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Intervista a Carlo Ruta sulla nonviolenza

2 agosto 2010
Paolo Arena e Marco Graziotti
Fonte: Centro di ricerca per la Pace di Viterbo
http://lists.peacelink.it/news

Come è avvenuto il suo accostamento alla nonviolenza?

È avvenuto per gradi, con lo scorrere degli anni, che mi hanno consentito di riflettere, soprattutto sulla natura dell’atteggiamento violento, rivelatore delle lesioni che fino a oggi hanno egemonizzato la storia. La violenza è un trauma a prescindere, che lascia il segno, sempre e comunque. Ho maturato allora la convinzione che la nonviolenza, sostenuta da una coerente razionalità, sia il modo più consono di resistervi.

Quali personalità della nonviolenza hanno contato di più per lei, e perché?

Come tanti, mi sono trovato a fare i conti con le esperienze di Gandhi, Martin Luther King, Malcom X, Aldo Capitini, Don Milani. Ho avuto quindi nozione di eventi che, per quanto marginali o apparentemente tali, hanno influito sul “normale” corso delle cose, ponendolo in qualche modo in discussione. Da Tucidide a Hobbes, da Machiavelli a Clausewitz, è stato insegnato che il realismo, se propriamente tale, non può che essere bellicista. Esiste ed è operante nondimeno un realismo della nonviolenza, che sconfessa tale visione monolitica della storia. Tanto più nel tempo clou degli olocausti sono state tracciate e testimoniate vie che è possibile percorrere e che in taluni snodi sono risultate perfino determinanti. Specie dopo l’esperienza gandhiana, la nonviolenza è divenuta in sostanza una possibilità operativa, una metodica, una prassi. E tutto questo per me ha contato.

Quali libri consiglierebbe di leggere a un giovane che si accostasse oggi alla nonviolenza? E quali libri sarebbe opportuno che a tal fine fossero presenti in ogni biblioteca pubblica e scolastica?

La nonviolenza è una fiumana che ha accompagnato il grande fiume della prepotenza. Consiglierei quindi di accostarsi a questo torrente, minuscolo e tuttavia irriducibile, attraverso le opere o i brani di opere che lo hanno meglio rappresentato, sin dall’antichità. Per comprenderne l’essenza e le sfaccettature, suggerirei comunque la seguente bibliografia minima: "Political justice" di William Godwin (1793); "Disobbedienza civile" di Henry David Thoreau, (1849); "In che consiste la mia fede" di Lev Tolstoj (1884); "Riflessioni sulle cause della libertà e dell'oppressione sociale" di Simone Weil, (1934); "Nonviolenza in pace e in guerra" di Mohandas Karamchand Gandhi (1948); "La banalità del male" di Hannah Arendt (1963); "L’obbedienza non è più una virtù" di don Lorenzo Milani (1965); "La forza di amare" di Martin Luther King (1967); "Le tecniche della nonviolenza" di Aldo Capitini (1989); "Il principio di responsabilità" di Hans Jonas (1993); "Lo sviluppo è libertà" di Amarthia Sen (1999). Suggerirei altresì la lettura di alcuni brani di Kant; in particolare, i passi della Ragion pratica che definiscono il valore assoluto della dignità umana e le geometrie che reggono l’imperativo categorico.

Quali iniziative nonviolente in corso oggi nel mondo e in Italia le sembrano particolarmente significative e degne di essere sostenute con più impegno? Quali centri, organizzazioni, campagne segnalerebbe a un giovane che volesse entrare in contatto con la nonviolenza organizzata oggi in Italia?

Mi preme ricordare anzitutto l’organizzazione Freedom Flotilla, che nei mesi scorsi ha pagato il proprio impegno con nove uccisi, per aver tentato di forzare il blocco su Gaza, in sostegno al popolo di Palestina. Le realtà che meritano vicinanza e sostegno sono comunque tante. Penso, per esempio, a Emergency di Gino Strada, ad Amnesty International, alle associazioni israeliane e palestinesi che hanno deciso di cooperare sul terreno della nonviolenza. Fra le realtà italiane che si sono distinte per rilievo e costanza dell’iniziativa, mi piace ricordare i Comboniani, Pax Christi, la Rete Italiana per il Disarmo, la Comunità di Sant’Egidio, la Chiesa Valdese, il Movimento Nonviolento di Daniele Lugli e Massimo Volpiana, l’associazione Libera di don Luigi Ciotti, il Centro di ricerca sulla Pace di Peppe Sini, Peacelink, Fortresse Europe, L’Arci, i Beati Costruttori di Pace, la Gioventù Francescana. E si potrebbe continuare, giacché sono numerose le associazioni che, legate comunemente al territorio, hanno deciso di seguire la traccia di Aldo Capitini, Alexander Langer, don Tonino Bello. Trovo infine essenziale l’impegno della LAV e di altre associazioni animaliste.

In quali campi ritiene più necessario ed urgente un impegno nonviolento?

L’impegno nonviolento chiama a confrontarsi, giorno dopo giorno, con l’emergenza delle guerre, con epidemie e carenze alimentari che colpiscono i continenti, con le offese delle mafie, con la realtà dei migranti, con il disagio del non lavoro, diffuso, tanto più in periodi come l’attuale, in ogni parte della terra. Tutto questo propone sfide che è doveroso raccogliere. Fatto salvo tale dato, imprescindibile, volgerei però l’attenzione su un impegno diverso, per certi versi minimalistico, e nondimeno essenziale. Mi riferisco a due terreni specifici: la scuola e la famiglia. Non credo che la nonviolenza possa stabilizzarsi nelle società, fino a influire nelle cose in modo determinante, se manca un criterio educativo di fondo. Il rispetto della dignità e della vita può essere trasmesso, suggerito, insegnato. Il germe della violenza può essere snidato, isolato, posto in discussione, controllato.

Come definirebbe la nonviolenza, e quali sono le sue caratteristiche fondamentali?

Rappresentata non di rado come una debolezza, la nonviolenza è in realtà una risorsa, una tensione civile, positiva, volta a imbrigliare la hybris che si annida negli esseri umani e nella storia. È il gesto di resistenza al disordine degli istinti, la sconfessione quindi di una concezione totalitaria della biologia che si risolve nell’immanenza del male, in quell’orizzonte onnicomprensivo che i militaristi chiamano regno della necessità. Costituisce altresì un cammino, un tirocinio faticoso e volontario, recante alla base l’assunzione di un impegno radicale, razionalmente fondato appunto, verso sé e gli altri, atto a testimoniare, in primo luogo, la dignità incondizionata della vita.

Quali rapporti vede tra nonviolenza e femminismo?

Alla luce di tutto, ritengo si tratti di un rapporto inscindibile. Le lotte delle donne del secondo Novecento, che hanno determinato una svolta epocale, non si sono risolte nella sola rivendicazione dei diritti. I movimenti femminili, spontanei e organizzati, hanno offerto e continuano a offrire un contributo straordinario, per quanto non sufficientemente riconosciuto, all’affermazione della nonviolenza, ponendo in campo il punto di vista, il sentire, le differenze della donna. Non è un caso che siano stati perentori nel rigettare talune “pari opportunità” come quella dell’inquadramento negli eserciti e altre dello stesso tenore, non coerenti con i modi d’essere della donna, e abbiano reclamato invece, con altrettanta perentorietà, l’espulsione della guerra dalla storia. Da tale prospettiva l’impegno delle donne è stato e rimane poi insostituibile, testimoniato comunque da tantissime esperienze: dal Movimento delle madri in Bosnia durante il conflitto scatenato dalle fazioni serbe di Karadzic, alla scelta determinata di tante donne statunitensi di scendere in campo contro le guerre in Iraq e in Afghanistan. Importanti lezioni di nonviolenza e di pace, insistono a venire d’altronde dalle donne d’Africa, impegnate in prima linea nella lotta per la sopravvivenza, lungo gli orizzonti infelici delle guerre, della fame, delle dittature, delle epidemie.

Quali rapporti vede tra nonviolenza, impegno antirazzista e lotta per il riconoscimento dei diritti umani di tutti gli esseri umani?

L’impegno antirazzista costituisce un aspetto fra i più rappresentativi della nonviolenza. Direi che ne costituisca anzi il fondamento, opponendosi a quel male assurdo e primordiale che, coltivato dai nazionalismi e dalle ideologie di regime, proprio nel Novecento, definito il “secolo dei diritti”, ha generato le più grandi mattanze della storia. Una domanda torna allora inevitabile: cosa può fare il movimento nonviolento per impedire che ritornino Auschwitz, il Ruanda, Srebrenica? E la risposta, per quanto precaria, è essenzialmente una: giocare d’anticipo, valorizzando i percorsi di coscienza, di educazione alla nonviolenza, con strategie d’impegno complessive, pure di livello sopranazionale, che riescano a interloquire con i legislatori, le opinioni pubbliche, le agenzie civili in senso lato, e a coinvolgere, in modo idoneo, le sedi formative, la scuola.

Quali rapporti vede tra nonviolenza e lotta antimafia?

Inevitabilmente, la lotta alle mafie è stata e tanto più tende ad essere oggi una delle linee più avanzate dell’impegno nonviolento. Costituiva già negli anni cinquanta-sessanta un momento essenziale del lavoro civile di Danilo Dolci, che si sostanziò, oltre che in testimonianze sul terreno e nelle analisi sul fenomeno del banditismo di Partitico, in una serrata denuncia, indirizzata ai parlamenti, ai governi e alle istituzioni giudiziarie, sul sistema di potere che vigeva nell’isola, cui facevano capo uomini politici come Bernardo Mattarella, Calogero Volpe, Salvo Lima, Giovanni Gioia, Vito Ciancimino. Nonviolenta era altresì, negli anni settanta, la lotta alla mafia di tanti ragazzi siciliani che, sulle vie del Sessantotto, avevano scoperto e fatto propri gli ideali di giustizia e pace. Ne ritroviamo l’emblema nell’impegno di Giuseppe Impastato contro i mafiosi del proprio paese e della sua stessa famiglia, che facevano capo a Gaetano Badalamenti. Nonviolenta era l’iniziativa di Mauro Rostagno, che, giunto a Trapani con la comunità Saman, non esitò a sottoporre a una serrata inchiesta televisiva la mafia che dominava la città. Pacifista e attraversata dal messaggio nonviolento era ancora l’esperienza dei “Siciliani” di Giuseppe Fava, negli anni dei missili Cruise a Comiso. Dopo le stagioni delle grandi stragi in Sicilia, e tanto più dopo gli eccidi di Capaci e via D’Amelio, l’impegno antimafia è divenuto infine caratterizzante in realtà nonviolente attive su tutto il territorio nazionale, come Libera, Pax Christi, il movimento Scout, Peacelink, e non solo. Ha ispirato altresì iniziative specifiche come nel caso di “Antimafia Duemila” di Giorgio Bongiovanni, l’associazione “Ammazzateci tutti” in Calabria, e così via. Oggi le narcomafie cingono d’assedio numerosi paesi, pregiudicano la vita civile, favorite dalla recessione economica globale, vanno all’assalto della finanza, delle Borse, fino a influire vistosamente, in numerosi Stati, sulla formazione del Prodotto Nazionale. Per i movimenti nonviolenti si tratta allora di insistere, intensificare l’impegno.

Quali rapporti vede tra nonviolenza e lotte del movimento dei lavoratori e delle classi sociali sfruttate ed oppresse? Nonviolenza e movimenti sociali: quali rapporti?

Si tratta di una problematica complessa. L’oppressione di classe è violenza. Il diritto degli oppressi a resistere, a battersi per difesa della propria dignità, per l’acquisizione di libertà negate, è perciò un fatto sacrosanto. Dopo le grandi rivoluzioni industriali dell’Ottocento, che hanno messo a nudo l’indole bellicista dei capitalismi, hanno prevalso modelli di lotta di tipo insurrezionale: dalle rivoluzioni del 1848 alla Comune parigina del 1871, dall’ottobre russo del 1917 alla lunga marcia di Mao Tse Tung, portata a compimento nel 1949. Era il risultato di oppressioni lunghe, di vere e proprie tirannidi, di condizioni di vita estreme, di grandi calamità e necessità. La lotta delle classi oppresse, procedendo per prove ed errori, determinava beninteso altri modelli, pacifici. È stato comunque lo shock dei fascismi, del secondo conflitto mondiale, della Shoa, di Hiroshima, a portare a maturazione nelle società, nei movimenti operai, progetti di crescita civile pacifisti. Da tali sfondi infatti erompevano, in Italia, la democrazia progressiva di Eugenio Curiel, il socialismo liberale dei fratelli Rosselli, di Guido Calogero e Aldo Capitini, le elaborazione sui diritti di Piero Calamandrei e Norberto Bobbio. La resistenza al nazifascismo si chiudeva d’altronde con un miracolo civile, giacché si generava nel vivo del paese il rifiuto della guerra quale mezzo di risoluzione delle controversie fra Stati. Anche la Costituzione, alla cui redazione avevano contribuito persone come Lazzati, Dossetti, Scoccimarro, Sturzo, Pertini, La Pira, e lo stesso Calamandrei, finiva con il parlare allora il linguaggio del pacifismo. In realtà, si era a uno snodo, che in tutti i paesi induceva i movimenti popolari organizzati a interloquire con le ragioni della nonviolenza, anche se questa non veniva direttamente evocata. Esemplari possono essere considerate in tal senso le battaglie del movimento contadino nel Sud d’Italia, organizzato dalle leghe e dalla camere del lavoro. Si trattò a tutti gli effetti di un movimento pacifico e nonviolento, non dissimile in fondo da quello gandhiano che, alcuni decenni prima, aveva scompigliato le carte in India con la disobbedienza civile, il digiuno, la marcia del sale. E rimase tale, nel solco di un progetto democratico contrastato ma in evoluzione, quando le reazioni degli agrari, nel Palermitano e altrove, si fecero furenti. Ammirato e sostenuto da numerosi uomini di cultura, pacifisti e nonviolenti, dallo stesso Capitini a Carlo Levi, fu d’altronde tale “vento del sud” ad attrarre Danilo Dolci e Franco Alasia nell’isola, dove con quelle lotte poterono interloquire, e a cui vollero contribuire con iniziative emblematiche, come lo sciopero alla rovescia per il lavoro.

Nonviolenza e organizzazioni sindacali: quali rapporti?

Quanto argomentato fin qui testimonia che esiste una naturale assonanza fra nonviolenza e mondo del lavoro. È fin troppo significativo del resto che lo strumento dello sciopero, che ha scandito i passaggi dei movimenti operai sin dalle rivoluzioni industriali dell’Ottocento, abbia avuto un rilievo decisivo nella stessa vicenda del satyagraha gandhiano. Tale assonanza, su talune linee particolari, è andata altresì crescendo e può crescere ancora. Una delle questioni che nei paesi industrializzati meglio definisce oggi il ruolo della nonviolenza è quella degli immigrati. E a tale riguardo è da considerare esemplare la linea di alcune voci del movimento sindacale italiano, in particolare della CGIL, che, attraverso uffici immigrazione locali, promuove l’accoglienza, il rispetto, l’integrazione, lo scambio interculturale, facendo così argine alla xenofobia leghista e alle logiche di espulsione del governo. L’odio razziale cova nel paese sotto la cenere, e può anche esplodere. Ne dà conto quanto è avvenuto in questi anni in centri come Casal di Principe e Rosarno, dove ad “accogliere” gli immigrati sono stati, rispettivamente, i gangster della camorra e i caporali della ‘ndrangheta, con le armi in pugno e con l’intimidazione. Ritengo allora che la coesione fra movimento nonviolento e sindacati, su tale piano, paradigmatico, e non solo su questo, sia fondamentale.

Quali rapporti vede tra nonviolenza e lotte di liberazione dei popoli oppressi?

I popoli hanno diritto di opporsi all’oppressione. È indubitabile. Il problema è costituito dai mezzi e dai modi. La decolonizzazione del Novecento, tanto più dopo il secondo conflitto mondiale, è avvenuta a prezzi altissimi. Per liberarsi dal dominio francese, gli algerini del FLN e dell’ALN non esitarono a ricorrere al terrorismo, e terroristici furono i modi in cui replicarono l'Armée française e i Pied-Noirs. Alle radici di quel terrorismo c’erano lutti e sofferenze, una sopraffazione antica, generazioni di morti che chiedevano giustizia. Franz Fanon ne "I dannati della terra" spiegò con efficacia le ragioni della rivolta armata. Era uno psichiatra. Conosceva a fondo i tormenti dell’Algeria. E furono tanti gli intellettuali d’Europa che condivisero le sue parole, a partire da Sartre, che non esitò a firmare la premessa al libro, e a compromettersi, giungendo a sostenere che l’uccisione di un europeo, anche a caso, da parte di uno schiavo algerino, costituiva un atto di giustizia. Di altro tenore era invece la visione di Albert Camus, che pure in Algeria era nato e vissuto. Da corrispondente di un giornale parigino, l’autore de L'Étranger osò ritrarsi da quelle violenze, dicendosene disgustato, al punto da proporre una tregua. La risposta fu istantanea: tanto i Pied-Noirs quanto i militanti del FLN lo considerarono un traditore. Si trattava forse di realtà simmetriche? La violenza è cieca, come può esserlo un masso che con impeto si schianta al suolo. Ma quella di un popolo umiliato può essere rappresentata come tale? Si può ritenere che non lo sia, o che lo sia meno. I teologi della liberazione hanno finito con il comprendere e legittimare la rivolta in armi dei diseredati e dei popoli oppressi. Il sacerdote peruviano Gustavo Gutiérrez, autore di Teologia della liberazione, ha creduto nella protesta liberatrice dalla povertà. Frei Betto ha creduto e continua a credere nell’esperienza di Cuba. Leonardo Boff, da padre francescano, ha condiviso a lungo la vicenda sandinista, al pari di sacerdoti e teologi come Ernesto Cardenal e Miguel D'Escoto, che, dopo aver combattuto, sono entrati nel governo di Daniel Ortega. Corre, evidentemente, un abisso fra la violenza cieca e sopraffattrice di una giunta militare e quella di un popolo vessato, senza diritti, ridotto alla fame, che ha deciso di rivoltarsi in difesa della propria dignità. La violenza di Ernesto Guevara era altra da quella di Batista. Ma in tutti i casi si tratta di un trauma, di un danno, di un costo altissimo in termini civili. È il dramma della storia, che tuttavia ha indicato possibili vie d’uscita, o almeno delle varianti. In India, le frange radicali del Partito del Congresso fecero il possibile, lungo gli anni trenta e quaranta, per far prevalere il metodo violento, proponendo pure il ricorso al terrorismo. Ma le componenti di Jawakarlan Nehru fecero muro, sostenendo fino in fondo il metodo della disobbedienza pacifica. Alla fine fu il satyagraha gandhiano a scortare l’uscita dei britannici dal paese. Si tratta beninteso di problematiche aperte, giacché esistono condizioni e condizioni. Non si può non tenerne conto. Sarebbe incongruo chiudere gli occhi davanti all’oppressione dei popoli. Si tratta nondimeno di farvi i conti in modo coerente, con le proprie sensibilità e le proprie aspirazioni, perché possano prevalere le ragioni della vita, così come occorre fare i conti con la tragedia assurda dei terrorismi, che continua a germinare, purtroppo, pure dal terreno degli oppressi.

Quali rapporti vede tra nonviolenza e pacifismo? Quali rapporti vede tra nonviolenza e antimilitarismo? Quali rapporti vede tra nonviolenza e disarmo?

La nonviolenza è l’abc di un pacifismo coerente, la condizione cioè di un pacifismo maturo e senza condizioni. È quindi naturale che nell’agenda dei movimenti che la propugnano, un punto fermo debba essere costituito dall’impegno antimilitarista, per la pace. Si tratta di un compito tra i più difficili, tanto più se si considera che il militarismo intanto ha mutato aspetto, finendo con il non averne più uno distinto. Nell’Ottocento e nella prima metà del Novecento la guerra veniva nobilitata, esaltata per se stessa, come igiene dei popoli. I militaristi della cosiddetta “età dei diritti”, che è anche età dell’atomica e delle guerre tecnologiche, tendono a ripiegare invece su nozioni più complesse, di ordine morale. La teoria dello "Justum bellum", che Michael Walzer ha tratto dalla tradizione scolastica e giusnaturalistica, attualizzandola con i passaggi, per certi versi inediti, della supreme emergency e dell’attacco preventivo, oggi costituisce la dottrina ufficiale dell’America. Gli sfondi sono quelli di un ordine che, a dispetto delle resistenze, sempre più tende a porre in discussione alcuni cardini del sistema westfaliano, degli Stati nazionali, proponendosi di fatto, sotto il profilo della sicurezza in primo luogo ma non solo, come unipolare e imperiale. Come è noto, nel 1998, alla vigilia della guerra in Kosovo, il segretario di Stato di Clinton Madeleine Albright replicava ad alcune riluttanze degli europei a ricorrere alle armi con queste parole: "Se dobbiamo usare la forza è perché noi siamo l’America. Siamo la nazione indispensabile. Noi ci ergiamo alti. Vediamo più lontano nel futuro". E gli eventi successivi, tanto più lungo gli anni zero, danno conto di quanto tale linea, a lungo incubata nei delicati equilibri della guerra fredda con l’URSS, già attiva comunque nella prima guerra del Golfo, sia divenuta strategica. A rendere la situazione più complessa sono d’altronde le rettifiche in direzione dello "Justum bellum" walzeriano di intellettuali che tanto hanno interloquito nel secondo Novecento con l’opinione pubblica pacifista. Fra i più emblematici posso citare il tedesco Jürgen Habermas, già attivo nella Scuola di Francoforte con Adorno e Marcuse, lo statunitense Michael Ignatieff, che ha vissuto in prima linea le campagne per il ritiro americano dal Vietnam, il torinese Norberto Bobbio, che negli anni sessanta e settanta ha scritto cose essenziali sull’incongruità civile e giuridica delle guerre. È importante allora che, nell’attuale snodo, i movimenti pacifisti e nonviolenti facciano i conti con tali punti di vista.

Cosa apporta la nonviolenza alla riflessione filosofica? Cosa apporta la nonviolenza alla riflessione sull'etica e sulla bioetica? Cosa apporta la nonviolenza alla riflessione sulla scienza e la tecnologia? Cosa apporta la nonviolenza alla riflessione sull'economia? Nonviolenza e cultura: quali rapporti?

Chiuso l’Ottocento, con le elaborazioni di Thoreau e Tolstoj, la nonviolenza è divenuta man mano l’architrave di numerose riflessioni, sebbene non tutte situabili con pienezza nell’orizzonte della medesima. Le ragioni risiedono nelle peculiarità del nuovo secolo. Il Novecento ha segnato significativi progressi negli iter del diritto e della democrazia, ma, come si diceva prima, è stato macchiato da guerre e genocidi che per estensione, metodo, tecniche e «razionalità» posta in gioco non hanno avuto precedenti nella storia. È stato altresì il secolo dei totalitarismi. Già nei primi decenni mentre si svolgeva, fra il Sudafrica e l’India, la lezione di Gandhi, il messaggio nonviolento si avvaleva di significativi rilanci. Nelle forme di un sostenuto pacifismo ispirava infatti intellettuali come Simon Weil, Romain Rolland, Heinrich Mann, Thorstein Veblen, Karl Kraus, Mikhail Bulgakov, altri ancora. Ma soprattutto dopo la Shoa e Hiroshima, che hanno smascherato, da due opposti versanti, il fondo buio della razionalità occidentale, il filosofo, tanto più nell’Occidente liberal, si è sentito istigato, interpellato, sollecitato a dare risposte, oltre che a porre domande che non erano state mai poste. Il Novecento è così divenuto il secolo che più di ogni altro ha interrogato se stesso sul terreno dei valori e dei non-valori. La domanda etica, pacifista e nonviolenta, ha finito con il «contaminare» altresì, più di quanto fosse avvenuto in passato, i territori della conoscenza e della creatività umana: le letterature, le arti, fino al capolinea del sapere scientifico, che con le sue assunzioni di responsabilità, più di ogni altro dà la misura di quanto sia stata profonda l’autocoscienza del secolo. Pure il fisico nucleare Albert Einstein, a quel punto, ha sentito il bisogno di riflettere da filosofo morale, con posizioni forti contro l’atomica, in favore della pace e del disarmo. Nella primavera del 1955, con Bertand Russell e con altri nove scienziati, da Max Born a Hermann Muller, da Leopold Infeld a Hideki Yukawa, ha firmato un manifesto riconosciuto come il più importante atto di denuncia mai scritto da scienziati sulla minaccia delle armi atomiche per il genere umano. E negli anni successivi non ha receduto da tale impegno. A essere colpito di più dall’inquietudine, resa dal nuovo senso dell’imponderabile, è stato comunque il pensiero filosofico, da varie prospettive. Ne "L’uomo in rivolta", l’esistenzialista Albert Camus, che aveva militato nel PCF, con Sartre, si espresse con radicalità contro la violenza, la guerra, la pena di morte, rivendicando il valore della solidarietà. I filosofi di Francoforte Marcuse e Adorno misero in discussione l’etica della società uscita dal conflitto, mentre, da Budapest, Agnes Heller annotava che le guerre non possono mai realizzare istanze morali, a dispetto delle intenzioni, e dagli States, Hannah Arendt, addebitava al collasso morale della nuova modernità le grandi tragedie del secolo. Tale impegno anziché estinguersi insieme con la guerra fredda, insiste peraltro sull’onda dei nuovi processi: la globalizzazione, le imponenti migrazioni dal sud al nord del mondo, dall’est all’ovest europeo, le nuove guerre, "preventive" e "umanitarie". L’economista bengalese Amartya Sen ha forzato gli orizzonti della scienza economica introducendo tra i fattori di progresso materiale la variabile forte della libertà. Hans Jonas, ha teorizzato doveri da parte degli individui e delle istituzioni pubbliche nei riguardi degli animali e delle generazioni che devono ancora venire. Elaborazioni significative, su piani differenti, sono venute altresì dal lituano Emmanuel Levinas e dall’australiano Peter Singer. Fra gli italiani meritano di essere ricordati Giuliano Pontara, Danilo Zolo, Fulvio Cesare Manara, Raniero La Valle, Tullio Vinay, David Maria Turoldo. E, ovviamente, potrei continuare, con la presa d’atto che il pacifismo e la nonviolenza costituiscono una risorsa non indifferente del pensiero contemporaneo.

Quali rapporti vede tra nonviolenza e informazione?

C’è un rapporto strettissimo, perché l’informazione può rivelare le cose. E a volte basta davvero poco per rivelare un mondo. La foto della piccola Kim Phuk che fugge dai bombardamenti di Trang Bang, nei pressi di Saigon, deturpata dal napalm, è bastata a dare agli americani e agli europei il senso profondo della guerra in Vietnam. Ha costituito un tarlo che si è insinuato nel sentire di intere generazioni, senza più uscirne. In sostanza, nel loro irrompere nella coscienza sociale, attraverso il linguaggio di un cronista, i fatti sono in grado di fare memoria in modo denso, fino a scandire fino in fondo gli itinerari civili delle società. Il reportage, di concerto con altri saperi, con altre consapevolezze, è in grado di concorrere allora alla memoria resistente delle cose, di forgiare la “scatola nera” di questa modernità, mentre tanti abusi, delitti, torti alla dignità della vita, rischiano di rimanere ignoti, quindi “inesistenti”. La vicenda dell’ultimo secolo e il presente suggeriscono beninteso che l’informazione può essere anche altro. Può scendere come pietra tombale sui percorsi di conoscenza. Può scortare l’iter di una regressione. In tali casi, il giornalismo finisce per essere tuttavia altra cosa: l’oracolo di una ragione silenziosa, incapace di resistere al buio della storia.

 

 

* Paolo Arena e Marco Graziotti fanno parte della redazione di "Viterbo oltre il muro. Spazio di informazione nonviolenta", un'esperienza nata dagli incontri di formazione nonviolenta che si svolgono settimanalmente a Viterbo.

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