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Intervista con Gad Lerner

Il cosmopolitismo come atteggiamento antidogmatico e creativo
Laura Tussi3 luglio 2009

Come colloca la Sua storia di formazione rispetto al personale impegno politico e culturale?

La mia storia personale ha una particolarità biografica e geografica nel senso che sono contemporaneamente cittadino delle due sponde del mediterraneo, perché sono nato a Beirut, quindi sulla sponda sud di questo mare, con i miei genitori e nonni di parte materna nati in Palestina, prima della nascita dello Stato di Israele e ho nello Stato di Israele buona parte della mia famiglia e quindi ho esperienze e sensibilità legate alla vicenda dei conflitti del mar mediterraneo e contemporaneamente una felice integrazione in Italia, con tutti i miei studi e tutte le mie attività pubbliche che si sono svolte nel corso della mia vita. Cerco sempre di tener presente le due sponde del mediterraneo e la necessità di farle convivere come elemento essenziale anche della mia attività. L’approdo al mestiere del giornalista è stato di tipo particolare perché è avvenuto innanzitutto per una scelta di militanza. Quindi sono attualmente assai grato al quotidiano di Lotta Continua perché mi ha consentito un’idea della professione giornalistica non intesa semplicemente come una carriera, ma come uno strumento di trasformazione della realtà con finalità etica. Inoltre per le particolari circostanze per cui ho lavorato nel quotidiano di Lotta Continua dopo che si era sciolta l’organizzazione, ossia il movimento, non avendo quindi dovuto subire discipline di partito, in quanto non eravamo l’organo di una forza politica, questo ci ha consentito notevole libertà di ricerca, permettendoci di sviluppare un atteggiamento antidogmatico e creativo anche nell’innovazione dei linguaggi e delle forme giornalistiche. In seguito, mi è capitata la fortuna di attraversare diversi media dai quotidiani, ai settimanali, dalla radio, alla televisione, dalle trasmissioni di approfondimento giornalistico, al telegiornale, e questo è stato evidentemente un arricchimento delle mie esperienze, in cui però ho sempre cercato di mantenere quelle impostazioni e quelle sensibilità provenienti dalla mia storia.

Come può il centro sinistra far fronte alle nuove ed incombenti sfide dettate da una società e da un mondo sempre più globalizzanti, segnati da diversità multiculturali e dalla coesistenza di variegate culture e differenti modi di essere e di pensare?

Il nodo più difficile da sciogliere perché rischia di essere impopolare in un Paese benestante quale continua ad essere l’Italia, nonostante il suo declino e le evidenti debolezze di competitività, è il fatto di essere una nazione che ha ancora una base di ricchezza diffusa importante che magari si consuma lentamente, ma consente livelli e stili di vita che naturalmente la gente con ragione vuole difendere e nonostante questa situazione noi sappiamo che il problema della stabilità, della pace e della giustizia sociale nel mondo, passa attraverso un riequilibrio delle risorse. E’ molto difficile proporlo come asse centrale della propria azione, perché sembrerebbe imporre delle rinunce a vantaggio dei più deboli e dei più poveri. Non si può fare politica chiedendo semplicemente alla gente di rinunciare a ciò che ha; e dunque si tratta invece di trasformare la situazione e affermare una centralità di questi valori di giustizia, di coesistenza e di solidarietà, come anche gli unici vantaggiosi davvero, in quanto sono gli unici che possono garantire a noi stessi e soprattutto ai nostri figli un futuro di pace, perché oggi la nuova dimensione in cui siamo costretti purtroppo ad agire è quella di un tempo di guerra prolungato. La percezione diffusa innanzitutto tra gli Americani, ma sempre più tra gli Europei, è che l’illusione che abbiamo vissuto nel mondo ricco di un lunghissimo periodo di pace e di crescita è un sogno che si è infranto. Quindi noi dobbiamo contemporaneamente fare tesoro della memoria delle tragedie vissute e in particolare in Europa e il fatto di esserne gli eredi e i testimoni. Quindi occorre la centralità di questa memoria e dei valori, immaginando una trasformazione della vita quotidiana che dia speranza e che alimenti l’ottimismo, il senso di comunità, dando una risposta ad un bisogno di compagnia contro la solitudine che contraddistingue sempre più la dimensione metropolitana. Ci siamo a lungo illusi di poter ignorare le guerre periferiche, cosiddette lontane, ma ormai è evidente a tutti che l’instabilità, la miseria e la guerra delle zone apparentemente “lontane” ha conseguenze dirette anche sulla nostra vita e minaccia i nostri sistemi. Quindi non esiste una guerra che si possa tenere “lontana” o un conflitto che si possa ignorare come se non ci riguardasse.

Le ultime guerre in medio oriente fanno intravedere diverse tipologie di dittatura capitalista. Quali ne sono le caratteristiche e le negatività più salienti?

L’America non è una dittatura, ma una grande democrazia e che tale resti e che senza la forza dell’America e senza un rapporto positivo che non si consideri indipendente dai problemi di un governo mondiale, andiamo tutti incontro al disastro. Immaginare il futuro semplicemente come una rottura con gli Stati Uniti significa immaginare guerra e povertà per tutti noi. Al contrario non abbiamo altra scelta che puntare sulla crescita delle società civili anche in quei paesi che non hanno avuto fino ad oggi un’esperienza democratica, ma che hanno dentro alle loro società delle forme di vitalità che facciamo fatica a riconoscere. Quindi a partire da Paesi con i quali abbiamo avuto un incontro, una contaminazione nata dall’esperienza ambigua del colonialismo, si può puntare sulla ricerca di interlocutori nelle donne, nei ceti intellettuali e puntare su questi protagonisti come nostri alleati, sia in una prospettiva di crescita economica senza cui non è pensabile nemmeno che si affermino dei modelli democratici, sia appunto una politica intransigente nella difesa dei diritti civili e nella lotta contro gli integralismi.

La Shoah ha precipitato l’umanità verso un abietto declino. Cosa occorre attualmente per esorcizzare ogni spettro di genocidio, stillicidio, di conflitto armato e di negazione di ogni tipologia di diversità all’interno del tessuto sociale? Esistono strategie politiche certe e determinate da parte dei partiti progressisti per far fronte a queste terribili evenienze?

Nella nostra capacità di restare sensibili al rischio del pericolo del ripetersi di genocidi e di guerre etniche conta in maniera decisiva la trasmissione di memoria e anche il senso di colpa che si è evidenziato in Europa all’indomani dello sterminio degli Ebrei che non è stato l’unico genocidio del 1900. Occorre ricordare come già quel senso di colpa nell’immediato dopoguerra abbia sollecitato i superstiti e le nuove classi dirigenti a correre ai ripari, attraverso lo strumento del diritto internazionale fondamentalmente, quindi costruendo all’interno del vecchio continente nuove istituzioni di coesistenza e di integrazione sia economica che politica, fino a questo modello del tutto inedito e prezioso dell’Unione Europea che oggi si è allargata anche a Est dopo la fine della guerra fredda, realizzando il primo esperimento riuscito di esportazione pacifica della democrazia e sia anche sul livello del governo globale. Non è un caso che dalla cultura europea dopo la seconda guerra mondiale sia nata la proposta che poi ha trovato le sue tesi fondamentali nell’appropriazione della carta dei Diritti Universali dell’Uomo e che lì si sia assegnato un ruolo di governance mondiale per quanto imperfetto e precario alle Nazioni Unite e al loro Consiglio di Sicurezza. Sono convinto che senza una dimensione di diritto internazionale di questa natura il mondo precipita di nuovo nello squilibrio, nel disordine mondiale e che questa instabilità deve essere risolta. Quando si parla di equilibrio multipolare e diciamo all’attuale governo degli Stati Uniti che non può pensare di affrontare unilateralmente un progetto di governo e supremazia del mondo, intendiamo proprio questo, che per quanto sgangherata sia l’Istituzione delle Nazioni Unite, per quanto sia percossa da scandali, per quanto pesino al suo interno le dittature, i regimi totalitari, non si può fare nessun passo senza le Nazioni Unite.

Quanto la Shoah è figlia del Cristianesimo?

Questo tema è stato affrontato coraggiosamente, con reticenza, ma anche con aperture coraggiose dalle stesse conferenze episcopali dei diversi paesi europei che hanno dovuto rintracciare un filo di continuità fra secoli e secoli di discriminazioni e disprezzo nei confronti degli Ebrei e di affermazione di dottrine antigiudaiche che nascevano dalla fatica a riconoscere il perché della persistenza di una presenza ebraica dopo l’avvento di Gesù. Tutto questo ha creato il terreno dell’ostilità e del pregiudizio su cui poi ha potuto innestarsi così efficacemente un’ideologia che indubbiamente è anticristiana e pagana come quella del nazionalsocialismo. L’idea della soluzione finale e la pratica dello sterminio sono indubbiamente anticristiane e pagane, ma si sono alimentate anche di queste culture secolari.

Laura Tussi

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