La ragione delle ragioni contro ogni guerra
LA RAGIONE DELLE RAGIONI CONTRO OGNI GUERRA
TANTO PIÙ QUELLA “PREVENTIVA”
ENRICO PEYRETTI
(Questa è la quarta versione, ulteriormente rivista e aggiornata il 27 gennaio 2003, di uno scritto apparso inizialmente sul mensile torinese il foglio n. 288, gennaio 2002, www.ilfoglio.org; poi incluso con qualche modifica in Bisogna difendere la società, di Autori Vari, ed. Beppe Grande, Torino 2002, pp. 43-48; quindi molto ampliato e rinnovato per la lezione, inedita, tenuta a Roma il 18-04-02, Università La Sapienza. Dipartimento Filosofia e Lingue,)
1 - La ragione delle ragioni contro ogni guerra è che non è assolutamente ammissibile, né moralmente né politicamente, uccidere persone umane.
Se vogliamo non essere uccisi, noi e i nostri cari, i nostri concittadini, dobbiamo non uccidere nessuno.
Una legge vale soltanto se vale per tutti. Dunque, il "non uccidere" non è soltanto un precetto religioso, è il fondamento di tutta la convivenza politica, che oggi è planetaria, non più regionale, locale.
Qualcuno dice: il tuo è fondamentalismo pacifista. Accetto, ma non nel senso totalitario e violento che ha oggi il termine fondamentalismo. Accetto nel senso che il "fondamento", la “radice” della convivenza tra esseri umani, cioè della pace, è il rifiuto di risolvere una controversia con l'uccidere l’avversario.
"Non uccidere" è il fondamento di tutto, in tutte le culture e le spiritualità umane, almeno nei confronti dei soggetti membri della propria società, ma quasi sempre con una proiezione universale. E' il tabù negativo, necessario ad aprire la via delle soluzioni positive. Non si pensa e non si cerca la soluzione vitale dei conflitti, fino a quando non ci si proibisce assolutamente la soluzione mortale.
2 - Ma, si è sempre detto - persino ripetutamente nella bibbia ebraica - che chi uccide perde il diritto alla vita.
Eppure, nella stessa bibbia ebraica, Dio protegge la vita di Caino (Genesi 4,15). Dio ama il peccatore e non vuole la sua morte ma che si converta e viva (Ezechiele 33,11). Per non dire dell’evoluzione della legge ebraica nel Vangelo di Gesù.
Non soltanto sono necessarie prove pubbliche assolutamente inoppugnabili per ritenere colpevole di omicidio colui che condanniamo a morte (col potere giudiziario, o con la guerra, che però sempre sicuramente uccide in massima parte innocenti: la guerra è l’antitesi del diritto, ha scritto ripetutamente Bobbio), ma soprattutto l'evoluzione morale umana esige che si riconosca che una persona umana non si riduce mai ai suoi atti, è sempre superiore alle proprie azioni, anche le più colpevoli, perciò non va mai soppressa.
3 - Certamente può essere anche ucciso (se davvero, ma proprio davvero, non c'è nessun altro mezzo per fermarlo) chi sta in quel momento per uccidere altri. Colui che sta per essere ucciso può anche rinunciare ad uccidere per la propria difesa, se sente, come chi è arrivato alla più grande nonviolenza, maggiore ripugnanza ad uccidere che a morire (lo dice Simone Weil, La prima radice, ed. Leonardo 1996, pp.142-143), perché sa che si nega e si deforma la propria umanità non nel morire ma nell'uccidere. Ma senza dubbio bisogna difendere altri, anche al costo estremo di uccidere l'omicida potenziale nel momento immediato in cui sta per uccidere. In quel momento, e non dopo, quando non è più in grado di offendere, altrimenti è vendetta, non è difesa. E la vendetta non toglie alcun male, ma soltanto e sempre aggiunge male a male.
4 - Se si dà veramente il caso di dover addirittura uccidere chi è nell’atto di uccidere altri, questo lo può giudicare solamente la persona che si trova a potere e dovere agire in quella sciagurata circostanza. Nessun altro può decidere sostituendosi alla coscienza personale in un caso talmente grave. Nessuno può ordinare ad altri di uccidere. Questo chiaro principio distrugge la possibilità morale, cioè la compatibilità con la decenza umana, di qualunque esercito. Infatti, un esercito riduce gli esseri umani a strumenti per uccidere. Il gen. Carlo Jean, allora presidente del Centro Alti Studi della Difesa, parlando a studenti delle scuole superiori, a Torino, il 29 marzo 1996 (ero presente e prendevo appunti) disse letteralmente: «Nell’esercito è necessaria la disciplina (…) perché combattere significa uccidere. Occorre l’esecuzione automatica dell’ordine». Ora, dove c’è esecuzione automatica, non c’è più un uomo, ma un automatismo, un automa, un uomo svuotato della prima qualità umana, la responsabilità. Dove c’è esercito, cessa l’umanità. Può darsi che sia sciaguratamente necessario uccidere chi sta per uccidere, ma questo non può comandarlo nessuno. L’esercito è l’apparato che comanda di uccidere, persino sotto pena di morte per chi non obbedisce. L’esercito è moralmente impossibile. E’ l’antitesi della morale fondamentale.
5 - A questo proposito, si può fare il caso della lotta armata nella Resistenza al nazifascismo, e di ogni simile lotta. Quello era, se vogliamo, un “esercito” veramente di volontari, non di leva, non di professionisti, non una struttura militare autoritaria stabile. Meglio, la Resistenza fu un movimento soprattutto politico (sia armato sia non armato; e ben più ampio e lungo del periodo 1943-45), e non militare: l’uso delle armi era puramente strumentale e non fondativo, come invece è nei movimenti militari o militaristici (cfr Lidia Menapace, Alcuni ricordi e riflessioni, in Centro Studi Difesa Civile, La Resistenza non armata, Sinnos editrice, Roma 1995, p. 103; Enrico Peyretti, Studi sulla Resistenza non armata, in Rocca, 1 agosto 1995). Tuttavia, proprio l’esperienza della Resistenza dimostra che, quando si usano le armi, o perché non si vede alternativa (allora era quasi nulla la cultura della nonviolenza attiva), o non la si crede possibile, quell’uso può facilmente indurre ad una progressiva insensibilità per la vita umana. Pur giusta nei suoi fini e giustificabile nei suoi mezzi, la lotta di Resistenza diede luogo anche ad alcuni episodi non giustificabili (uccisioni gratuite, vendette), ad uno dei quali io assistetti da bambino, come ho raccontato e scritto più volte. Ciò dimostra non l’ingiustizia della Resistenza, ma l’abbassamento morale facilmente indotto dalla pratica dell’arma che uccide.
6 - Si può forse uccidere in anticipo chi si teme o si sospetta che cercherà di uccidere altri? E’ il caso di chi fa guerra, cioè vuole uccidere, il potenziale terrorista; è il caso degli omicidi politici di Israele contro i sospetti di terrorismo. Nessuna legge civile lo permette. Attribuirsi un tale potere sovrastante distrugge ogni convivenza, permette ogni abuso, mette tutti in pericolo. Se lo permettono la "ragion di stato", la "licenza di uccidere" dei vari servizi segreti, il potere militare, ma basta avere un po' di ragione e di pietà umana per vederne l'orrore e la forza distruttiva di ogni rapporto sociale umano. Questa licenza scatena la gara a chi uccide per primo. Ogni tentativo compiuto dal diritto per addolcire la durezza dei rapporti va perduto. Ogni sicurezza è diminuita, lungi dall’essere assicurata.
7 - Ma se si sa con certezza che uno sta preparando l'uccisione di altri? Minacciare violenza è già violenza. Preparare effettivamente violenza è già violenza. Allora il potere pubblico deve arrestare chi fa questo, esibendo subito le prove in un processo legale, con tutte le garanzie, ma assolutamente non può ucciderlo, pena, oltre l’ingiustizia, quel degrado sociale che abbiamo appena visto.
8 - Ma dove, come nella società internazionale di oggi, non c'è alcun potere pubblico autorizzato e riconosciuto, e dove, contro i patti sottoscritti – la Carta dell’Onu che è il nuovo diritto internazionale di pace, diritto vigente e violato sistematicamente - regna ancora di fatto l'anarchia e la legge della forza, può forse, in questo caso, chi ne ha la forza e i mezzi punire preventivamente, fermare anche con la morte, chi è accertato che sta preparando omicidi? Il caso è serio, senza dubbio. E’ il caso accampato da chi ha deciso la guerra all’Afganistan, seguita all’11 settembre 2001, e vuole ad ogni costo la guerra all’Iraq, che, al momento di chiudere queste note, è costantemente minacciata e preparata dagli Usa, contro la volontà maggioritaria dei popoli del mondo. La risposta al quesito non è facile.
Direi almeno questo: come un cittadino qualunque, senza essere pubblico ufficiale, può arrestare un ladro colto in flagrante, non certo per ucciderlo o farlo linciare, ma solo per consegnarlo alla giustizia per un regolare processo, così ha una legittima competenza ad agire sul piano internazionale, stante quella situazione di anarchia, chi opera per fare evolvere questa situazione selvaggia nella direzione di una organizzazione più civile e legale della convivenza tra i popoli, e non mantiene soltanto, a vantaggio della propria maggiore forza, tale situazione di assenza di legge. Se gli Stati Uniti, che sono il 5% (cinque per cento!) dell’intera umanità, lavorassero per l'autorità dell'Onu, per il tribunale penale internazionale, per la giustizia economica planetaria, per la salvaguardia dell'ambiente naturale di tutta l'umanità (che essi inquinano più di tutti), allora la loro azione di necessità contro i crimini internazionali sarebbe credibile e scusabile. Ma davvero non è questa la loro linea. La regola superiore della loro azione è il loro interesse particolare, economico, energetico, culturale, strategico, geopolitico. Non sono degni, neppure nell'emergenza provvisoria, di governare e giudicare il mondo. Indegni come sono, governano e giudicano il mondo.
9 - Ma anche quella chiara legittima difesa, che dicevamo, mediante l'omicidio di chi è sul punto di uccidere, va circondata di una gran quantità di limiti.
- 9/1 - Anzitutto, non c'è un "dovere" di uccidere, neppure in quel caso. Gandhi l'aveva così definito, ma Jean-Marie Muller (nel libro filosofico Le principe de non-violence, Un parcours philosophique, Desclée de Brouwer, Paris, 1995, pp. 62 e 71) corregge Gandhi: il dovere è sempre di non uccidere, quella circostanza tragica è una necessità, e dove c'è necessità non c'è atto morale, dunque non c'è né dovere né diritto. Il dovere è difendere chi è minacciato; la necessità - ove occorra davvero quel caso estremo - è uccidere. Questo uccidere è ancora un male, che non viene punito per la forte attenuante che è il diritto alla vita dell’aggredito. Uccidere, dunque, non è mai dovere e tanto meno diritto. Gli eserciti, invece, se ne fanno tradizionalmente, e spesso fino ai nostri giorni, dovere e diritto e vanto, merito e gloria, come se fosse un bene.
- 9/2 - In secondo luogo, la legittima difesa omicida deve essere vissuta come un fallimento triste e vergognoso delle relazioni umane, senza alcuna soddisfazione e gloria. E colui la cui vita è stata salvata mediante la morte di un altro, pur colpevole di minaccia mortale in atto, deve sentirsi in debito verso colui che è stato ucciso, di cui nessuno può giudicare le intime responsabilità, sconvolgimenti, annebbiamenti, malvagità.
Il male del mondo non è separabile col coltello, in modo da farcene davvero puri e innocenti, e attribuirlo tutto agli altri, fossero anche i più chiaramente colpevoli. Se qualcuno fa del male, anch'io, per le vie misteriose della compartecipazione e interdipendenza umana, ne sono in parte responsabile. Siamo tutti in parte responsabili, che lo vogliamo ammettere o no. E meno lo riconosciamo, più siamo responsabili.
10 – Abbiamo detto qualcosa sull’uccidere di necessità, di vera forzata necessità. L’esperienza e il dibattito attuale richiedono un cenno all’uccidere per pietà, o addirittura per amore, la cosiddetta eutanasia, legalizzata in qualche paese (anche se questo fenomeno è lontano dalla guerra, ma può essere indirettamente influenzato e influenzare a sua volta la pratica e l’abitudine alla guerra endemica e all’armamento privato). In questo caso, che cosa si toglie al malato inguaribile ed estremamente sofferente? Non una vita accusata di nuocere, ma un’esistenza estremamente penosa. Penosa per chi? bisogna chiedersi. Per il malato o per chi è coinvolto in vari modi nella sua malattia? Un’esistenza insopportabile per lui o per noi? Credo che questo sia un nodo cruciale di questo problema angoscioso. Il quale riguarda questo nostro discorso sulla guerra in quanto possa relativizzare il rispetto assoluto della vita umana, che in vari modi ma massimamente nella guerra è ridotto ad oggetto distruggibile.
11 - Basta tutto questo per rendere gli apparati di morte che le società umane organizzate, anche le più "civili", non sanno ancora superare (tribunali, prigioni, capestri, polizie, armi, torture, eserciti, guerre) aspetti tristi e "osceni" (cioè, da mettere "fuori scena", da velare, da nascondere, come l'uso del cesso in una casa), non assolutamente da esibire, da celebrare e di cui vantarsi. E invece vedi che gli stati si identificano ancora gloriosamente negli eserciti e nelle armi: parate militari nelle feste nazionali, retoriche patriottarde (anche in risposta al terrorismo visto come atto di lesa maestà, non di lesa umanità) e via tristemente dicendo. Follie primitive delle nostre "civiltà" ancora pre-umane. Molta pena e tristezza e vergogna per tanta ostentata mancanza di pudore e di sensibilità.
Alcune di queste cose saranno ancora per lungo tempo necessarie per convivere alla meno peggio. Lo riconosce anche Gandhi (Teoria e pratica della nonviolenza, Einaudi 1996, pp. 142-144) per la polizia armata, i tribunali e le prigioni, ma poi dice che la polizia deve essere educata alla nonviolenza (c'è una proposta di legge in questo senso, in Italia, presentata dopo le violenze poliziesche del luglio 2001 a Genova, firmata da molti parlamentari).
12 - Ma la guerra è la peggiore di tutte queste tristezze e vergogne, ed è la più prossima a poter essere eliminata. Non è facile, ma è possibile. Il '900 è stato il secolo più sanguinoso, ma anche il secolo che più di tutti gli altri ha prodotto dei passi verso la liberazione dalla guerra, nella cultura, nella morale, nella legge internazionale (Onu), nelle esperienze delle molte lotte nonviolente efficaci (ho raccolto in una bibliografia circa cento libri e articoli su casi storici di difesa senza guerra, casi reali, avvenuti, non sperati nel futuro).
Non è impossibile la liberazione storica dalla violenza ufficialmente organizzata. Resteranno casi di violenza privata, da prevenire e rintuzzare, senza accrescere la violenza. Ma almeno non si mantengano istituzioni sociali violente. Non è impossibile questa liberazione. La natura umana non è fatalmente violenta. Dipende molto dalla cultura in cui ciascuno vive, dai valori privilegiati in una data società. L'antropologia culturale dimostra che esistono società nonviolente, su scala minore. Sta a noi realizzare questa civiltà su ogni scala. Il modello sociale vigente è molto violento, ma non è l'unico possibile. L'apporto delle donne può migliorarlo molto. Tutto ciò è difficile, ma necessario. Primo: non rassegnarsi.
13 - In conclusione, mi pare chiaro che o la politica si emancipa progressivamente dalla guerra - dalla "propria" guerra, prima che da quella altrui - oppure perde tempo e prepara altre tragedie colpevoli. La guerra (anche questa mondiale in corso contro il terrorismo, anche quella tra Israele e Palestina) è il risultato di tempo perso, di errori compiuti, di imprevidenza. Gorbaciov ha scritto, su La Stampa, 3 novembre 2001, Il decennio perduto: dopo la fine della guerra fredda si poteva "istituire" la pace e invece si è "re-istituita" la guerra, producendo il “decennio orribile” degli anni ’90, che prosegue e peggiora nel nuovo secolo.
La colpa non è soltanto degli "stati canaglia" come si dice comodamente, ma anche dei potenti che non intendono sottomettersi ad una legge universale: vedi il rifiuto da parte degli Usa del tribunale internazionale, dei protocolli di Kyoto, del primato dell'Onu, ecc.; vedi il rifiuto delle grandi corporations transnazionali di sottrarre alimenti e medicinali al criterio unico e assoluto del mercato, contro i primari bisogni e diritti umani. I più forti e potenti danno il cattivo esempio ai più incivili e violenti, e li usano senza scrupoli fin quando fa loro comodo, poi li accusano di tutto e li caricano di bombe.
La causa è in una cultura falsamente politica, da rifare dalle fondamenta: la politica è pace (ha raccolto in un libro con questo titolo, ed. Cittadella 1998, dei miei semplici scritti su questo tema), oppure non è politica; è arte della convivenza nella “polis” locale e in quella universale, oppure non è politica; è la scienza della soluzione costruttiva e non distruttiva dei naturali conflitti tra gruppi umani, oppure non è politica. Non è politica quella che include tra i suoi mezzi la morte data, come non è medicina quella che fa ammalare e soffrire inutilmente, anche se si chiamasse medico chi la esercita, come non è alimento quello che avvelena, anche se fosse venduto come alimento.
Ahimé, il mondo è in cattive mani, non è soltanto minacciato dai "cattivi" di turno.
Con tutto il giusto realismo, con tutto il senso della difficoltà e della necessità di decidere nei casi controversi, con tutti i sani dubbi critici su ciò che a ciascuno di noi sembra più plausibile e giusto, dobbiamo restare critici dell'esistente e costruttivi e creativi, e perciò anche - ne sono convinto - molto diffidenti delle ragioni portate dai più potenti. Ragioni che hanno molti modi forti per farsi sentire e così sopraffanno le ragioni contrarie. La potenza ottunde l'intelligenza e riduce l'onestà, perché il potere più è forte, più teme per sé, più piega le ragioni nel senso del proprio mantenimento, a tutti i costi, anche a spese altrui.
Nella storia, la forza e lo stato più potente sono sempre stati quelli che hanno fatto più male e inflitto più dolori ai poveri e ai piccoli. I benefici elargiti dai potenti sono stati solo dei "sottoprodotti" dei loro scopi. Così è anche oggi. Non è il potere sugli altri che promuove l'umanità, ma il potere di ognuno su di sé, sulle proprie tendenze deteriori. Questi "giusti" ci sono, nascosti, e sono loro che tengono ancora in piedi il mondo, nonostante i potenti.
In ogni conflitto, anche il più acuto, c’è un interesse comune alle parti (se non sono ridotte e sospinte nella disperazione più distruttiva): vivere. L’inviolabilità di ogni vita è il terreno di alleanza su cui basare accordi nei quali ciascuno rinuncia a qualcosa per guadagnare qualcosa, che è almeno il vivere. Affinché l’avversario ami la sua vita e così anche la nostra, bisogna collaborare perché egli possa avere una vita degna. L’equità è la vera vittoria di tutti.
Merita sviluppare (come ho tentato in altra sede) questo pensiero: il “non uccidere” non è soltanto un dovere, è anche un diritto, proprio come il non essere uccisi. Sembra una negazione, ed è un’affermazione.
Il fondamento del pacifismo è il non uccidere. Ma il pacifismo non basta. Il fondamento di un valido pacifismo è la cultura nonviolenta, per due ragioni: perché questa va alle radici della guerra, che sono la violenza strutturale e quella culturale; e perché la nonviolenza positiva e attiva inventa e costruisce le alternative alla guerra. Infatti, non ha senso sufficiente condannare la guerra senza costruire le alternative. Ha senso, ma non sufficiente. Ha senso perché il no al male è già di pieno diritto, ed è la premessa al sì dell’azione giusta. Anche se non fossi capace di dire alcun sì, dovrei dire il no teorico e pratico alla violenza.
ENRICO PEYRETTI
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