Le donne raccontano le storie
Arriva il momento, per la nostra delegazione, di visitare l’ospedale italiano di Sulaimaniya. Ci viene in aiuto Omer Ali Habib manager del MamuZen Hotel. Sempre disponibile, come la volta che in poche ore mi procurò una dettagliata pianta della città, alla richiesta dell’indirizzo da mostrare al tassista, comincia a scrivere e riempie un foglio di appunti per tracciare il percorso. Qui gran parte delle vie non hanno nome e mancano i numeri civici. E’ probabile che i tassisti non conoscano il nuovo ospedale.
Siamo ora nel quartiere di Qirga, nella zona est di Sulaimaniya. Dall’arteria a scorrimento veloce voltiamo a destra e il panorama cambia improvvisamente. La strada in discesa s’infila in viottoli dissestati, sulla sinistra in lontananza si stagliano le nere montagne che segnano il confine con l’Iran.
Quest’anno anche in Kurdistan l’inverno tarda ad andarsene. Il vento alza nubi improvvise di polvere alternandosi a gocce di pioggia. Il tassista ci fa cenno che stiamo arrivando.
In fondo a una strada che si perde tra rade casupole, un basso muro di cinta e un cancello oltre al quale c’è il Sulaymani Radiation Oncology Center. Una costruzione a un piano, la bianca facciata ingentilita da figure geometriche grigie e di colore granato.
Con Kamaran, incontriamo gli altri radioterapisti oncologici Sarmad Abdulla Piran, Abid Ali Mahdi, Karzan Marif Murad, Mohammad Ali Mohammad, Lana Hoshyar Babahaji, Nyan Othman Ali, Jalil Salih Ali, il tecnico Herish Jalal, la biologa Heshoo Ali Hussen. Imparano nuove tecniche lavorando fianco a fianco dell’equipe fiorentina. Dai primi di gennaio, esperti in professioni sanitarie si alternano per garantire formazione e consolidamento dell’aggiornamento tecnologico, necessario a far funzionare gli strumenti acquistati sul modello di cura d’avanguardia importato dalla Toscana. Il team è diretto da Giampaolo Biti Professore di Radioterapia dell’Università di Firenze sostituito in questa fase dal dottor Lorenzo Livi. Ne fanno parte Fabrizio Banci Buonamici primario di Fisica Nucleare a Siena, Filippo Bucciarelli tecnico di radiologia, Beatrice Formigli e Sandra Milani infermiere professionali dell’Azienda Ospedaliera Universitaria di Careggi. Come noi, e come la gran parte degli italiani a Sulaimaniya, i sanitari fiorentini alloggiano al MamuZen Hotel. Avevamo quindi già avuto occasione di scambiarci commenti e impressioni su questa loro esperienza professionale. Compresa la consapevolezza dei limiti temporali di un addestramento professionale che si concluderà a fine marzo. Ma anche la tenacia con la quale stanno operando per rafforzare l’impegno assunto.
In realtà l’avamposto sanitario visitato a Sulaimaniya è di assoluta qualità, ancor più se rapportato alla realtà locale, dove l’assenza di presidi coincide con l’esclusione, da parte del governo iracheno, dall’erogazione della cura pubblica per i curdi al di fuori della loro regione. Questo popolo martoriato e afflitto da gravi malattie causate da armi di aggressione di massa usate nelle guerre chimiche e batteriologiche, in particolare nella seconda metà degli anni Ottanta.
La lista delle prenotazioni improntata al modello toscano dell’appropriatezza, determinata dagli specialisti caso per caso, onde evitare “sorpassi” inaccettabili di fronte a gravi malattie, resta ancora molto lunga.
A chi arriva per la cura in day hospital, ora c’è l’obbligo di rispettare la fascia oraria della propria programmazione terapeutica. Un primo passo semplice che si è scontrato con radicati costumi locali. Dagli iniziali venti pazienti siamo arrivati agli attuali trentacinque. In questo momento vengono trattate quattro, cinque persone l’ora. Un buon risultato.
“I sanitari imparano a risolvere i problemi che quotidianamente si pongono, seguendo un percorso logico che in queste settimane abbiamo loro tracciato”. Il dottor Livi si appassiona mentre ci spiega l’operato di questi mesi: “Negli ultimi giorni utili all’insegnamento cerchiamo di non interferire, li seguiamo a distanza osservando la corretta attuazione dei protocolli. Quando partiremo, saranno soli a risolvere ogni problema che si presenta”.
E’ il modello del professor Biti, che è riuscito ad avviare un percorso formativo che mira ad amalgamare e motivare il personale locale spesso digiuno da questo tipo di esperienze e forgiato da culture variegate rispetto all’approccio sanitario. L’impatto con una tecnologia assolutamente innovativa, l’uso intensivo e personalizzato della stessa, un cambiamento radicale di formazione. Questo vale anche nel rapporto con il front office, come nell’accoglienza e nella dimissione ospedaliera. Le naturali incertezze e resistenze iniziali lasciano il posto alla voglia di far propria ogni esperienza utile, prima che gli italiani ripartano.
Mi spiega Filippo: “Qui si usa il software Mosaic, un sistema informativo che ci ha permesso di andare oltre le indagini conoscitive che facevamo. Lo hanno acquistato con il supporto della conoscenza toscana, ma un sistema così avanzato non lo abbiamo dappertutto neppure da noi”.
Maglia e giacca verde, un girocollo d’oro, unica concessione a un abbigliamento funzionale al lavoro in ospedale. Determinata e volitiva. Al pari di altre donne che ho conosciuto in questo Paese, con incarichi di responsabilità nel lavoro o nella politica. Punte emergenti di un impegno di genere, deciso a ridurre gap secolari. Lei ha vissuto in Francia, per trent’anni ha insegnato fisica e matematica, è stata ministro della Sanità del governo regionale prima di misurarsi in questa nuova avventura. Fa parte della generazione politica cresciuta nella resistenza, che ha avuto i suoi riferimenti in coloro che per decenni hanno lottato per l’autonomia del Kurdistan, a cominciare, qui a Sulaimaniya, da Hero Ibrahim e Jalal Talabani ai quali è legata da una consolidata amicizia.
“I componenti la nostra equipe sanitaria crescono insieme - ci dice - stanno diventando una squadra. Imparano a gestire i singoli passaggi dell’intera filiera lavorativa. E’ cambiato soprattutto il modo di rapportarsi al lavoro e all’organizzazione, ma anche alle relazioni umane. Non ci sono più le vecchie liste di attesa, ma si ragiona di programmazione”.
“Ci sono numeri che evidenziano più di ogni parola le drammatiche conseguenze del bombardamento chimico di Halabja”. Emozioni e ricordi personali segnano la voce della dottoressa Akhtar: “Da uno studio preliminare su 600 sopravvissuti, il 48% sono stati colpiti da leucemia, tumori polmonari e della pelle. A ventidue anni di distanza, c’è chi non ha ricevuto ancora le cure necessarie. Ora che stiamo cercando di metterci alle spalle gli anni della guerra - afferma soppesando le parole - dobbiamo impegnare le nostre migliori risorse nel campo della salute e della ricostruzione”.
Si è creata un’atmosfera amichevole e la signora ci invita in città per pranzare insieme. Proseguiremo la conversazione gustando - aggiunge - il miglior kebab di Sulaimaniya. Accettiamo volentieri. Dai finestrini dell’auto guardiamo i noccioli in fiore, sono macchie di rosa che si mescolano ai cento colori della pur tardiva primavera. Lei segue il nostro sguardo: “Durante la guerra non c’erano rimasti più alberi. Vedere tanti fiori ci ricorda che siamo liberi”. Brevi frasi che sottolineano l’amarezza del lungo tempo trascorso sotto un regime oppressivo.
Arriviamo nel cuore del mercato, all’angolo con quella che viene chiamata la via dei farmacisti. Ci si ferma al Kabab Wali. Riconosco il posto. Sono stato poco tempo prima nel locale accanto. “Stesso nome e stesso proprietario - ci spiega la signora - Nella parte dove siamo, però, la clientela è prevalentemente femminile”.
Mi guardo intorno. Ai tavoli siedono per lo più gruppi di due, tre ragazze. Vicino alla cassa, l’immancabile televisione accesa. Ci sediamo in un angolo tranquillo, a un tavolo con una tovaglia di plastica trasparente. Ci portano gli assaggi della cucina locale, scelti con cura dalla nostra gentile accompagnatrice. Melanzane, sottaceti, olive. Poi il piatto forte, il kebab di agnello con i pomodori e il croccante tika, con i bocconcini di pollo. Una fama ben spesa, quella del Kabab Wali.
“Quello che conta è che ora i giovani possono programmare il loro futuro. Per noi non è stato così”. La signora Akhtar, guardandoci negli occhi, parla degli anni lontani, quando la libertà era tutta da conquistare.
“A quei tempi, ogni volta che spuntava un nuovo giorno non sapevo se sarei arrivata a fine mattinata senza essere imprigionata. Qualche anno dopo, a ogni alba mi domandavo se avrei visto le ombre della sera. Quando fui adulta, la mattina speravo di veder giungere quella successiva, senza essere svegliata nel cuore della notte da chi dava la caccia agli oppositori”.
Mentre conversiamo, lo sguardo si perde nei ricordi. “Mia madre era obbligata a pregare in arabo. Parole che ripeteva senza comprenderne appieno il significato”.
Ci racconta un episodio di tanti anni fa. Baghdad 1998, le strade improvvisamente chiuse per motivi di sicurezza. Lei è in auto con tre amiche e sbotta: “ E’ vita questa?”. Una delle ragazze comincia a piangere, disperata. La signora Akhtar parla ora lentamente, vuole essere sicura che comprendiamo quello che ci racconta. “La mia amica continuava a piangere. Diceva che se non mi denunciava alla polizia per quella mia frase, ma qualcuna tra noi lo avesse fatto, avrebbero imprigionato anche lei”.
“Era vita quella?” aggiunge sorridendo. Flash della memoria per mostrarci i sentimenti, le paure che riempiono la vita quotidiana dei ragazzi in tempi di dittatura.
Ci salutiamo. La invitiamo a Firenze. Assicura che verrà in Italia, anche se si potrà allontanare solo per breve tempo. Qui la trattiene il forte legame con il Paese da ricostruire. La sua terra. La necessità di portare avanti la scommessa sanitaria avviata.
“Ci sarebbe una parola da togliere dal vocabolario di chi lavora qui – dice, da amareggiata e ostinata professionista della sanità, Sandra – una parola che mi sento invece ripetere ogni giorno: tomorrow, domani”.
Negli stessi giorni abbiamo visitato un altro ospedale, il Qandil - Sida Halabja Hospital, una costruzione del 1998 che un cartello indica contare su 100 posti letto. Questo presidio suscita, se possibile, stati d’animo ancora più forti e drammatici. La medicina intensiva è formata da una grande stanza con separè di stoffa. Il primario ci descrive le eccellenze – malattie cardiologiche, circolatorie, medicina generale ed emergenza - che sono lì curate. Separata dal resto della struttura, il reparto pediatrico costituito da due piccole stanze con tre letti ciascuna. Anche qui occhi disperati di madri impotenti. Povertà e paura da tagliare con il coltello. Ci rendiamo conto, ancora una volta, dell’inutilità delle parole che potremmo spendere. Usciamo per non continuare a sentirci tanto inadeguati al dramma che qui si consuma, quanto consapevoli, con la nostra sola presenza, di attivare speranze. Ci insegue una madre. Il corpo esile, gli occhi che cercano i nostri. Ci racconta di Fatma, la sua bambina di una decina di anni, ricoverata per la talassemia. Sono arrivate da Baghdad. Fatma è candidata per il trapianto di midollo osseo, ma questo non è possibile nell’Iraq di oggi. Possiamo soltanto sperare di poter fare per lei qualcosa al nostro ritorno in Italia. Aiutare Fatma per continuare nella speranza di una rapida crescita del sistema di cura curdo. Tra noi, qualcuno si lascia andare al pianto. Scaturisce dal dolore e dalla rabbia, ma soprattutto dalla constatazione che nella terra dell’oro nero si sia ancora così lontani dal garantire una speranza terapeutica a tante persone che soffrono.
Comprendiamo bene, ora, motivi e aspettative forti del sindaco Khder Kareem che ci ha accompagnato in questa visita, quando ci ha parlato dei tre ospedali che presto si apriranno, al servizio degli abitanti di Halabja, grazie al contributo di un progetto giapponese.
Colpisce sempre più che un popolo, per molti versi così lontano dalla nostra cultura, abbia invece, come noi italiani, la passione del raccontarsi. Mi sento quindi spinto a narrare a mia volta i percorsi di vita delle persone incontrate, poiché la loro somma sono le pietre con le quali si sta costruendo il presente di una comunità. Una sorta di riconoscenza a testimoni di un percorso che partendo dalla guerra si trasforma nella voglia di ricostruzione e di pace.
La memoria narrante diviene così parte della storia passata e presente. Sono principalmente le donne a raccontare le storie del proprio popolo. Storie lunghe, articolate e descrittive di incubi e di sogni. Gli uomini, in genere, privilegiano il ricordo del singolo evento. Drammatico e importante quanto si vuole, ma fuori da un contesto più condiviso. Simili a soldati, in qualche modo, che sentono di dover evitare la trasmissione di emozioni e sentimenti. Sfere affettive inesplorabili pubblicamente.
Per questo gli appunti qui raccolti sono dedicati alle “donne-testimoni” incontrate, che come la signora Akhtar, ci aiutano a conoscere l’anima profonda dei curdi.
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