraverso la pianura, rari villaggi s’alternano ai posti di blocco dei peshmerga che si riconoscono da lontano per le lunghe colonne d’auto e camion. I suv della sicurezza azionano luci, sirene e altoparlanti e zigzagano tra blocchi di cemento e spunzoni metallici portandoci rapidamente oltre. Lungo la strada gli scavi archeologici restituiscono i resti di un’antica chiesa cristiana.
Kirkuk, enclave rivendicata dalla forte minoranza turcomanna, un sottosuolo con grandi riserve di petrolio, è a poche decine di chilometri. Da lì ne mancano centocinquanta per arrivare a Baghdad.
Ciamciamal è un insediamento sviluppatosi nella seconda metà degli anni ’80 e raccoglie i profughi in fuga dall’Anfal del governo iracheno. Da qui l’inferno di Baghdad appare ancora lontano.
Certamente la vita quotidiana non è facile, ma i segnali che provengono dai giovani incontrati sono pieni di speranza. Il gemellaggio di Halabja con Marzabotto ha stimolato il desiderio di confrontarsi con realtà diverse. La nostra presenza è stata occasione di riflessione e di ricerca del nuovo. Dopo la visita in Municipio, circondati dagli uomini della sicurezza, abbiamo così visitato i luoghi di ricostruzione della democrazia curda, la sede di Kurdistan Tv, la Casa della Cultura dell’infanzia, il Centro culturale giovanile e quello delle donne, quest’ultime davvero le colonne portanti, ancora troppo invisibili, della nuova società. A Ciamciamal un gruppo di studenti stampa un giornale. Charmu, dal nome di una località vicina dove sorge un villaggio neolitico, il più antico insediamento dell’intero Iraq, riportato in superficie dagli Inglesi durante l’occupazione nei primi decenni del secolo scorso. Mostrano orgogliosi la copia di Charmu con l’articolo che parla del patto d’amicizia con Campi Bisenzio.
L’invito della signora Hero Talabani è stato una sorpresa quanto mai gradita. L’opportunità di proseguire quanto iniziato in occasione del suo viaggio in Italia ospite del sindaco Leonardo Domenici e del Ministro della Salute Livia Turco.
Arriviamo alla residenza dopo il tramonto. Dalla collina, le luci di Sulaimaniya s’accendono in successione, a segnare i contorni della metropoli. Sulla porta ci viene incontro e salutiamo calorosamente Hatif Yashar, che abbiamo conosciuto a Firenze.
La signora Talabani c’introduce in un salone accogliente, soffuso delle sfumature verdi pastello dei tendaggi, delle pareti, dei tappeti. Mazzi di fiori dove predominano i rossi, i gialli, gli arancioni composti con sapienza sui tavoli, insieme a vassoi di banane, fragole, kiwi, uva e arance. Si scambiano doni e si parla dei progetti in campo, facendo il punto e riprogrammando il lavoro futuro.
La cena con i tanti piatti della tradizione curda. Assaggiamo tutto con curiosità, in particolare sui vassoi ovali al centro della tavola, i salmoni provenienti dal Lago di Dokan, una località turistica ad ovest di Sulaimaniya, sulla strada per Erbil.
In più luoghi, dunque, abbiamo avuto occasione di affinare la nostra conoscenza della cucina curda. Il Nafoora restaurant, una grande sala su due livelli, al centro enormi tegami di rame finemente lavorati, ricolmi di riso con l’uvetta e una fila di bianche zuppiere con pomodori, fagiolini e involtini di melanzane ripieni di riso. D’attorno s’accalcano gli avventori. Si mangia a self service e dopo ci si serve il tè nei tipici bicchieri turchi.
Al ristorante al pianterreno dell’Hotel Alborz, crauti e cetrioli tagliati sottilmente, fagioli al pomodoro e melanzane cucinate in maniere diverse.
All’Abu Sana ambiente ovattato, luci soffuse, vino della Cuvee François Dulac e birra Heineken. Ricordo un ottimo tapulà: cuscus, aglio, cipolla e prezzemolo tritato.
Concordemente, il miglior kebab lo abbiamo mangiato al Sirwan, alle porte di Ciamciamal. Dalle ampie finestre si vedono i camion sparire nella luce abbacinante e nella polvere della strada per Sulaimaniya. Kika è kebab di pollo marinato nel limone. Croccante e davvero gustoso, i piccoli pezzi di carne sono portati caldi in tavola, infilzati in lunghi spiedi. Splendide anche le salsicce, condite con grasso bianco e aglio. I sottilissimi pani arabi qui sono particolarmente grandi, e appena arrivano in tavola i commensali, con senso di condivisione, s’affrettano a strapparne ciascuno una parte.
Il centro di Sulaimaniya è sempre affollato. Si passa davanti alla pizzeria La perla e alla barberia Milano, retaggi di soggiorni nel nostro Paese. Prima di scendere qualche scalino ed entrare nella parte al coperto più antica del secolare mercato, ci si sofferma davanti alla statua di Ibrahim Pasha fondatore della città e ad un grande cartellone che raffigura Shaikh Mahmud Barzingi autoproclamatosi re del Kurdistan nel 1922. Soltanto i bombardamenti della R.A.F. su Sulaimaniya ebbero ragione dei sogni d’indipendenza di questa regione. Qui un mausoleo ricorda Shaikh Mahmud che fu re per un solo anno.
In due anni, dalla visita del 2006 dell’Ufficio italiano di International Peace Bureau, molte iniziative sono state messe in cantiere. Ci siamo impegnati con idee e progetti che abbiamo verificato richiedere tempo e fatica. Non sempre ci siamo riusciti. A volte abbiamo cambiato strada, perché la più breve non era percorribile. Sono tante le cose che si stanno mettendo in moto nelle relazioni tra le persone e le istituzioni dei nostri Paesi. A questo ho pensato quando, al momento della partenza, nell’hall dell’hotel ci hanno consegnato uno scatolone di cartone da parte della signora Talabani. Una promessa che la First Lady aveva preso a Firenze con Torello Latini proprietario dell’omonima trattoria, un “cult” per gli amanti della cucina toscana. Le era piaciuta l’idea del Latini di voler esporre nel locale i quadri degli studenti delle scuole della città. Nello scatolone, una ventina di opere di giovani artisti curdi che Torello inaugurerà quanto prima. Un nuovo passo, questa volta internazionale, nella sinergia cucina e cultura che caratterizza questo locale.
Vorrei finire con un omaggio alla forza delle donne curde, impegnate ad uscire da un millenario isolamento storico e sociale. Hanno sostituito per lungo tempo i loro uomini impegnati a combattere sulle montagne, quando non erano stati uccisi dall’Anfal. Assunzioni di responsabilità senza che questo si sia tradotto in riconoscimento sociale. La forte determinazione che ho sentito nelle donne incontrate a Sulaimaniya, a Halabja, a Ciamciamal ci dice che le cose stanno cambiando.
Tiziana si è aggregata al nostro gruppo all’ultimo momento. Ha scritto libri e pubblicazioni sulla condizione della donna, con riferimento particolare al Veneto dove vive. E’ qui per scrivere delle donne curde. Gulala le trova i contatti e insieme le vedo appartarsi, Gulala traduce,Tiziana prende appunti, con le rappresentanti dell’associazionismo femminile, delle organizzazioni politiche, dei diritti violati.
Aisha oggi ha settant’anni. E’ nata a Surdash nella provincia di Sarjalu a nord-est di Sulaimaniya. Otto figli da tirar su. Cinque maschi e tre femmine. Ci racconta una storia. La sua.
La guerra con l’Iran le porta lontano un figlio, Nawzad Hama Ahmed, nato nel 1956. Nawzad nel 1983 ha ventisette anni, con il suo battaglione è in prima linea a Fao sul Golfo Persico.
Nelle immagini della tv irachena, Aisha vede cataste di ragazzi morti sul fronte. Non può attendere oltre. Inizia da sola un doloroso viaggio.
In treno a Kirkuk e poi fino a Baghdad. Da lì in pullman sempre più a sud. Da Bassora in taxi fino all’ultimo avamposto civile. Davanti trincee e campi militari.
Una donna sola che non parla arabo e indossa abiti curdi. A tutti, soldati e ufficiali, Aisha mostra la foto del figlio.
Arriva a parlare al 1° ufficiale del battaglione nel quale combatte Nawzad.
“Se mio figlio è vivo lo voglio riportare a casa. Io gli ho dato la vita. Non voi”.
“Tuo figlio ora appartiene all’esercito”.
La notizia di questa donna e della sua ricerca del figlio arriva al generale, che la fa chiamare.
“Voglio premiare il tuo coraggio. A tuo figlio concedo una licenza di quindici giorni che nessuno ha avuto. Ma ricordati, al suo scadere lui dovrà essere qui”.
Trascorsi i giorni della licenza, la madre sceglie di non far tornare il figlio a combattere con l’esercito iracheno. Senza dire niente al marito, accompagna Nawzad in montagna, là dove combattono i peshmerga. Quello è il suo posto.
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