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Una obbedienza senza libertà, opposta alla libertà, non sarebbe umana

Primato della coscienza e obbedienza

L'obbedienza è virtù e vizio - "Ob-audire" - Meglio critici che passivi - Mazzolari - Scoppola - Magistero - Lutero - Reciprocità delle coscienze - Morale sessuale - Dal Sessantotto - Mussolini e Berlusconi - Obbedienza militare automatica del gen. Jean - Dimissioni di coscienza - Obbedienza e obiezione.
25 luglio 2008
Fonte: Pubblicato in Servitium su "Obbedienza", n. 178, luglio-agosto 2008
s.egidio@servitium.it - 25 luglio 2008

Primato della coscienza e obbedienza
Pubblicato in Servitium su "Obbedienza", n. 178, luglio-agosto 2008

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L’obbedienza è ambigua, come idea e come comportamento. È un valore e un disvalore, una virtù e un vizio.
Come virtù la conosciamo bene. Il bambino buono è quello che obbedisce. Così ci è stato insegnato fin da piccoli, anche giustamente. Cambiano le pedagogie, in bene in male, ma è sempre imitando chi ci precede nella vita, quindi anche obbedendo, che ci formiamo, cresciamo, impariamo, diventiamo ciò che saremo. Si diventa liberi cominciando naturalmente col non esserlo, e venendo guidati a fare prima per obbedienza, poi liberamente, ciò che impariamo a considerare necessario, utile, buono. Il bambino senza modelli chiari, che poi potrà criticare, resta come un mollusco senza scheletro interno che lo sostenga. Quel che ci viene comandato, anche dolcemente e con amore come fanno i buoni genitori, non ci riduce, ma ci dà la base solida, necessaria, sulla quale possiamo poi camminare, anche eventualmente in altre direzioni, con la nostra libertà e responsabilità.
Anche per noi adulti che ci riteniamo capaci, liberi e responsabili, l’obbedienza sarà sempre una virtù, semplicemente perché ci sono gli altri, e l’obbedienza non è anzitutto eseguire di peso la volontà altrui, ma è essenzialmente dare ascolto e fare spazio agli altri, rispondere alle loro attese e bisogni, anche se a volte rispondere bene è dover dire il contrario.
Enrico Peyretti (foto)
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Ma l’obbedienza è pure un vizio. Ovvio il riferimento famoso (più che compreso) a don Milani. Chi anzitutto e preliminarmente obbedisce eseguendo rinuncia a pensare, ad ascoltare la propria coscienza, e manca anche di contribuire alla funzione di chi, in qualsiasi società, ha un compito direttivo, indicativo.
Per dire qualcosa sull’obbedienza in questa nota, dobbiamo in primo luogo dirne la problematica, e quindi sdoppiare l’oggetto: quale obbedienza? Il dovere e la virtù non sono semplicemente obbedire, ma stanno nel chiedersi “se” obbedire, se obbedire ancora, in che cosa obbedire.
Una obbedienza senza libertà, opposta alla libertà, non sarebbe umana, non rispetterebbe l’umanità di chi obbedisce, e questa violazione avverrebbe proprio da parte dell’obbediente, non soltanto da parte del comandante che volesse imporsi. Si tratta sempre di obbedire liberi. La prima obbedienza è il rispetto di questo valore inviolabile, negli altri come in noi stessi. Io posso dedicare la mia libertà, rinunciare alla mia decisione, per agire come un altro mi chiede, o per servire il suo valore, la sua vita, o una causa degna. Ma è sempre con la libertà che dedico e spendo la mia libertà; è con la libertà che decido di cedere il mio diritto di decidere. Se cedo la mia libertà, pecco contro l’umanità mia e di tutti. Questo non ho il diritto di farlo, perché questa umanità non è solo mia: svilita in me è offesa in tutti. Non ho la libertà di cedere la libertà. La spenderò per ciò che è giusto, la userò secondo la misura, e anche il limite, che la giustizia le pone, perché è la giustizia che misura e orienta la libertà. Se obbedisco con giustizia, a cose giuste, obbedisco in libertà, obbedisco alla libertà. «Io do la mia vita (…). Nessuno me la toglie, ma io la do da me stesso» (Giovanni 10,17-18).
Allora, obbedendo alla libertà, devo anche, eventualmente, disobbedire ad un ordine altrui, o ad impulsi miei. Obbedire implica disobbedire, implica obiettare. Obiettare costa più che obbedire.
È più facile obbedire che disobbedire. Hildegard Goss-Mayr, grande educatrice e operatrice della nonviolenza, vedova di Jean Goss, nei corsi di formazione alla nonviolenza, fa un gioco di ruolo, che non rivelerò qui, nel quale ciascuno scopre in se stesso la pericolosa disponibilità ad obbedire troppo facilmente. Più scientificamente, hanno dimostrato questa inclinazione ad eseguire anche ordini palesemente ingiusti e persino crudeli, nella maggioranza di persone normalissime, non personalmente cattive, gli esperimenti di Stanley Milgram (Obbedienza all’autorità, Einaudi 2003) e altri simili. È su questa inclinazione che si fonda ogni violenza collettiva sistematica, quella «banalità del male» di cui scrisse Hannah Arendt a proposito di Eichmann e della Shoah.

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Il greco upakoùeiv significa obbedire nel senso di ascoltare, rispondere, tuttavia il prefisso upo- fa intendere soggezione, riconoscimento di una grandezza, che va bene se è ben riposto, va male se mal riposto. Il latino obedire, da ob-audire dice tensione verso, movimento ad accogliere attivamente, coscientemente, una parola o volontà di altri.

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Ognuno ha le sue obbedienze, se non altro per abitudine: obbedienza alla sua chiesa, al suo partito, al solito giornale, agli usi correnti. Purché non ci si adagi. Infatti, la vita passiva, lasciata decidere dagli altri, dalle autorità, dalle mode e tendenze, delle apparenze vuote ma imponenti, da chi fa più rumore, ci rende obbedienti senza che lo decidiamo, si impone a noi, ci toglie libertà con l’illusione di darci libertà solo perché ci discostiamo da qualche proposta più mite o più nuova, più scomoda, più inusuale, per obbedire alle voci più forti e pressanti.
Il pericolo non viene dall’essere critici, ma dal non esserlo abbastanza. In qualunque società o comunità, il contributo migliore è di chi persino “dà fastidio” e “pianta grane”, non di chi è sempre tranquillo, non pone mai problemi, di chi tace anche quando dovrebbe parlare e dissentire, col rischio di fare degli sbagli o persino del male senza volerlo. Ricordo che il vescovo Michele Pellegrino diceva di preferire, tutto sommato, i preti che gli ponevano problemi a quelli troppo passivi. La possibilità, il coraggio e l’umiltà del dissenso sono l’altra faccia dell’obbedienza, senza di cui l’obbedienza è cosa vuota, indegna. E questa è anche l’altra faccia della coesione necessaria in una comunità, che viene dal fare insieme le stesse cose tanto quanto dal cambiare le abitudini per fare cose migliori. Diceva un vescovo durante il Concilio: «Io amo tanto le tradizioni che mi piace cominciarne una nuova».

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Particolarmente nelle chiese, per il loro riferimento alle più alte ragioni, alla stessa Parola di Dio, si corre il rischio di una obbedienza sbagliata in nome dei motivi più santi. Ovviamente col senso della misura, e dei propri limiti, ma anche della insostituibile funzione di ciascuno nell’ascolto e nell’interpretazione attuale delle ispirazioni più alte, si deve contribuire tutti, dato che in ciascuno parlano la coscienza e la ragione, all’obbedienza comune nell’essenziale, con la giusta libertà nelle cose secondarie, con la carità fraterna sempre.
Nel 1985 tenemmo un bel convegno, nell’abbazia di Fontanella, a Sotto il Monte, su «Don Primo Mazzolari: l’uomo, il cristiano, il prete» (atti pubblicati dall’editrice Servitium), con relazioni di Miccoli, Do, Vivarelli, Turoldo e altri. Una relazione affidata a me verteva su «Il primato della coscienza nella testimonianza di Primo Mazzolari». Ecco qualche suo testo ivi citato: «L’intelligenza cattolica italiana non ama e non sopporta il rischio». «Quando entrate in chiesa vi togliete il cappello, non la testa» (agli uomini della sua parrocchia). «La più paurosa polveriera è la coscienza. E l’uomo la ritrova ogniqualvolta aderisce, per esperienza, all’affermazione di Cristo: senza di me non potete far nulla». «C’è uno che parla dentro di ognuno. Possiamo anche non ascoltarlo; ma non possiamo non esserne tormentati». L’etica della coscienza responsabile non porta alla ribellione all’autorità «fino a quando la mia coscienza non è posta nella dolorosa alternativa di obbedire a Dio piuttosto che agli uomini (Atti 4,19)». «Il regolamento è l’oppio della coscienza. Se non ci fosse il regolamento, il gemito di quel morente lungo la via non mi darebbe requie (…). I samaritani, cioè gli uomini che non conoscono il regolamento, ci precederanno nel regno di Dio». «Molti, invece di considerare la guerra un crimine, poiché facendo la guerra si uccide, la tengono come una disgrazia per il fatto che in guerra si può essere uccisi».
In quel convegno Umberto Vivarelli ricordava che Mazzolari e lui stesso continuarono a scrivere su Adesso, con vari pseudonimi, nonostante il divieto canonico imposto con fragili motivazioni opinabili, e questo facevano «non per disinvolta improntitudine, ma con meditata e serena consapevolezza». In quella «singolare esperienza» - diceva Vivarelli - bisognerebbe «scoprire l’indicazione evangelica (…) che ripropone l’obiezione di coscienza anche dentro le istituzioni della chiesa».

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Trovo ultimamente un breve limpido richiamo al primato della coscienza nel piccolo prezioso libro scritto “in articolo mortis” da Pietro Scoppola, Un cattolico a modo suo (Morcelliana 2008), che cita alcuni testi della grande tradizione ecclesiale. Tra questi cita la Lettera al duca di Norfolk (1874), di John Enry Newman, della quale conviene ricordare espressamente quel giudizio: «La coscienza è l’originario vicario di Cristo». «È paradossale – scrive Scoppola – che il primato della coscienza sia stato negato e calpestato dalla Chiesa in innumerevoli circostanze storiche e comunque lasciato in ombra sul piano dottrinale sicché il principio di libertà di coscienza finisce per affermarsi in Europa non ad opera della Chiesa ma contro la Chiesa. È singolare che quella lettera di Newman sia stata dalla Chiesa tenuta in ombra e dimenticata» (pp. 49-50).

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Ora, la Chiesa educa alla coscienza o alla obbedienza passiva? Non possiamo azzardare una risposta semplicista, ma sentiamo che il problema esiste. Chi di noi è nella chiesa vi sta per ascoltare e obbedire (ob-audire, udire protesi verso chi ci parla, in un rapporto personale di avvicinamento e con-cordia) allo Spirito di Dio, cercato e accolto insieme ai fratelli. Sappiamo che, se questo è il senso, la realizzazione è più o meno piena, spesso scarsa. Che qualcuno sia designato in funzioni di insegnamento e autorità, è una ben comprensibile necessità comunitaria. Ma non ogni atto delle autorità è volontà di Dio. È anche accaduto che vi vada contro. Più che le autorità, sono i testimoni viventi che aiutano nell’ascolto e nell’obbedienza. Ogni funzione ecclesiale è sotto quella parola di Gesù: «Ma tra voi non sia così», che differenzia costituzionalmente la Chiesa dalla prassi prevalente nelle nazioni, i cui capi spadroneggiano e pesano sui popoli (Matteo 20, 25-28).
Pensiero e coscienza hanno un compito irrinunciabile anche nell’ascoltare la parola del magistero, nei differenti gradi di importanza dei suoi pronunciamenti. Che si accetti con fiducia e senza difficoltà quella parola, o invece con una ricezione critica, sempre la coscienza deve essere all’opera ed è più impegnata nella critica che nell’acquiescenza. Quando l’insegnamento non persuade, la coscienza è sollecitata, e questo non è male. Per esempio, l’Humane vitae tanto discussa ha spinto una quantità di cattolici a dover usare con maggiore impegno la coscienza personale meditata e responsabile.
Nonostante tutto, chi di noi è cresciuto nella comunità ecclesiale e non si è lasciato bloccare da difetti o scandali, ha appreso dallo Spirito che vi circola la responsabile libertà di coscienza, di una coscienza sempre alunna della verità, mai meccanismo esecutivo.

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Nella Chiesa si può distinguere una obbedienza consapevole, una passiva, una comoda; e così si può trovare una disobbedienza sorda, clandestina (Pietro Prini ha parlato di «scisma sommerso»), oppure una aperta, motivata (il cattolicesimo del dissenso o critico). Ci sono poi le chiese cristiane evangeliche a-papali (ma al loro interno qualcuno si chiede se sono proprio sempre senza un altro tipo di papa).
Per i cristiani si tratta anzitutto di obbedienza alla Parola di Dio. La fede è obbedienza (Romani 1,5). Dio è in noi, ci parla nella coscienza e nella Chiesa popolo di Dio lungo la storia, ma nessuno è Dio: «Non chiamate nessuno maestro».
Anche su cose di fede, credere è accettare ciò che intimamente mi si illumina come vero. Nella Dieta di Worms, 1521, Lutero rivendicò la coscienza nelle cose di fede: «A meno che io non sia convinto con la Scrittura e con chiari ragionamenti (…) la mia coscienza è vincolata alla Parola di Dio. Non posso e non voglio ritrattare nulla perché non è giusto né salutare andare contro coscienza. Iddio mi aiuti. Amen».
Nell’inciso che ho omesso, Lutero diceva: «poiché non accetto l’autorità di papi e concili che si sono contraddetti l’un l’altro». Si può dare maggiore fiducia di lui alla tradizione del magistero, ma si deve riconoscere con lui che «non è giusto né salutare andare contro coscienza».

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Forse la coscienza è comoda (fare come mi pare e piace)? No, assolutamente. Ma certamente può sbagliare, può inclinare verso risposte di comodo. Perciò una caratteristica della vita della coscienza è la reciprocità, come sottolineava Bernhard Haering. L’ascolto delle altre coscienze è costitutivo essenziale della ricerca che ciascuno fa nella propria coscienza. Già l’intima coscienza personale non è un solitario auto-ascolto. Infatti, la mia coscienza è un altro in me e, per chi lo ammette, è voce dell’Altro in me. La coscienza è la parte più intima di me ed è, nello stesso tempo, me e più che me, è me e altro da me, perché mi può confortare ma può anche contestarmi, giudicarmi, rimordermi e castigarmi, premere irresistibilmente fino a farmi cambiare direzione di cammino. Per quanto determinata da tante cose, sebbene non assoluta e non infallibile, la coscienza è autorità, perché è l’istanza che ci fa crescere in umanità e in grazia: è l’ultima autorità, ha questo primato.

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Vorrei citare ancora Scoppola: «Con il ’68 si è spezzato un equilibrio ma non se ne è formato uno nuovo». Nelle nuove generazioni emergono valori nuovi «ma vedo anche il rischio di un disorientamento che nasce dalla mancanza di chiari e fermi criteri di riferimento» (p. 101). La Chiesa dovrebbe ripensare la morale sessuale, di fronte al cambiamento dei costumi, in una luce personalistica più che naturalistica. Sul problema del matrimonio canonico e del divorzio, Scoppola cita l’importante ricerca storica di Giovanni Cereti (Divorzio, nuove nozze e penitenza nella Chiesa primitiva, Edizioni Dehoniane 1977). L’attuale disciplina canonica «non regge» né di fronte alla storia né alla psicologia e «dà luogo a paradossali ingiustizie»: può fallire un prete nella sua vocazione, un religioso, e non una persona sposata! Anche qui vige un regime di «doppia verità», per cui c’è una norma intransigente sui divorziati e una prassi che la supera (p. 103). Osservo che dove c’è una doppia verità c’è una scissione della coscienza, una insincerità, che va risanata.

* 11
A quarant’anni dal '68, grande rivoluzione con lati positivi e negativi, riuscita e fallita (segnalo in particolare il libro sincero e veritiero di Anna Bravo, A colpi di cuore. Storie del sessantotto, Laterza 2008), possiamo chiederci: come è cambiato col ’68 antiautoritario l’obbedire? È forse finito? È forse ritornato in altri modi?
C’è un’obbedienza libera, che onora ed eleva la persona: è l’obbedienza di chi ascolta, ama, si impegna per gli altri, risponde al loro bisogno. Noi chiamiamo Gesù Signore, ma nessuno come lui è stato obbediente, fino a vivere e morire da servo, e non solo obbediente al Padre, ma agli uomini, al mondo: nessuno come lui si è consegnato agli altri, totalmente, liberamente, ed è per questo che in lui incontriamo Dio il quale, in principio, dando alle creature l’essere e la libertà, e la luce interiore, è Signore che fa spazio, obbediente per amore.
E c’è un’altra obbedienza, quella di chi per non sottomettersi non si relaziona all’altro, non risponde al bisognoso ma, intendendo star comodo e semmai comandare, si sottomette e obbedisce al potente, del quale vorrebbe condividere e magari poi rapire la forza, e così finisce per essere passivo e complice, la meno libera di tutte le condizioni, la più vile di tutte le obbedienze.
Non si tratta affatto di fare categorie, razzismo morale. Entrambe le obbedienze sono in ciascuno di noi, in un conflitto che dobbiamo gestire e orientare.
Un frutto del ‘68 (segno della crisi dell’età della ragione e del passaggio all’età dell’interpretazione) mi pare la possibilità di distinguere tra quelle due obbedienze. Ormai, dopo quella ampia stagione, è più chiaro che l'obbedienza non è sempre e soltanto una virtù.

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Sembra evidente che oggi si rifiuti l’autoritarismo e l'autorità, i padri, le regole, le tradizioni, la disciplina (chi lavora nella scuola ne sa qualcosa). Ma si rifiutano davvero queste cose, o anche le si accettano passivamente? E poi, insieme a certi rifiuti, ecco che si subisce piattamente la pubblicità, il conformismo, la moda, l’ideologia della ricchezza, lo stordimento del disimpegno, il privatismo, la legge dello spettacolo, l’eccitazione artificiale di animi spenti. Se non sbaglio, oggi convivono una disobbedienza individual-egoista ed una obbedienza servile, ignorante, militare, meccanica, conformistica, che è disobbedienza alla vocazione umana superiore.
Mussolini chiedeva pesantemente di obbedirlo (“Credere, obbedire, combattere”), Berlusconi ottiene reale massiccia obbedienza agli interessi forti blandendo e incantando il popolo col divertificio e sempre mascherando l’obbedienza da libertà.
Obbedienza militare


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L’altro versante dell’obbedire è il comandare. Anche il comandare è ambiguo, benefico o malefico. Vorrei fare solo un cenno sulla sua forma più dura e micidiale. Ricordo un'affermazione del gen. Carlo Jean (autorità del pensiero militare e dell’esercito italiano) a Torino, in un teatro gremito di studenti delle superiori, in un incontro su pace e guerra, me presente che prendevo appunti, il 29 marzo 1996: «Nell'esercito è necessaria la disciplina perché si tratta di uccidere. Occorre l'esecuzione automatica dell'ordine». Garantisco che sono le sue parole precise, perchè le scrissi sotto dettatura mentre le pronunciava (prendo sempre appunti quando ascolto). L'ho ricordato e pubblicato più volte in articoli e libri. Certo, nessuna persona va inchiodata alle sue parole. Ma quel pensiero, di chiunque sia, va valutato e giudicato. E' evidente che l'obbedienza automatica – espressione mostruosa! - tratta l'essere umano come un oggetto, un meccanismo. Nulla al mondo è più immorale di questo: è un “coscienticidio”, uccisione della coscienza, istigazione al tradimento dell’umanità nel proprio intimo. Agghiacciante è lo scopo di questa obbedienza extra-umana: uccidere persone. Quel pensiero sembra dire che un uomo può ucciderne un altro su comando altrui e non per estrema difesa, soltanto se si dimette da uomo cosciente.
Chi di noi è innocente dalle dimissioni di coscienza? Anche la Chiesa ha commesso questo peccato, come tutte le potenze del mondo, ma peggio, in nome di Dio: ogni fondamentalismo (religioso, politico, capitalistico, ecc.) cioè ogni assolutismo, è la degenerazione, la falsificazione dell'obbedienza, è rinuncia all’ascolto umano a favore di un meccanismo azionato da potenze che assoggettano l’umanità.
Il comando chiede un'esecuzione (parola che ha un suono mortale), ci riduce, mentre l’ascolto della parola altrui chiede un muoversi, un avvicinarsi, un accogliere, un crescere, un divenire, ci aggiunge qualcosa che viene dall’umanità degli altri e amplifica la nostra umanità. Esecuzione e ascolto sono due realtà essenzialmente diverse, per le quali usiamo una sola parola equivoca: obbedienza.
Il problema è serio per chi deve decidere se obbedire o non obbedire. Il problema è più grave per chi chiede obbedienza: comandare può essere una necessità, ma è sempre un alto rischio e c’è chi lo sente e lo rifiuta come un modo vergognoso di rapportarsi agli altri.

* 14
Certo, mille volte al giorno obbediamo e diamo fede piena a chi conosce o sa fare qualcosa meglio di noi: a chi ci dice che ore sono o ci indica la via, al medico, al macchinista del treno, alla guida turistica, ecc. a meno che non ci risultino evidentemente pazzi o ubriachi; e obbediamo a meccanismi messi lì per nostra utilità, come i semafori o la lavatrice, se non sono palesemente guasti. Accettiamo bene di ridurci ad esecutori di ordini, quando questo adeguarsi, nelle cose utili, o indifferenti, aiuta la vita. Anche lo studioso più critico non può verificare di persona tutte le ricerche di cui accoglie i risultati sulla base della fiducia meritata da altri ricercatori: la scienza contiene questi atti di fede umana. Ma mentre è utile e vitale l’obbedienza ragionevole nelle cose di non massima importanza, o quando non è possibile fare altro che obbedire, bisogna però, nelle decisioni personali di importanza massima, per essere e restare umani, obbedire alla coscienza prima che a chiunque altro, e anche contro ogni altra autorità, comando, legge, usanza, convenienza.
L’obiezione di coscienza è una obbedienza, altra e superiore: «Bisogna obbedire a Dio piuttosto che agli uomini» (Atti degli Apostoli 4, 19, e prima Socrate, nell'Apologia 29-d). È obbedienza a Dio tramite la coscienza, e per chi non pensa Dio è obbedienza all’istanza più alta, più propriamente umana, sicché il disobbedire a questa essenza di sé sarebbe rinnegare la propria dignità. Chi non crede che Dio esista può pensare che, con l’obbedire alla propria coscienza, darebbe ascolto a lui nel caso che esista.

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