Il testimone silenzioso di Ramazan
Quando la conoscenza della verità si è dovuta affidare al coraggio e alla determinazione di singoli fotografi e giornalisti.
Grazie a tutti gli Öztürk e Hjerten che nei teatri di guerra sparsi per il mondo continuano a documentare la ferocia dei conflitti.
Halabja dista soltanto una manciata di km. dal confine, segnato dalla catena dei monti Shinerwe, brulli e desolati, le cui cime, all’inizio della primavera, ancora scintillano per la neve che tarda a sciogliersi. Un tempo Principato autonomo degli Hawramani, nel 1988 Halabja era un importante centro agricolo schierato a fianco di Jalal Talabani nella sua lotta per l’autonomia del Kurdistan. Gli uomini erano saliti in montagna, arruolati nei peshmerga, i partigiani della libertà. Molti erano poco più che ragazzi. Lasciavano a casa genitori e fratelli. Nessuno poteva immaginare che la vendetta dei generali iracheni avrebbe colpito persone indifese.
Aras Abid Akram e Hikmat Faiq Arif fanno parte dell’Halabja Chemical Victims Society. Quando scesero dalle montagne, Aras non trovò più nessuno dei suoi venticinque familiari. Hikmat ne perse dodici. Ogni volta che vengo a Halabja, mi portano sul luogo della memoria. Non parlano. Non è necessario. La loro è una ferita che non si rimargina. Era il primo pomeriggio di un mercoledì come tanti, quando arrivarono gli aerei. Bombardarono per primo il centro cittadino, dove si trovavano gli edifici scolastici. La gran parte dei bambini erano ancora a scuola. La prima reazione della popolazione fu di stupore. Nessuno comprendeva cosa stava accadendo, cosa contenevano le bombe che arrivavano dal cielo. Poi fu la tragedia. Molti morirono immediatamente. Per altri la morte arrivò lentamente. Ma non in modo uguale per tutti. La composizione di gas nervini, sarin, tabun, VX, cianuro, ebbe effetti diversi da persona a persona. Chi morì bruciato, chi perse subito la vista, continuando a vagare per le strade, prima di cadere al suolo.
“Erano le 11 del 18 marzo 1988, quando gli elicotteri atterrarono. Erano trascorse poco più di quaranta ore”. Parlo con Ramazan Öztürk, in attesa della premiazione dei giornalisti che contribuirono a far conoscere al mondo cosa era successo a Halabja. L’autore dello scatto fotografico divenuto il simbolo della strage, sarà uno dei protagonisti della cerimonia. In testa il cappello blu della Lacoste, un filo di barba bianca a disegnare il volto, gli occhi magnetici, sormontati da folte sopracciglia nere, che comunicano tutta la vivacità che lo caratterizza. “Ricordo il cielo. A distanza di tante ore, era ancora innaturalmente plumbeo. Nell’aria si percepiva, nettamente, il sapore dolciastro di mele che caratterizza i gas nervini. Noi giornalisti ci muovevamo tutti insieme. Il tempo a disposizione era poco, molto poco. Colpiva il silenzio d’attorno. E i corpi immobili, fermati nel tentativo di sfuggire alla morte. Non siamo abituati a vedere i morti in quelle posizioni. Restammo lì quattro ore. Mentre venivamo via, sulla zona fu lanciata una bomba, e poi un’altra ancora, dagli aerei iracheni. Gli elicotteri ci portarono nei villaggi vicini, a Inap, a Duceyde. Ancora due - tre ore. Per fermare la memoria di quell’orrore”. Le foto scattate in quei momenti frenetici sono ora esposte nel Mausoleo. Tra esse, quella di un padre che inutilmente cerca di coprire con il suo corpo quello della figlia in braccio. “Testimone silenzioso” è la foto premiata da Time e Newsweek come “The best photo” dell’anno. Inserita da Life e Stern tra quelle che ricorderanno gli anni Ottanta, ha continuato a ricevere premi e ad entrare in ogni raccolta fotografica che riunisce gli avvenimenti che hanno segnato la seconda metà del secolo scorso.
E’ con Jon Rud, avvocato norvegese che vive in Spagna, già presidente di Amnesty International nel suo Paese. Nel marzo dell’anno scorso, Hjerten era impossibilitato a muoversi per motivi di salute, e doveva testimoniare a Baghdad al processo ad Ali Hassan al-Majid. Conosciuto come Ali il Chimico, il numero cinque, il re di picche del mazzo di cinquantadue carte a cui ha dato la caccia l’Amministrazione Americana dal 2003. E’ stato l’amico Rud a rappresentarlo al processo, che si è concluso con il riconoscimento della strage di Halabja come genocidio. Un crimine contro l’umanità. Anche loro sono qui per ritirare la targa per il contributo a far conoscere la verità.
In questi giorni di permanenza a Halabja, Wria Kawani non lascia un momento Ramazan, Stefan e Jon. Wria vive da anni ad Oslo. Una trentina di anni, la barba perfettamente curata a sottolineare i lineamenti scanzonati, un’eleganza innata, la battuta sempre pronta, è un accompagnatore prezioso, in grado di risolvere ogni problema.
Il nostro desiderio è conoscere, a distanza di tanti anni, le conseguenze sociali meno evidenti della strage.
Dildar Kittani è una donna passionale e volitiva, con un bel sorriso. L’impegno politico l’ha portata ad avere un forte radicamento territoriale. Ci accompagna a casa di Khelan Hama Ali Rosheed. Quel 16 marzo Khelan aveva sette anni. Era in auto con i genitori, fratelli e sorelle, quando arrivarono le bombe. Era la più piccola, si salvò sotto il corpo della sorella. Come tanti dei sopravvissuti feriti, fu portata all’ospedale di Teheran. Lì, per giorni e settimane, come in un moderno girone dantesco, affluirono tutti coloro che non avevano più alcuna notizia dei propri familiari. Inseguendo le voci portate dai passa-parola che segnalavano un possibile riconoscimento, una somiglianza, una speranza. Nel caso di Khelan fu la nonna, Habsa Hama Faraj, ad arrivare all’ospedale. A vagare, alla ricerca di un indizio che le facesse ritrovare qualche familiare vivo. Finché l’altoparlante comunicò che si cercavano i parenti di una bambina di sette anni.
Questa di Khelan e di Hasba è una storia uguale a quella di tanti dei sopravvissuti. Dopo i mesi di degenza ospedaliera, sono rimaste per lungo tempo in Iran, consapevoli che a Halabja non li attendeva più nessuno. Un periodo che in molti casi si è protratto per anni, quando non dura ancora. Quando le due donne tornano a Halabja, la loro vita è cambiata, trovano difficoltà a reinserirsi nella loro stessa comunità. Sono in tanti in questa situazione, qui li chiamano gli Anfalizzati.
Le chiediamo cosa vorrebbe fare, quali sono i suoi desideri. “Vorrei fare un corso per imparare il computer. Così potrei trovare lavoro in un ufficio”. Dildar cerca di tirare fuori a Khelan i sogni che ogni ragazza ha dentro di sé. Ma è un tentativo quanto mai difficile, perché non è facile avere sogni quando sei passata attraverso quella esperienza.
Poi Khelan ci mostra una bambola che prende dal mobile alle sue spalle. Una vecchia bambola, con un vestito bianco con un cappuccio. Le ha tenuto compagnia nei mesi del ricovero in Iran, è tutto quello che le resta degli anni dell’infanzia. Quasi una “coperta di Linus” sotto la quale nascondere la paure di un futuro incerto.
Con il sindaco di Halabja Khder Kareem, con Ali e la delegazione dei sindaci iraniani qui presente, saliamo sulle colline che fanno da corona alla valle dove è adagiata la città. Il paesaggio è profondamente cambiato da quando venimmo qui la prima volta, quattro anni fa. Allora, ovunque avevamo l’immagine di una terra violentata dalla lunga guerra, desolatamente monocromatica. Il marrone delle dure zolle non più lavorate, aveva preso il posto del verde delle piante bruciate dalle conseguenze del conflitto, degli alberi tagliati per sopravvivere agli inverni senza riscaldamento. L’uso dei gas nervini aveva interrotto i quotidiani lavori millenari legati al ciclo della terra e all’allevamento del bestiame.
Oggi non è più così. Il verde ha ripreso prepotentemente il suo posto tra i colori della campagna curda. Diffuse macchie di rosa a punteggiare gli alberi di nocciolo in fiore. Halabja è tornata ad essere la valle verdeggiante di cui scrivevano i viaggiatori europei all’inizio del secolo scorso, nei resoconti dei loro incontri con la principessa Adela di Ardalan, qui ancora ricordata per la magnanimità e la lungimiranza della sua guida politica.
Il sindaco, orgogliosamente, ci indica la città sottostante. Si vedono nettamente le principali direttrici di marcia che tagliano geometricamente Halabja. Le nuove costruzioni che cancellano il ricordo delle distruzioni. A cominciare dal complesso ospedaliero a cui lavorano i giapponesi: tre diversi ospedali che stanno sorgendo insieme alle strade e alla rete dei servizi necessari. Tra questi, sta per essere inaugurato il primo hotel che permetterà ai visitatori di non dover quotidianamente tornare a dormire a Sulaimaniya. La facciata, a grandi linee bianche e arancioni, si staglia ben visibile, sulla sinistra, per chiunque arriva in città. Khder ci indica dove sorgerà la nuova zona di verde pubblico e il parco cittadino, la cui realizzazione sarà uno dei fiori all’occhiello di questa Amministrazione.
Parla con Khder Kareem e con Ramazan Öztürk. Il risultato sarà di portare nei prossimi mesi a Mazzarino la stessa mostra fotografica che si trova nel Mausoleo della città martire curda. Sarà la prima volta che questa mostra arriva in Europa. E si appresta a diventare davvero un ponte lanciato tra le comunità di due Paesi soltanto geograficamente lontani, ma in realtà uniti da valori e progetti forti. Poi la mostra viaggerà in Italia. Arriverà con ogni probabilità a Palazzo Vecchio a Firenze, seguirà la filiera dei tanti Comuni aderenti a Mayors for Peace. Le foto di Ramazan continueranno a trasmettere il loro messaggio di denuncia di tutte le guerre, perché, come dice il loro autore “Dopo Halabja ho capito che tutta l’umanità rischia di morire, se non sapremo fermare l’uso delle armi di distruzione di massa”.
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