Le parole sono un seme
Paolo diceva: non esistono bambini cattivi, ma se vivi in un contesto in cui l’unico linguaggio che hai, anche per poter sopravvivere è il linguaggio della violenza e della sopraffazione, quello conosci e quello metti in pratica.
Rita Borsellino, Nata il 19 luglio. Lo sguardo dolce dell’antimafia, Editore Melampo, 2006, Milano
Introduzione: le motivazioni che portano a una scelta
La vita di un bambino, in famiglia, è ricca di momenti di confronto e questi momenti sono senz’altro importanti, ma nascono sempre da un solo punto di vista: i valori trasmessi da coloro che si occupano della educazione del piccolo. Se la scuola è il luogo dove la vita di una persona si apre all’esterno per la prima volta, è qui, dove si incontra la cultura, che il bambino può conoscere e confrontarsi non più solo con soggetti simili a sé e parte di sé ma con identità diverse sin dalle basi educative.
La scuola è dunque il luogo indispensabile dove insegnare ai giovani i valori della convivenza pacifica e democratica, della legalità, educandoli all’idea che senza di questi non esistono giustizia, benessere e sviluppo. È qui che gli studenti praticano diritti ma anche doveri, e verificano quanto importanti siano i principi di responsabilità e di rispetto del prossimo1.
Quando nel 2000, con il cosiddetto “dimensionamento” la scuola Carlo Levi da piccolo plesso è diventata direzione di un istituto comprensivo, decidemmo di darci una identità forte occupandoci di intercultura. L’esperienza è stata efficace nell’istituto e significativa sul territorio, tanto che, con grande naturalezza, abbiamo da allora continuato ad approfondire i temi della solidarietà sociale e della cooperazione.
Nel 2005 abbiamo contattato l’ass. Tamburi di pace e ospitato nei nostri locali la mostra interattiva “Gli altri siamo noi”, un percorso esperienziale sui temi del pregiudizio e della discriminazione. Questo strumento ha aperto le porte della scuola al territorio: per quasi 3 mesi il percorso è stato visitato da singoli e da gruppi, e le visite sono state gestite dagli alunni che si sono presi la responsabilità di fare da guida alla visita e da servizio d’ordine, come anche da segretari nell’organizzare gli appuntamenti e le turnazioni.
Da allora questo è stato il “nostro” modo di lavorare: contenuti forti, valori alti, collaborazione reale con il territorio.
Nel riconsegnare “Gli altri siamo noi” ci siamo chiesti se saremmo stati in grado di lavorare e realizzare un progetto di quel tipo: una sfida impegnativa nei tempi, nei contenuti e nelle procedure. L’intero istituto si è impegnato nel dare un contributo significativo, ma soprattutto è capitato che i bambini, con le loro intuizioni e la loro semplicità, abbiano risolto alcuni problemi che a noi adulti sembravano insormontabili.
Qui abbiamo il nocciolo della questione: la differenza tra semplice e facile. Noi abbiamo scelto la strada del “semplice”, non del facile.
Semplificare è un’operazione estremamente delicata e per assurdo complessa: il rischio è scadere nel “semplicismo” e banalizzare i contenuti.
L’educazione alla pace però è tra le cose difficili: io per prima mi infiammo, mi arrabbio, mi indigno: come si fa a semplificare?
“Oggi è difficile educare perché il nostro impegno di formare, a scuola, il cittadino che collabora, che antepone il bene comune a quello egoista, che rispetta e aiuta gli altri, è quotidianamente vanificato dai modelli proposti da chi possiede i mezzi per illudere che la felicità é nel denaro, nel potere, nell’emergere con tutti i mezzi, compresa la violenza.
A questa forza perversa noi dobbiamo contrapporre l’educazione con tutti i mezzi.
A questa forza perversa noi dobbiamo contrapporre l’educazione dei sentimenti: parlare di amore a chi crede nella violenza, parlare di pace preventiva a chi vuole la guerra.Dobbiamo imparare a fare cose difficili, come disse Gianni Rodari in una delle sue ultime poesie: parlare al sordo, mostrare la rosa al cieco, liberare gli schiavi che si credono liberi”
(Mario Lodi)
La “piccola rete” degli attori della scuola
Costruire un prodotto di qualità, stabile in un istituto che comprende tre ordini di scuola (bambini dai 3 ai 13 anni) con l’obiettivo di aprire l’istituto stesso ad altre scuole, enti, associazioni, privati cittadini, pone l’obbligo di una nuova e più fattiva cooperazione tra le persone.Il fare rete, nelle scuole, non può risolversi nel comunicare dati da una segreteria ad un’altra, o nell’aderire ad un bando di concorso riservato “alle reti scolastiche” ma deve diventare un concreto modo di lavorare: è la costituzione di un piano condiviso di attività e obiettivi, in cui le esigenze (consapevoli e inconsapevoli) dei lavoratori e degli utenti siano convogliati e soddisfatti in un percorso di crescita comune.
Il nostro percorso è stato realizzato partendo dal presupposto che nella vita la confusione tra vero e falso, tra giusto e sbagliato, tra azioni e reazioni induce a riflettere, a cercare la verità che è poi il motore dell’evoluzione dell’umanità.
Si è dunque strutturato un percorso di ricerca-azione nell’analisi delle vie e delle motivazioni che ci conducono a fare delle scelte in merito al bene comune e al benessere personale. Tali scelte toccano tutti, quotidianamente, e non scegliere non significa proteggersi dall’errore ma rifiutare una responsabilità: la responsabilità di essere umani. infatti, l’essenza dell’umanità mi pare essere, più ancora che la capacità di comunicare, la possibilità di operare delle scelte esistenziali.
Agli studenti si è offerta l’opportunità di intuire che i valori “assoluti” non producono comportamenti assolutamente giusti o sbagliati, e che per ogni problema, reale o ipotetico, esiste un ventaglio di possibilità di soluzione correlate e mai una ricetta infallibile.
Questa finalità del nostro istituto, espressa dal Piano dell’Offerta Formativa e diretta all’intera popolazione scolastica (alunni, genitori e docenti), si è realizzata in un percorso educativo che aiuti tutti a:
- Sperimentare abilità e conoscenze e maturare le competenze per vivere la propria cittadinanza nella società
- Costruire razionalmente e intenzionalmente il proprio futuro, sulla base di un progetto condivisibile
- Capire e interpretare i rapporti di causa-effetto per pervenire alla soluzione di problemi
Il pensiero diventa pensiero critico, riflessione costruttiva sui rapporti di causa ed effetto nella vita quotidiana, dalla soluzione dei piccoli problemi pratici alla gestione delle relazioni interpersonali.
La pedagogia dell’ascolto: una scelta metodologica
La scelta metodologica che, inevitabilmente, ci siamo trovati ad adottare, è quella della Pedagogia dell’Ascolto2 insieme alla pratica di alcune tecniche didattiche specifiche per la prosocialità (cooperative learning, metacognizione, focusing, relazione d’aiuto...)La pedagogia dell’ascolto per l’educazione alla pace prevede il ribaltamento dell’idea classica di insegnamento, per lasciare spazio alle domande “legittime”, ossia a quelle domande nate da un vero e proprio bisogno dei bambini e non dalla esigenza della disciplina di esplicare una risposta.
Infatti, nella didattica classica la domanda esiste per far passare un contenuto (il classico esempio lo troviamo nel concetto di teorema: la domanda è strumentale alla risposta). Invece, la pedagogia dell’ascolto rispetta la domanda come tale.
In ogni domanda dei bambini c’è un bisogno di significati, rispettare la loro legittima curiosità consente di sviscerare problemi e questioni dal loro punto di vista, e perciò secondo linguaggi, strategie e procedure per loro significativi.
Attuare il percorso dell’ascolto implica una modifica radicale del modo tradizionale di pensare l’insegnamento: la programmazione predefinita prevede “risposte”, dare spazio alle domande impone di lasciare alle domande stesse la possibilità di guidare gli apprendimenti, passando ai bambini la responsabilità della progettualità.
Formazione, progettazione, facilitazione: dalla “piccola rete” alle reti di cooperazione e cittadinanza attiva
Nell’assumere l’impegno di una progettazione a lungo termine per l’integrazione, si è dovuto procede all’analisi dei bisogni e delle risorse: quali professionalità, quali esigenze economiche, quali spazi, quali tempi...Per realizzare in maniera efficace e non dilettantistica l’attività ci siamo riferiti alla “grande rete” delle scuole e delle associazioni della città, e grazie al passaparola abbiamo contattato l’associazione Pratika-Roma per una formazione specifica sui temi della nonviolenza e per facilitare il percorso di progettazione.
L’approccio del gruppo in formazione nasce dalla considerazione che una buona capacità di favorire l’integrazione abbia come presupposto la capacità di riconoscere, accettare e valorizzare le differenze e la capacità di riconoscere i diversi contesti nei quali i singoli individui interagiscono.
In questo senso favorire l’integrazione è educare alla complessità.
Il percorso esperito ha condotto il gruppo degli insegnanti ad ottenere strumenti e metodi per rafforzare l’identità individuale e di gruppo degli alunni, per lavorare sull’apertura alla diversità nella relazione e sulla relatività del proprio punto di vista; aumentare la consapevolezza degli studenti sul fenomeno dell’interdipendenza nell’era della globalizzazione.
Il percorso formativo, suddiviso in sei incontri da due ore ciascuno di laboratori in cui sperimentare e sperimentarsi, ha previsto la partecipazione attiva per la acquisizione di strumenti concreti da spendere nel proprio approccio all’insegnamento e ha consentito l’analisi del tema attraverso l’osservazione del Conflitto come possibilità di crescita ed autoconoscenza. Il mezzo è l’Autoconsapevolezza emozionale che, attraverso l’ascolto attivo, consente una gestione creativa dei conflitti.
Al termine della formazione i responsabili dell’associazione hanno guidato il gruppo di lavoro in un percorso di dodici ore di facilitazione ai processi progettuali, monitorato e sostenuto le scelte operative, fornendo strumenti e riassumendo in forma di relazione i nostri brainstorming, le decisioni, le delibere. Lentamente, naturalmente, il percorso ha preso forma e consistenza.
Uno strumento educativo: la mostra interattiva “Le parole sono un seme, giochi e riflessioni per la gestione costruttiva dei conflitti”
Il percorso di cui si parla è stato realizzato grazie ad un finanziamento cospicuo da parte dell’USR Lazio per la lotta all’emarginazione scolastica: il nostro istituto, situato in una borgata romana, presenta infatti molti iscritti che manifestano situazioni di disagio di vario genere: deprivazione culturale, famiglie con una sola figura adulta di riferimento (non sempre genitore), alta percentuale di richieste di esenzione ISEE e di buoni libro, bambini Rom, bambini stranieri, diverse e diversamente gravi situazioni di disabilità.Il lavoro più grande è stato quello dei bambini, che hanno affrontato questo impegno con grande serietà. Il percorso è stato interamente realizzato dai bambini nella fase operativa (disegnare, scrivere, incollare...) ma è capitato spesso ,che i bambini siano stati coinvolti anche nella fase progettuale ogni qualvolta servisse un confronto diretto con le loro esigenze e percezioni. In questi casi, sempre, hanno semplificato questioni che ai nostri occhi di adulti sembravano irrisolvibili.
Il prodotto finale è un “labirinto” costituito da 20 pannelli in multistrato alti 2 metri e larghi 1 metro, ciascuno dei quali si presenta come una domanda-stimolo che si affronta in termini di gioco e di sfida verso se stessi, strutturati in cinque sezioni consequenziali, nate dalla definizione che Roberto Tecchio dà alla parola conflitto: uno stato della relazione in cui è presente un problema al quale si associa un disagio.
Dunque il percorso è suddiviso in:
- Le relazioni: con me stesso, con gli altri, con la realtà
- Le emozioni: strumenti per guardare non dentro di te ma fuori
- I problemi: percepiti, analizzati, esperiti, capiti
- Il disagio: “percezione del problema o problema di percezione?”
- La comunicazione nonviolenta: una strategia efficace per la gestione costruttiva del conflitto.
La comunicazione nonviolenta
Ma cosa è la comunicazione nonviolenta?Il termine Nonviolenza si ispira a Gandhi. All’origine dell’approccio evolutivo c’è la nonviolenza (traduzione dal termine Ghandiano ahimsa) che porta al satyagraha (सत्याग्रह, ricerca della verità e del bene), da cui nascono comportamenti e forme moderne di protesta ed espressioni concrete di cittadinanza attiva: obiezione di coscienza, boicottaggio, digiuno, disobbedienza civile...
A volte ci pare che il nostro modo di parlare non abbia niente di violento, eppure succede spesso che le nostre parole siano fonte di sofferenza per gli altri e per noi stessi.
La Comunicazione Nonviolenta (CNV) può aiutarci a gestire meglio le nostre modalità di comunicazione per superare il disagio che origina la sofferenza.
Ad esempio, una cosa è dire “mio marito non mi dimostra quasi più dell'affetto” e un’altra “mio marito non mi ha abbracciata nelle ultime due settimane”: la prima frase é la valutazione di una situazione, fatta dalla persona che parla, la seconda frase è la descrizione di una situazione, osservata dalla persona che parla.3
Per tutti i nostri iscritti, ma in modo speciale proprio per i bambini e i ragazzi che manifestino una qualsivoglia forma di disagio (e anche per noi adulti…), si è trattato di agire attraverso la didattica di laboratorio ed esperienziale, spesso programmata per classi aperte, sempre transdisciplinare. Si è favorito il dialogo, garantendo a tutti la possibilità di esprimersi e di raccontarsi; si è lavorato molto sull’esperienza diretta e sulla narrazione biografica, strutturando setting per il circe time e per i giochi di ruolo, di fiducia o di socialità4.
Come direbbe Daniele Novara, abbiamo lasciato lo spazio alle domande legittime, e spesso lasciato “spazi” aperti per le risposte.
Insomma, abbiamo offerto ai nostri bambini la possibilità di scoprire da soli, giocando tra loro e parlando di sé, che provare emozioni non è una brutta cosa, che arrabbiarsi è normale, che piangere non è vergogna, che gli altri meritano sempre la nostra fiducia. Che le parole servono per dire la verità e per “litigare senza picchiarsi” (Lorenzo, 6 anni), che le idee degli altri vanno rispettate senza rinunciare alle proprie.
Che se succede qualcosa la domanda giusta non è “di chi è la colpa?” ma “cosa facciamo adesso?”
Abbiamo imparato insieme che la parola conflitto evoca sempre qualcosa di mortifero, di deprecabile, ma al contrario, il conflitto è una occasione di confronto e perciò di crescita comune, di apertura. In un conflitto positivamente gestito c’è una relazione dialogica e nella relazione dialogica, come afferma Martin Buber, l’io e il tu diventano noi (M. Buber, Il principio dialogico).
Conclusione: la parole sono un seme, fare rete per... seminare la pace
La mostra "Le parole sono un seme", inaugurata a maggio 2008 dopo due anni di lavoro e aperta al pubblico il 15 ottobre 2008, ha già dato i suoi frutti: i bambini riflettono, si fanno domande, chiedono di parlare di loro e tra loro, chiedono un circle time perché c‘è un problema. I genitori iniziano a superare la diffidenza e a chiedere “noi cosa possiamo fare? e come?”Ma l’obiettivo che ci poniamo è ben più alto:
“le parole sono un seme
che poi diventa un albero,
che poi diventa un bosco,
dove mi riconosci e io ti riconosco”5
e noi oggi abbiamo questo stesso scopo, fare rete tra scuole, istituzioni, cittadini perché una cultura della pace “agita” possa attecchire, germogliare e diffondersi, passare dal piccolo seme di una scuola di borgata ad una foresta di mani tese alla cooperazione.
Per informazioni valeria.bonatti@alice.it
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