Bobbio maestro civile
Bobbio è stato maestro di tanti. A Torino, ma non solo, è riconosciuto tale tanto dalla cultura laica quanto dalla cultura cattolica dialogante. Maestro anche nella differenza e nel dissenso. Maestro in Italia e anche fuori, fino alle Americhe, nella ricerca dei criteri e delle forme per assicurare i diritti umani e la giustizia nella vita sociale umana, e almeno ridurne le violenze. Questo era per lui il senso della democrazia.
Ha sofferto le tragedie del ‘900 fino a questo inizio di millennio insanguinato. Ci ha insegnato ad apprendere le dure lezioni della storia senza perdere la sensibilità morale, che aveva viva e acuta. Chi lo ha frequentato personalmente per decenni ne è diventato anche amico affezionato, in un rapporto umano, non solo intellettuale, senza cessare di discutere con lui, senza perdere di vista la differenza di età, di esperienza, di scienza.
Ha lavorato nella ricerca rigorosa, seminata di interrogativi e di analisi concrete, nel pensiero totalmente libero dalle lusinghe del potere (non volle essere candidato alla presidenza della Repubblica) come dalle pressioni e dal disprezzo dei potenti (riferendosi a lui, Craxi parlò di «intellettuali dei miei stivali», e più recenti ottusità gli dedicò l’intelligenza oggi al governo), nell’insegnamento assiduo offerto a generazioni di giovani studiosi, nel quasi disperato ma tenace paziente magistero civile pubblico, fin quando ha potuto.
Il suo pessimismo metafisico, la sua tristezza senza rimedio davanti ai mali della storia, lo lasciavano però attento ad ogni voce di speranza, anche religiosa, che non faceva sua, ma che era lontanissimo dal disprezzare. La durezza della storia e delle dinamiche dei poteri politici, oggetto dei suoi studi di tutta una vita, lo lasciavano (o lo rendevano?) attento alle virtù delicate: si rileggano i suoi scritti sulla mitezza e sulla nonviolenza, sebbene con molti dubbi e poca speranza di realizzazione storica. Ciò che ha scritto su Aldo Capitini, così diverso e così attraente per lui, è tra le sue migliori pagine e tra le migliori scritte su Capitini.
Impossibile render conto in breve – del resto non è questo il momento - non solo dei suoi moltissimi libri, saggi e articoli, ma anche degli infiniti contatti personali in colloqui, lettere sempre puntuali e accurate (anch’io ne conservo molte), incontri, seminari, dibattiti (ricordo specialmente le riunioni sempre di alta qualità al Centro Studi Piero Gobetti), da lui vissuti con la semplicità e l’autentica seria umiltà di chi ha sempre qualcosa da imparare da tutti, pur con sperimentate convinzioni e forti passioni.
Come ogni vero maestro, egli ha spinto gli allievi ad andare oltre, anche differenziandosi da lui, dal suo pensiero, dal suo punto di vista e valutazioni. Ricordiamo il momento, per tutti drammatico, delle discussioni sulla guerra del Golfo del 1991, che egli giudicò giuridicamente giusta e necessaria - «Ma non doveva diventare un massacro», scrisse poi a noi del foglio (vedi n. 178, febbraio 1991) - in conflitto profondo, sempre nel reciproco rispetto e stima, con molti dei suoi migliori allievi. Non tutti i documenti di quel dibattito sono pubblici.
Negli ultimi tempi, dopo la perdita della moglie Valeria, sua compagna amata e appoggio intelligente, il peso della solitudine e degli anni lo ha chiuso nel silenzio. Con discrezione, amici e allievi gli hanno (gli abbiamo) mandato segnali di affetto e gratitudine, perché gli fossero di conforto. È morto nel giorno centenario della nascita di Giorgio La Pira. Vedo in ciò quasi una misteriosa combinazione: così simili nella passione civile, nel desiderio di giustizia e di pace, così diversi nella speranza, li immagino ora capaci di capirsi.
Ad un vescovo brasiliano, anziano come lui, egli disse una volta sorridendo: «Alla nostra età, contano più gli affetti dei concetti». In queste parole, c’è tutto il succo umano e la saggezza non arida della sua lunga vita di studioso e di maestro civile.
Enrico Peyretti, 9 gennaio 2004
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