Credenti non clericali
"Credenti non clericali"
Della nostra fede
Pubblicato in Servitium (s.egidio@servitium.it) n. 182, marzo/aprile 2009, “Credenti non clericali”, atti del convegno organizzato dalla rivista a Forlì, 27-28 settembre 2008 (pp. 51-57)
Anzitutto, una premessa al colloquio di questo convegno: c'è un disagio essenziale nella chiesa, ma forse è ancora peggio quando c’è troppo agio passivo.
Cominciamo col chiederci; quali “cambiamenti di segno” sono avvenuti nell'arco della nostra vita? Chi ha più vita alle spalle può dire qualcosa di più.
Il “segno” può essere inteso qui come positivo o negativo. Allora, sono avvenuti cambiamenti dal positivo al negativo? È stata abbandonata la fede insieme alla dipendenza clericale? Forse sì o forse no, secondo i casi. Tutti conosciamo alcuni che, giovani con noi nei nostri stessi ambienti di chiesa, negli anni hanno messo da parte, o almeno lasciata nel silenzio, la loro fede. Oppure, hanno proprio abbandonato la fede nel liberarsi dalla dipendenza clericale. Noi che siamo qui a interrogarci e confrontarci, abbiamo almeno un interesse vivo alle sorti e alla qualità della nostra fede attraverso i mutamenti nel tempo.
In un altro senso, cambiamento di “segno” può voler dire cambiamento di direzione: quali cambiamenti di direzione ci sono stati nella nostra vita di fede? Per esempio, dalla dipendenza all'autonomia, dal pensare che non c'è accesso a Dio se non si passa dal prete, al pensare che la Bibbia di tutti è il cuore dell'uomo, che è nel cuore umano che Dio si fa sentire e chiama tutti; che la “vera religione” è l’adorare Dio in spirito e verità (cioè intimamente e nei fatti), e amare il prossimo specialmente col soccorrere i bisognosi: quello che Bonhoeffer sintetizzava in «pregare e operare per la giustizia». Quindi, un passaggio da una religione dipendente a una religione non senza gli altri, non senza la chiesa, ma più autonoma e personale, meno formale e più esistenziale. Ci chiediamo: è cambiata così la nostra fede?
Oppure ancora, parlando di cambiamenti, possiamo intendere un passaggio dalla precettistica alla fede essenziale. Ecco un esempio recente della precettistica: è avvenuto un terribile incidente stradale sull'autostrada di Trieste, con ben sette morti, tra cui la sorella di uno storico cattolico molto noto, morta col figlio, un bambino. Nella città emiliana d’origine, al funerale, presenti molti colleghi universitari, e tanta gente che non frequenta normalmente la chiesa - mi è stato riferito da un amico che era presente - l'omelia è stata ben appropriata all'occasione e all’ambiente, però, un momento prima della comunione, qualcuno ha preso la parola avvertendo: non si avvicini alla comunione chi non è in linea con le direttive della chiesa. Ecco, al momento in cui la chiesa poteva accogliere in un abbraccio di annuncio, di misericordia, persone che non incontra normalmente, a quel momento è stato fatto il contrario. Una religione della precettistica prevalente sulla prassi di Gesù.
Il cambiamento di segno nell’arco della nostra vita, allora, potrebbe essere questo: il passaggio da un tipo di chiesa legalista a quell'annuncio evangelico religiosamente rivoluzionario, che Dio manda il sole e la pioggia sui buoni come sui cattivi. Quando Gesù ha detto questo ha sconvolto la religione naturale, religione della legge e del giudizio, del premio e del castigo, certo per impegnare a non fare il male e a dare frutti di bene, ma con uno sguardo grande e benefico di misericordia.
Oppure, possiamo pensare a un cambiamento dalla dottrina all'esistenza; quand'ero bambino si diceva “andare a dottrina” più ancora che andare al catechismo. Il passaggio potrebbe essere da una religione che è soprattutto dottrina, teoria teologica, alla fede evangelica vissuta nell'esistenza, nella vita quotidiana: quello che è stato detto anche cristianesimo non religioso.
Un altro passaggio ancora può essere visto nella riduzione dalla quantità degli aspetti dell’essere cristiano alla centralità: un prete di Torino, Carlo Carlevaris, diceva un giorno che, quando era giovane, doveva portarsi tutto il deposito della fede in uno zaino pesante sulle spalle, adesso tutto quanto gli sta in un taschino. Un'immagine significativa della concentrazione nell'essenziale. Il Concilio ha parlato anche di una gerarchia tra le verità della fede, più centrali o più periferiche. Anche questo passaggio mi pare che sia avvenuto nella nostra vita, nella vita di tanti cristiani.
E poi, ancora più essenziale, è stato il cambiamento assai esteso dall’immagine di un Dio incombente, della minaccia e della paura, a un Dio fraterno e paterno, della fiducia. Se non sbaglio, oggi chi ancora crede in Dio non crede in un padrone onnipotente e arbitrario, che dà a suo piacimento la vita e la morte, che per un peccato può seppellire nell’inferno, ma in un Vivente, magari pensato in modo molto vago, magari con un riferimento assai generico a Cristo e al vangelo, magari spesso in un sincretismo plurireligioso, ma un Vivente buono e amorosamente vicino a noi umani.
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La seconda domanda ci chiede: il nostro credere è grazie alla chiesa o senza la chiesa?
In altre parole, potrebbe trattarsi di ciò che qualcuno ha individuato nei due estremi: gli appartenenti non credenti e i credenti non appartenenti alla chiesa. Si tratterebbe di queste due posizioni: stare nella chiesa senza credere davvero in Dio, da benpensanti, per appartenenza sociologica, oppure credere in Dio, avere una fede, cercare di vivere il vangelo, pur stando fuori dalla chiesa, o molto ai suoi margini, accettare qualche aiuto dalla chiesa, ma senza davvero sentirsene parte. «Cristiano senza chiesa», diceva di sé Ignazio Silone, e credo che questo sia oggi il sentimento di non pochi, provenienti da una educazione cattolica, anche impegnata, in cui però non si riconoscono più.
A sua volta, questa seconda parte può ancora distinguersi così: proprio senza nessuna chiesa, oppure senza un tipo particolare di chiesa? Qualcuno si è dato questo modesto slogan: «né senza , né contro, né sotto». Non senza la chiesa, non contro la chiesa, ma nemmeno sotto la direzione clerocratica, come se fosse una struttura insuperabile, dalla quale si deve accettare tutto, passivamente o quasi. Per esempio, le direttive della gerarchia, quando interviene anche nel campo della mediazione storica, laica, tra spirito evangelico e decisioni politiche, vengono ascoltate, ma valutate con libertà, con senso critico, suscitando in alcuni ulteriore rifiuto e distanza dalla chiesa, e crescente indifferenza ad essa, e provocando in altri, quelli ancora affezionati al senso di chiesa, risposte critiche, o soltanto individuali, o, in qualche caso, espresse in gruppo. È proprio strano il fatto che parroci e vescovi si preoccupino, a quanto mi risulta, soprattutto di queste ultime posizioni, temute come «dissenso organizzato», e non di chi lascia perdere la chiesa, di chi non se ne assume alcuna responsabilità. Dovrebbero invece preoccuparsi di quello «scisma sommerso» che Pietro Prini indicò già una decina di anni fa, nei suoi vari aspetti.
Allora, il nostro credere è così, senza la chiesa perché troppo pesante, oppure grazie alla chiesa? Ma a quale chiesa? Tanti di noi, nel cammino di questi decenni, hanno scelto una forma di chiesa tra le varie forme possibili. C'è anche chi è passato dal cattolicesimo ad altre forme di cristianesimo o anche ad altre religioni. Abbiamo scelto e viviamo una chiesa grande o piccola, viviamo una chiesa tele-visiva, cioè che si vede da lontano, oppure la chiesa della vicinanza, dell'esperienza, delle comunità concrete, dove ci si dà del tu, dove ci si conosce e ci si sostiene in relazioni personali?
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Mi chiedo cosa vuol dire “non clericale”, credenti non clericali, che è il titolo del convegno. Mi pare si possa dire che clericalismo non è soltanto il fatto di una incursione dei vescovi nella politica, nell’attività legislativa in una polis pluralistica, un fatto che tutti conosciamo, ma è qualcosa di più, è quel classismo sacro, quella sacra divisione della chiesa in classi, che restringe al clero la partecipazione vera e propria alla vita di Gesù Cristo, facendo dei laici un gregge nel senso passivo e secondario di questa immagine. Il fondatore del diritto canonico, il monaco Graziano, diceva: «Duo genera christianorum». Ci sarebbero due generi, due specie di cristiani, il clero sacro e il popolo meno sacro o non sacro. Mi pare che il concilio Vaticano II, anche nel linguaggio, abbia superato questa divisione. Togliatti aveva dato una direttiva all'Unità di scrivere sempre sacerdote e non prete, perché prete sembrava una parola più grossolana, volgare, meno rispettosa.
Il concilio ha fatto il contrario, ha riesumato la parola presbitero, di cui prete è la contrazione, e ha tolto quasi del tutto la parola sacerdote, che nel Nuovo Testamento si riferisce unicamente a Gesù Cristo e a tutto il popolo dei battezzati, ma mai ad un ministro della chiesa. Per i ministri della chiesa sono stati presi i termini dall'amministrazione civile: diacono (servitore), vescovo (supervisore), presbitero (anziano). Sono termini laici scelti dalla chiesa delle origini per nominare i ministeri ecclesiali, come per dire: stiamo attenti a non sacralizzarli. Dopo il concilio il linguaggio è ritornato quello di prima, tale e quale. Vorrei dire che il clericalismo non è soltanto qualcosa di pratico, un abuso di autorità, ma è a questo livello di concezione, di nominare le cose, di pensare la chiesa, di viverla in due pezzi separati per loro essenza. Lo pongo come problema.
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Un’ultima domanda ci è proposta per entrare nella riflessione di questo convegno: nella maturazione della nostra fede, quali punti di condivisione e/o di contrasto abbiamo sperimentato con la chiesa nella quale siamo stati generati alla fede?
Ho letto recentemente la corrispondenza di sorella Maria di Campello con Mazzolari e con Gandhi. Lei dice tra l'altro che si è tanto più cristiani quanto più uniti a tutti, quindi veramente cattolici nel senso di universali. E poi dice di avere un rispetto particolare per la chiesa di Roma, che è la chiesa madre in quanto presiede all'amore, e riconosce che vi è in essa l'elemento sostanziale, il quale è l'amare Gesù. E dice che mentre non può non essere in comunione con tutti i cercatori di Cristo, non può non avere un solo pane con i fratelli che cercano Cristo (accenna all’intercomunione con i protestanti, mi pare), si sente così unita anche con il fratello israelita, con il pagano che crede, spera, ama. E a Gandhi sorella Maria scriveva, in due occasioni, nel 1928 e nel 1932: «Io sono creatura selvatica e libera in Cristo, e voglio con lui, con te, con voi, con ogni fratello e cercatore di Dio camminare per i sentieri della verità». E ancora scriveva a Gandhi: «Io sono riconoscente e in venerazione per la chiesa della mia nascita e della mia famiglia, ma la chiesa del mio cuore è l'invisibile chiesa che sale alle stelle, che non è divisa da diversità di culti ma è formata da tutti i cercatori della verità». E definiva se stessa pancristiana, o ancora più ripetutamente “panica”, nel senso di “pan”, che significa “tutto”; dunque si definiva comunicante e appartenente al tutto. Dava questa attestazione di gratitudine e condivisione con la chiesa cattolica in cui era nata alla fede, e allo stesso tempo con l'intera umanità in ricerca, se non di Dio nominato come tale, almeno di luce, di vita, di verità.
Mi pare che questa religione aperta (il termine è capitiniano, sebbene con differenze), autenticamente cristiana mentre abbraccia tutta l’aspirazione spirituale umana, incontri non solo la religione induista ma apertissima di Gandhi, destinatario di quella corrispondenza, ma anche ogni seria sensibilità morale e spirituale, che pure non si collochi in una religione positiva. Penso, appunto, ad Aldo Capitini, penso a Norberto Bobbio, il quale diceva di avere non una religione, ma una religiosità, e affermava (con parole citate anche dal cardinale Martini) che la differenza più importante non è quella tra credenti e non credenti, ma quella tra chi si pone e chi non si pone i grandi interrogativi di senso della vita. Quando Bobbio morì, nel 2004, Barbara Spinelli scrisse che, col dirsi imperdonabile per la lettera che, venticinquenne, scrisse a Mussolini per farsi togliere un ostacolo disciplinare alla carriera accademica incipiente, egli aveva anteposto la verità a se stesso e con ciò aveva compiuto il più essenziale atto religioso.
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Allora, credo che possiamo dire nostri questi elementi di condivisione con un cristianesimo e un cattolicesimo che incontra e comunica, senza confusione, il profondo concerto della spiritualità umana in ricerca della luce e del mistero, e possiamo nel contempo riconoscere elementi di contrasto. Ricordo un prete della mia città, assistente della Fuci, che, già negli anni ’50-60, parlava di “tumefazione vaticana”: come un bubbone cresciuto sul corpo della chiesa cattolica. Elementi di contrasto riguardano anche problemi di struttura ecclesiastica, come l'esclusione delle donne, questa cospirazione quasi dogmatizzata da papa Woitila, di tener fuori mezza umanità dai ministeri ecclesiali, che non siano spazzare la chiesa e spolverare i confessionali. Ed altre cose note.
Invece, altri elementi di condivisione: ricordo l'ultimo periodo di don Michele Do, che ha vissuto per sessant'anni in un angolino della montagna della Val D'Aosta. Si è messo da parte, però con una sempre più larga e intensa rete di amicizie con persone sensibili allo Spirito. Nell'ultimo periodo diceva: «Testimoni, non sacerdoti». Era una critica del termine sacro; anzi diceva di più: «Nella chiesa i cristiani devono essere testimoni, non mediatori». Non accettava l'idea che tra Dio e l'umanità ci sia qualcuno che deve dare il passaporto, qualcuno che fa da ponte, o che «si interpone» (usava questo termine), come se Dio non fosse mai venuto all'umanità. E quindi non accettava l'idea che la chiesa e i suoi ministri siano questi mediatori. Diceva: «Sono o non sono dei testimoni, dei segnali vivi di quello che hanno capito, creduto, pensato su Dio su Gesù Cristo, sulla chiesa?».
E allora ci ricordiamo a vicenda alcune piccole e grandi domande che servono per avviare il dibattito nel convegno, ma impegnano la nostra riflessione di sempre. Abbiamo o non abbiamo questa condivisione con la chiesa madre che ci ha generato alla fede? Abbiamo nella chiesa esperienze reali di fraternità, e non soltanto di consumo religioso, di riti? Abbiamo un sostegno esistenziale reciproco nel dolore, nell'angoscia, nell'incertezza, come nella gioia, nella speranza e nell’impegno? Condividiamo nella chiesa il nostro disagio? I nostri interrogativi trovano qualche risposta in esperienze ecclesiali condivise? Nella chiesa sentiamo e viviamo la centralità di Cristo, la sua vita in noi e la nostra vita in lui, più di altre cose organizzative, strutturali, o simili?
Riprendo quella idea che proponevo all'inizio: il nostro disagio ecclesiale si sfoghi pure un po' in piccole arrabbiature, in lamenti e proteste, o indignazioni.... però è giusto soprattutto condividere la sofferenza, la fatica e l'amarezza dei problemi che la chiesa ci dà, insieme al sostegno e alla forza interiore, spirituale, dell'appartenenza e della comunione. Questo disagio si libera, matura e si risana quando riusciamo a condividere nell'essenziale del vangelo la nostra ricerca di vera appartenenza, che è l’unione nello Spirito; e si impegna giustamente nell'esercitare la corresponsabilità nella chiesa, nell'esercitare la propria libertà insieme a tutti i fratelli senza supplicarla, senza implorarla, senza rivendicarla soltanto, ma vivendola seriamente, più seriamente possibile.
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