Credere nonostante
Credere nonostante
Enrico Peyretti, 22 aprile 2009
Alcuni appunti slegati per un colloquio tra atei e credenti, più cinque testi finali (Corano, Cuminetti, Pedrazzoli, Mancini, Umberto Eco)
Per fortuna (io direi anche per grazia di Dio) non erano gli “atei devoti”, che fanno male a molti: alla chiesa e al papa, oggetto ricambiato delle loro devozioni, al vangelo, oggetto delle loro strumentali riduzioni, e all’ateismo stesso, oggetto delle loro superficiali ambizioni. E non erano neppure quegli atei dogmatici che ci fanno pensare che dappertutto si trova anche chi ha voglia di avere (o di essere) un papa.
Sono signori seri e studiosi dell’ “Unione degli atei e agnostici razionalisti” (www.uaar.it) e mi hanno invitato (non sapendo - mi si passi l’espressione - a quale santo votarsi), a partecipare, a Genova il 20 aprile, ad un colloquio, più che un dibattito, sul tema “Libertà di credere e di non credere. E libertà di poter scegliere”. Tra gli altri, era invitato anche l’imam di Genova, città nella quale c’è qualche opposizione preistorica alla costruzione di una moschea.
Venuto il mio turno di rispondere alla brava giornalista che ci interrogava, Donatella Alfonso, ho detto subito che era ovvia questa libertà, e che si trattava, secondo me, non di dibattere, ma di ascoltarsi a vicenda. Nell’impossibilità di rendere conto, ora, di tutte le fasi della conversazione (sacrificata in un tempo stretto), sistemo qui, per mia utilità e per eventuali curiosità, gli appunti che mi ero preparato e che ho potuto proporre solo in piccola parte.
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Una premessa: avete fatto bene a prendere la parola come atei! Che se ne parli! Che non si guardi solo nel proprio piatto, dei soli interessi pratici o economici! Porre la questione di Dio, comunque la si concluda, o la si lasci aperta, è un atto di serietà. Un atto raro, di quelli che ci fanno tutti più umani. Su Dio non è scontato né il sì né il no. Qui, ovviamente, né io devo convincere voi né voi me, ma si può fare un dialogo che è conoscenza reciproca, che è comprendere le diversità. Ascoltare una visuale diversa dalla nostra, anche senza concordare, è un vedere di più.
Potrei ricorrere al Concilio Vaticano II sull’ateismo. La Gaudium et Spes, nn. 19-21 (edizione Dehoniane, nn. 1373-1384) indica anche nella responsabilità dei cristiani la negazione di Dio, ed aggiunge che «anzi la chiesa confessa che molto giovamento le è venuto e le può venire perfino a motivo della opposizione di quanti la avversano o la perseguitano» (n. 44 c). Qui non si tratta di persecuzione giuridica o politica, ma di contestazione filosofica o esistenziale. Persecuzioni i cristiani ne hanno sofferte e a volte, qua o là, ne soffrono ancora, ma non è il peggio che possa loro capitare. Il peggio è perdere la propria ragion d’essere.
Potrei citare Enzo Bianchi coi suoi libri La differenza cristiana, e il recente Per un’etica condivisa, che intervengono, io credo utilmente, nel nostro discorso. Oppure il cardinale Martini nei suoi Colloqui notturni a Gerusalemme: «Se la Chiesa vuole essere missionaria (…), questo ci obbliga ad avviare un dialogo con tutti, a donare a tutti la nostra amicizia e a cercare la collaborazione di tutti. Allora potremo trovare interessi comuni, ascoltarci a vicenda con attenzione e imparare gli uni dagli altri».
Preferirei citare Norberto Bobbio, maestro di tanti e mio (ho avuto venti anni di incontri e corrispondenza con lui), citato anche da Martini: «La differenza più importante non è quella tra credenti e non credenti, ma quella tra chi pensa e chi non pensa sui grandi interrogativi della vita».
Ecco, bisogna che non ci sia nella società nessun pensiero unico, ma sincerità e profondità, quanto più gli interrogativi sono centrali nel pensiero e nell’esistenza. Bisogna che il pensiero non sia né forte né debole, ma serio e umile (con questo titolo c’è un libro di Roberto Repole).
Però, più che citare, vorrei qui portare una testimonianza personale, un piccolo “rendere conto”, dicendo anzitutto che un credente capisce le ragioni degli atei (G.S. n. 21; Deh 1379; e rieccomi a citare!), perché nel credente c’è anche il non credente (e forse viceversa).
Vedo che la Uaar comprende atei e agnostici. Infatti, sulla questione Dio si può dare dimostrazione o dubbio? «Ci son più cose in cielo e in terra, Orazio, di quante se ne sognano nella vostra filosofia», L’avviso di Shakespeare vale per tutte le convinzioni.
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Che cosa è credere? Direi che credere è fare credito. Non è opinare, ipotizzare. Non è principalmente accettare una teoria, una dottrina. È più che pensare, è vivere con disposizione creativa. È credere in qualcuno perché lo merita, perché è credibile, ma anche perché io gli faccio credito, gli do fiducia, gli aggiungo un merito. Non constato tutto ciò che mi dice o mi promette, ma vado ben al di là della verifica e del controllo, che toccano ma restringono: aderisco al valore della sua persona, e con ciò lo accresco. Mi appoggio a lui, ma anche gli do appoggio, perché essere creduti, ricevere fiducia, è latte sostanziale, primo nutrimento dell’esistenza, necessario a tutte le età. Fare credito arricchisce il mondo, crea realtà. Il capitalismo pensa il contrario, perché non capisce niente della vita e la rende miserabile. Chi perde regalando genera persone e dunque, già in questo, riceve il centuplo, come il vangelo promette. Anche credere in Dio è fare credito a Dio. Egli ci supplica di fargli credito, per potere esistere per noi.
Credente non è chi ritiene che Dio esista da qualche parte, ma chi crede che Dio è vicino a lui, silenzioso presente, e prega per ringraziarlo, e lo invoca per ricevere il suo Spirito. Dio c’è se lo crediamo. Il mio vicino esiste se sono attento a lui. La fede ci salva perché sa che Dio esiste per noi. È Dio che ci salva, ma per salvare dal vuoto e dal male la nostra esistenza ha bisogno che lo ospitiamo in noi con la fede, con quella relazione personale che ce lo rende presente perché lo accoglie e lo ascolta, e lo aiuta. Sotto la tormenta nazista che colpisce anche Dio, e lo sta distruggendo, Etty Hillesum scrive nel suo Diario: «E se Dio non mi aiuterà più, allora sarò io ad aiutare Dio» (11 luglio 1942). Eppure, non è sempre necessaria la fede esplicita, formulata: ha fede audace chi sceglie di stare coi vinti, chi pratica il debole bene sconfitto rifiutando il forte male vincente; chi, senza pensare a Dio, sfama, disseta, ospita, riveste, conforta il bisognoso, invece di approfittare dei deboli alleandosi coi potenti. Egli salva Dio che non conosce, presente negli sconfitti, e Dio salva lui (da Il diritto di non uccidere, pp. 117 e 131).
Credere non è una certezza, un’evidenza, una sicurezza. La nostra ragione è preziosa, ma fallibile, sia nel voler dimostrare che nel negare. Poi, la fede è anche un sapere, ma – direi – nel senso latino di sàpere, cioè sentire un odore, gustare un sapore; è un conoscere senza poter afferrare e de-finire; un conoscere più profondo dell’intelletto, come si conosce un profumo o si ammira una bellezza. La riflessione intellettuale (teologia) viene dopo avere avvertito un valore presente, intimo, non oggettivabile, la cui realtà si fa sentire nell’affidarsi reciproco.
Michele Do, un grande prete della Val d’Aosta, morto nel 2005, diceva di avere «alcune dubitose irrinunciabili chiarezze» (cfr Michele Do, Per un’immagine creativa del cristianesimo, edizione non commerciale). Si noti ogni parola. Il dubbio fa parte della fede, che non è un teorema; non è solo dissolutore, è anche dubbio euristico, promotore verso migliore verità, aperta; è il non-possesso di ciò che credo.
Più del termine credente io direi “fidente”: credere è fidarsi. Hans Küng parla di “fiducia di fondo”; fiducia che il bene non sia vinto dal male. È regalare fiducia, fare credito. Naturalmente dipende dalle esperienze fatte: il bimbo maltrattato difficilmente crede nell’umanità e nel senso dell’esistenza. Il pensiero e la prassi interagiscono. La fiducia non è né tutto calcolo sul sicuro, né tutta scommessa al buio. È quell’avere senza afferrare, senza stringere, non è padronale, è come i nostri amori; è nella logica della libertà, non della proprietà. La fiducia tra noi (appoggio e rischio) è analoga alla fiducia nell’oltre-noi.
Qui si potrebbe dire: va bene, fiducia negli altri, fiducia nella realtà: ma Dio cosa c’entra?
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Dio è un nome generico. Quando, nel racconto biblico, Mosè ne avverte la presenza, lo conosce con questo nome: «Io sarò con te. Ti sarò accanto. Ti accompagnerò». Dio non ha altro nome che questa sua azione-presenza. Il nome pretende di sapere, di individuare, definire. Dio sfugge a questa pretesa. Anche ognuno di noi è più del suo nome.
Parlo ora solo per i cristiani: noi sappiamo di Dio attraverso Gesù Cristo, non per un’operazione di trascendenza mentale. Sappiamo da Cristo e vediamo in Cristo la sua presenza buona nella vita e nella storia, la presenza di uno più vivo di me. Uno che mi interpella nel più profondo di me; «interior intimo meo» dice Agostino; «più vicino a me delle mia vena giugulare», dice il Corano.
Michele Do polemizzava contro l’idea di una Dio “estrinseco”, oggettivato, una sagoma vuota, un concetto ipotetico, un padrone. Invece, noi lo crediamo come realtà “intima-e-oltre”, né solo identificabile con me, né solo trascendente me.
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Ogni persona ha la coscienza. Possiamo addormentarla o tenerla sveglia e attenta, svilupparla, nello scambio reciproco con le altre coscienze. Questa «piccola forte voce in noi» (Gandhi) è noi, il centro di noi, ed è anche altro-da-noi, perché mi può contestare e accusare. La coscienza è l’Oltre-in-me (Mancini, L’umanità promessa, p. 89; 101-102). «L’homme dépasse l’homme» (Pascal). Io, così tanto limitato, non contengo tutto me stesso. C’è in me una trascendenza nel senso relazionale: l’altro (l’altra persona e l’altra realtà) nel contempo mi costituiscono e mi trascendono. L’amicizia e l’amore sono in me e mi portano oltre me, sono “altro in me”. Ma anche una passione, un ideale civile, un impegno, aprono il mio limite, mi portano oltre.
Ora, per chi è credente, Dio non è un “grande protettore”, il “tappabuchi”, uno di cui ci si serve, o un padrone da servire. Dall’islam imparo che «Quelli che obbediscono a Dio sotto il bastone e ne vanno superbi, sono peggiori di quelli che gli si ribellano»; e imparo dalla grande mistica di Bassora, Rabi’ha, che andava con una torcia in mano e un secchio d’acqua, dicendo: «Voglio bruciare il paradiso e spegnere l’inferno, perché spariscano questi due veli all’amore di Dio, e si suoi servi lo adorino senza temere castighi o sperare ricompense» (Vite e detti di santi musulmani, Ed. Tea).
Cioè, per il credente Dio non è uno strumento per salvarsi dal limite, dal male. È un incontro non programmabile, non inquadrabile, e tuttavia annunciato come un sintomo, un suggerimento – non una dimostrazione - nella nostra struttura intima affacciata sull’oltre. Possiamo restare ad attendere per tutta la vita. Possiamo ritenere che il cielo sia vuoto. Possiamo udire quella «voce di silenzio sottile» che udì il profeta Elia come unica risposta impalpabile alla sua violenta pretesa religiosa. Non credo che avesse ragione Feuerbach nel dire «Ciò che è dato al cielo è tolto alla terra». Questo accade nella religione anti-umana, di un dio ladro e nemico, ma non sarà forse che cielo e terra (fuor di metafora ce lo suggerisce oggi la nuova coscienza ecologica) siano un sistema unico, in cui la terra è così feconda da produrre la bellezza del cielo, e così povera da neppure poter sussistere senza la luce e l’acqua e il vento del cielo, da cui tutto riceve e scambia?
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Il cristiano crede a Cristo, testimone di Dio, «immagine visibile e trasparente dell’invisibile volto di Dio. Immagine alta e pura del volto dell’uomo come lo ha sognato il cuore di Dio» (Michele Do). Non dà la sua fede ai preti e al papa come tali, non all’istituzione religiosa, pur ricevendo e vivendo la fede nella chiesa come fraternità spirituale.
In un convegno (della rivista Servitium) dal titolo “Credenti non clericali”, qualcuno ha detto, riguardo all’istituzione chiesa: «né senza né contro né sotto», ma insieme, liberamente. La fede critica la religione (riti, dottrine, forme): ne conosce bene il valore e l’errore, fino all’orrore, ma la vede in trasparenza, l’attraversa. La religione è strumento, la fede è vita, è relazione personale. Ma religione è anche l’atmosfera che riconosce l’unità misteriosa profonda di tutte le cose. Ripeto spesso Aulo Gellio: «religiosus esse nefas, religentes oportet»; è nefasto essere religioso, legato, vincolato, ma è necessario essere di quelli che fanno collegamenti, come può essere benissimo un ateo. E Hans Küng, criticando la chiesa, dice: «Io non sono più cristiano della chiesa».
Quando un religione gerarchica si pone come una delle forze sociali in competizione, i veri credenti non riconoscono una tale gerarchia religiosa che vive di scambio di appoggi coi poteri di fatto. Tutt’altra cosa quando – p. es. il vescovo Romero in Salvador – fronteggia il potere per la vita e la liberazione delle vittime, mettendo in gioco tutto.
Sorella Maria dell’eremo di Campello scrive nella prima lettera a Gandhi: «Io sono creatura selvatica e libera in Cristo, e voglio con Lui, con te, con voi, con ogni fratello cercatore di Dio, camminare per i sentieri della verità». E nel 1932 gli dice di sé: «Io sono riconoscente e in venerazione per la Chiesa della mia nascita e della mia famiglia, ma la chiesa del mio cuore è l’invisibile chiesa che sale alle stelle. Che non è divisa da diversità di culti, ma è formata da tutti i cercatori della verità». Questa è la chiesa di tanti di noi, senza altri confini che l’umanità tesa al vero e al giusto.
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Perché si è cristiani? Posso parlare solo per me. Perché ho incontrato testimoni che mi hanno “persuaso” (il termine è di Aldo Capitini, non cristiano). Perché ho incontrato dei cristiani liberi e fedeli. Si è cristiani, spesso, per l’educazione ricevuta: Kierkegaard rispondeva: «Sono cristiano perché era cristiano mio padre». L’educazione non è solo un condizionamento limitante, è anche quel contributo che fonda la libertà, e potrà essere accettato, modificato, rifiutato, ma senza qualche punto di appoggio e di partenza non c’è alcuna libertà.
Si crede, come dice Gandhi, «perché vedo che in mezzo alla morte persiste la vita, in mezzo alla menzogna persiste la verità, in mezzo alle tenebre persiste la luce». (Gandhi, Antiche come le montagne, Edizioni di Comunità, Milano 1965, p. 100). Nonostante morte, menzogna, tenebre, violenza.
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Se dovessi dire che cosa un cristiano ritiene che sia l’essenza del Vangelo, direi qualcosa di questo genere: Dio è umano, è una presenza interiore, non un ente metafisico. Il vangelo, lieto annuncio, è nelle beatitudini, che sono quella “umanità promessa” (titolo di un libro di R. Mancini), quella utopia dell’“uomo inedito” (Ernst Bloch, Ernesto Balducci). Il vangelo è già tutto nel «date senza attendere restituzione» (Luca 6,35), in questa creatività, aggiunta, nel dare bene per male; è già tutto nel «misericordia voglio e non sacrifici», che rompe ogni idea sacrificale della religione: né Cristo né noi siamo destinati al sacrificio, ma chiamati ad un amore che va al di là del merito e della colpa (questa è la misericordia), fino ai nemici, fino ai colpevoli. Abbiate pietà dei cristiani, che hanno un compito enorme, però non schiacciante, perché non dipende tutto da noi, e «il mio giogo è leggero», dice Gesù . E ancora, il vangelo è nel sapere che la storia non è tutto: c’è una riserva escatologica, la speranza non è una probabilità ottimistica, ma un’attesa chiara, una luce all’orizzonte. Insomma, la morte non ha ragione della vita. E tutto ciò, nonostante tutto.
E l’inferno? Ogni tanto se ne riparla. Fu lo scandalo di Aldo Capitini e di altri. La chiesa lo riafferma, molti teologi lo reinterpretano ben diversamente. Mancini (nel libro citato, p. 53-56) con Ricoeur, dice: uscire dalla logica giuridica (libertà come imputabilità) per una logica di amore: chi ama si fa carico del male altrui. La pena è già nel fare il male. La salvezza è che Dio si assume il mio male e lo supera. O si crede in Dio o si crede nell’inferno. Dio non manda all’inferno, ma ce ne tira fuori.
E a chi pensa di dover affermare l’inferno, direi: «Credi pure a quell’inferno là, ma cosa fai perché questo mondo qua non sia un inferno?»
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Abbiamo insieme, atei e credenti. il dovere di un umanesimo collaborativo; è necessaria una collaborazione umanistica, ora che l’umanità è minacciata. «Vivens homo gloria Dei» diceva Sant’Ireneo: nell’uomo vivente, nella dignità e libertà di ogni persona il credente riconosce la gloria di Dio. E chi non pensa Dio vede il valore dell’uomo. Difendiamo e liberiamo ogni vittima: se Dio non c’è, avremo reso migliore il mondo; se Dio c’è, sarà contento anche lui. Chi morrà vedrà.
Non è vero che «se Dio non c’è tutto è possibile», nel senso che non c’è morale e ogni nefandezza diventa lecita! (Enzo Bianchi, Per un’etica condivisa, pp. 62-69, afferma la “Spiritualità degli atei”). L’ateo ha coscienza morale. La coscienza nell’uomo di valori inviolabili – che anche se violati non sono soppressi, ma risaltano nella vittima! - per il credente è sintomo di un vivente, origine viva e difensore di questi valori. Ma anche per chi non è credente sono valori inviolabili, e più che mai se nessuno in cielo se ne fa vindice.
Proposta pratica: contro l’idolo antropofago che è la guerra-violenza-sfruttamento-dominio-distruzione, atei e credenti siano alleati per ragioni diverse: gli atei contro una divinità opprimente e omicida, i credenti contro una divinità falsa, perciò opprimente e omicida.
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Alcuni testi
1) Corano: convivenza tra le religioni (e tra religioni e non religioni) tese al bene
2) Cuminetti: vera discriminante è tra nulla-credenti e diversamente credenti
3) Pedrazzoli: rito del bene, non sacrificio
4) Mancini: Beatitudini
5) Umberto Eco: Cristo
Corano 5,48: «Ad ognuno di voi abbiamo assegnato una via e un percorso. Se Allah avesse voluto, avrebbe fatto di voi una sola comunità. Vi ha voluto però provare con quel che vi ha dato. Gareggiate in opere buone: tutti ritornerete ad Allah ed Egli vi informerà a proposito delle cose sulle quali siete discordi». Quel che il Corano dice per le diverse religioni può valere per le diverse visioni della vita: si può discutere, ma soprattutto «gareggiare nel fare il bene, il giusto».
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Cuminetti - La discriminante [credenti, non credenti, diversamente credenti]
«La discriminante essenziale che divide gli uomini è quella che passa fra chi, nonostante tutto, crede alla loro dignità, si impegna per gli oppressi, lotta per dar voce e spazio alle speranze più profonde e vere di ogni uomo e chi, invece, non crede sia più possibile questa trasformazione e si consegna, arrendendosi, a quelle forze che tendono, per il loro dominio, a ignorare le diverse situazioni ed esigenze degli uomini. Inutile nascondersi che per il primo caso siamo di fronte a una 'fede' che accomuna credenti e non credenti in Dio».
(Mario Cuminetti , Consentire al silenzio e ascoltare l’assenza, in Linea d’ombra, n. 60, 1991).
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Mauro Pedrazzoli Culto del bene, non del sacrificio
(da un articolo in via di pubblicazione sul mensile il foglio, www.ilfoglio.info )
«(…) Forse Gesù ha detto soltanto: «Questo è/sia/sarà il corpo per voi» (senza mio), intendendo con ciò: questo pane assume ora per voi la funzione del cibo sacrificale consumato nel tempio, prende il posto del corpo dell’animale offerto. E al momento del calice ha aggiunto: «Questo calice, che stiamo bevendo insieme (questo giro di calice) è il nuovo patto», un patto senza sacrificio, di pura condivisione senza vittime. Si tratterebbe quindi di un semplice pasto, che tuttavia decreta la fine di tutti i sacrifici, sia umani che animali. Esso non simboleggia e non esprime più il dato di fatto disumano che la vita vive a costo di altra vita umana (la radice del male), bensì la promessa che la vita è possibile attraverso la condivisione degli alimenti vitali, attraverso il mangiare e il bere insieme. Il sacramento-simbolo dà appunto espressione alla trasformazione dell’essere umano da essere vivente “asociale”, che vive a prezzo di altre vite, in un essere “collaborante” che condivide e dona nella solidarietà, gratuità, reciprocità, intersoggettività. Se proprio di rito vogliamo parlare, il nuovo “rito” introdotto da Gesù è la struttura ontologica relazionale culminante nella regola d’oro; in parole più semplici, il nuovo “culto” inaugurato da Gesù è la liturgia del bene».
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Mancini – Le batitudini
L’umanità promessa è quella attesa, sperata, cercata. È il tema dell’uomo inedito, che fu di Bloch e di Balducci, qui declinato espressamente in chiave cristiana. Quest’uomo nuovo non è solo utopico, ma anche promesso. È l’umanità annunciata nelle beatitudini evangeliche:
I poveri per lo Spirito, che vivono non trattenendo per sé ma donando; quelli che soffrono senza far soffrire, consolati non dai sacrifici religiosi, ma dal sapersi amati da Dio; quelli che vivono nella mitezza, e in un mondo di guerra tengono relazioni di apertura disarmata, offrono sicurezza anche a chi si arma per paura; quelli che hanno fame e sete di una giustizia più grande, senza pretendere di stabilirla, senza ridurla al loro giudizio; quelli che usano misericordia, cioè guardano al di là del bene e del male, del merito e della colpa, perché sanno di essere guardati così da Dio; quelli che sentono il cuore purificato dalla presenza viva di un Dio non astratto; quelli che cercando di costruire la pace sono simili a Dio, e per questa giustizia «fronteggiano la persecuzione senza perseguitare».
(Roberto Mancini, L’umanità promessa. Vivere il cristianesimo nell’età della globalizzazione, Edizioni Qiqaion, Bose 2009, pp. 125, € 10,00).
Mio commento: fa bene o male alla vita cercare di vivere così? Ci salva la vita o no? Non occorre credere che Dio esista per cercare insieme noi di vivere così, qualunque cosa pensiamo di dei e religioni. Eppure, una promessa da oltre-noi ci aiuta. Penso che riuscire a vivere un pochino così, fa sentire Dio – comunque ci piaccia chiamarlo, anche solo “virtù di umanità” – presente in noi e tra noi.
In Matteo 25, chi ha vissuto facendo opere di misericordia e di fraternità, si sentirà chiamare benedetto da Dio. Perché Dio è dovunque ci sia un po’ di giustizia e fraternità. E se Dio non sapesse venire ad esistere dove noi, povera gente difettosa, siamo un po’ buoni e giusti, peggio per lui: in quel caso noi saremmo migliori di lui. Ma forse, nel compiere un poco il meglio dell’umano, non siamo soli, c’è il calore del suo Spirito, che non pretende riconoscimento religioso, gli basta ispirare il bene.
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Umberto Eco - Cristo
«Quest’uomo [nell’ipotesi che Dio non sia], per trovare il coraggio di attendere la morte, diverrebbe necessariamente animale religioso, e aspirerebbe a costruire narrazioni capaci di fornirgli una spiegazione e un modello, una immagine esemplare. E tra le tante che riesce a immaginare – talune sfolgoranti, talune terribili, talune pateticamente consolatorie – pervenendo alla pienezza dei tempi ha a un certo punto la forza, religiosa, morale e poetica, di concepire il modello del Cristo, dell’amore universale, del perdono ai nemici, della vita offerta in olocausto per la salvezza altrui.
Se fossi un viaggiatore che proviene da lontane galassie e mi trovassi di fronte a una specie che ha saputo proporre questo modello, ammirerei soggiogato tanta energia teogonica, e giudicherei questa specie miserabile e infame, che ha commesso tanti orrori, redenta per il solo fatto che è riuscita a desiderare e a credere che tutto ciò sia la verità. (…) Se Cristo fosse pur solo il soggetto di un grande racconto, il fatto che questo racconto abbia potuto essere immaginato e voluto da bipedi implumi che sanno solo di non sapere, sarebbe altrettanto miracoloso (miracolosamente misterioso) del fatto che il figlio di un Dio reale si sia veramente incarnato. Questo mistero naturale e terreno non cesserebbe di turbare e ingentilire il cuore di chi non crede».
(Umberto Eco, Cinque scritti morali, Bompiani 1997, pp. 90-91)
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