Il Ruolo dell'Intellettuale Contemporaneo
Considerando la necessità di portare comunque nell'ambito della politica idee dettate dal sapere, dalla cultura, da un pensiero positivo e costruttivo che finalmente prevalga sui ciarpami del mondo politico contemporaneo, vorrei rivolgerLe delle domande sul ruolo dell'intellettuale in questa congerie attuale, dove sembra smarrirsi il senso, non per forza ultimo, delle cose e della realtà: l'individuo è prigioniero della vacuità e della inanità delle sue azioni.
Argomenti di riflessione:
I concetti di libertà dell'uomo, della sua possibilità e l'importanza della domanda intorno al libero arbitrio potrebbero rievocare, in accezione moderna, "La ricerca di senso" e di significato della realtà da parte dell'individuo contemporaneo (Bruner). Quali sono i potenziali nessi tra questi argomenti?
Le occasioni per l'individuo contemporaneo di emancipazione, evoluzione, libertà da una condizione esistenziale o da un regime politico e di pensiero forte e radicato a livello di costume sono ricollegabili all'idea di salvezza sia in chiave escatologica che psicologica?
Partendo dal concetto di pensiero negativo (Schopenhauer), cosa significa "pensare" in un'epoca in cui la filosofia appare definitivamente specializzata in settori particolari?
I risvolti psicologici di tutti questi imprescindibili concetti possono costituire materia di approfondimento filosofico? Quanto filosofia e psicologia cooperano in vista della problematizzazione delle domande sostanziali e ultime che l'uomo si pone?
Come l'intellettuale militante contemporaneo, alla luce di queste considerazioni, deve porsi nell'agire politico?
di LAURA TUSSI
Amos Luzzatto risponde complessivamente alle domande:
Comincerei dall’ultima domanda la quale mi offre la possibilità di distinguere fra due categorie di intellettuali:
alla prima appartengono coloro che si dedicano allo studio e al ragionamento ma senza compromettersi con la società reale e con le forze che la governano. Una parte di loro lo fa per un banale opportunismo, ma molti altri perché pare loro che qualsiasi cosa che possa chiamarsi un ideale puro corra il rischio di venire corrotto dalla materialità e dagli interessi spietati delle contese di tutti i giorni.
Ad esempio, si può tranquillamente parlare del pane, decantare il pane, persino suggerire la preparazione di un pane più profumato e croccante senza andare mai al mulino e sporcarsi con la farina.
Alla seconda categoria di intellettuali appartengono coloro che intendono correggere le storture della società reale. Questi possono essere definiti con l’aggettivo di impegnati, non ancora con quello di militanti. I militanti sono coloro i quali scelgono di appartenere a un preciso gruppo che intende agire per diffondere l’adesione a un modello di società desiderabile oltre a promuovere le azioni che dovrebbero conseguire questo obiettivo.
Il vantaggio dell’azione in gruppo consiste nella possibilità di diventare un nucleo di aggregazione, una forza effettiva nella società.
Di contro presenta lo svantaggio di costringere il singolo individuo a compromessi ideali, visto che una totale ed estesa condivisione di analisi, critiche e proposte è una chimera, tanto meno realizzabile quanto più consistente (e pertanto più forte) è il gruppo stesso.
Che cosa dovrebbe fare, dunque, l’intellettuale che è stretto fra i due corni di questo dilemma?
Temo che, così posta, la domanda resti senza una risposta utile.
E’ molto meglio cercare di rispondere a un’altra domanda: “Che cosa fa, che scelta opera di fatto, l’intellettuale di oggi, in questa società, con le forze che concretamente in essa operano?
Le forze che operano nelle nostre società sono di tre categorie principali: forze economiche e finanziarie, forze religiose, forze di contestazione.
L’elenco segue un ordine che vorrebbe rappresentare un gradiente di forze.
Le forze economiche e finanziarie che regolano i nostri bisogni di sopravvivenza possono essere divise in due categorie:
quelle che creano beni materiali o nuove forme organizzativa dalle quali deriva un benessere diffuso e dalle quali può derivare anche un utile a coloro che ne’assumono la progettazione e la gestione;
le altre sono quelle che tendono a promuovere in primo luogo se stesse.
Naturalmente vi sono molte gradazioni intermedie.
Queste forze vanno assumendo i caratteri di una vera cultura che pervade i nostri sentimenti, le aspirazioni che noi crediamo nostre, in quanto sarebbero originali e spontanee ma che in realtà ci vengono indotte tanto da condizionare spesso persino i nostri sogni. A fronte di queste parlare di “libero” arbitrio, di salvezza e di emancipazione richiede un ammirevole atto di coraggio.
Da questo punto di vista le religioni che generalmente sono considerate sistemi non contradditori di fede trascendentale, si comportano come vere e proprie strutture sociali, capaci di esercitare un indiscutibile potere che, in quanto tale, può entrare in concorrenza o alternativamente in collaborazione con quelle economiche che abbiamo sopra descritto.
Gli stessi linguaggi che adoperano le forze economiche e quelle religiose possono avere elementi comuni quando scivolano dal riferimento ai problemi concreti, a concetti astratti, a “valori”, alla trascendenza. Ed allora, che si parli di libertà o che si parli di salvezza può comportare il medesimo effetto che è quello di evocare un senso di rispetto timoroso per qualcosa che sfugge ai nostri sensi, ma che proprio per questo promette molto, tanto più in quanto si colloca nella sfera di ciò che non si può verificare. Ne possono derivare clamorose contraddizioni che pervadono il mondo perlomeno degli ultimi due secoli.
Così ad esempio la deportazione di schiavi dalla pelle nera si concilia con la ricchezza del paese più libero al mondo. E così un ambizioso generale, responsabile della morte di intere generazioni giovani, può diventare un simbolo di gloria nazionale e di progresso: Napoleone.
“Occasioni di emancipazioni, libero arbitrio, libertà da un regime politico o di pensiero” sembrano caratterizzare sufficientemente le forze di contestazione. Esse non sono certamente solo formule vacue, ma obiettivi che, pur essendo sacrosanti, non possono essere però raggiunti usando i soli strumenti della conoscenza, della loro enunciazione, se disgiunti dalla capacità critica. E’ proprio questo il caso di Adamo ed Eva, i quali avevano imparato, grazie alla mela (e anche grazie al serpente!), che il bene e il male esistono. Ma poi, in assenza della capacità critica, ponevano il bene in una foglia di fico.
Che cosa possiamo conoscere? Che cosa dobbiamo fare? In che cosa possiamo sperare?
Queste tre domande kantiane restano ancor oggi di estrema attualità. Certo, possiamo cercare di conoscere quali siano le forme di potere nella società, spogliandole dei loro rivestimenti retorici.
Dobbiamo cercare di migliorare le condizioni umane, a cominciare da coloro che stanno peggio.
Infine, forse possiamo ancora sperare di arrestare la distruzione dell’ambiente, nel quale viviamo, quella distruzione che può tornare utile soltanto a pochi privilegiati, di arrestarla prima di assistere impotenti al declino irreversibile della nostra specie e, con esso,alla perdita del significato di tanti simboli che al giorno d’oggi parrebbero essere le sole cose che hanno senso.
Amos Luzzatto
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