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Se chi tira le pietre siamo “noi”

Sakineh e le altre donne lapidate

Per coerenza dovremmo chiedere innanzitutto la fine dei bombardamenti che per anni hanno lapidato decine e decine di Sakineh in Afghanistan
9 settembre 2010
Mario Ragazzi

 

In questi giorni l'opinione pubblica italiana sta avendo un sussulto di indignazione.

Scrittori, giornalisti, sportivi e migliaia di cittadini esprimono solidarietà per una donna, Sakineh Mohammadi Ashtiani, condannata a morte nel suo paese, l'Iran, e si appellano alle autorità di quel paese perché sospendano la pena e rivedano il processo. Oltre alla secolare avversione di molti italiani alla pena di morte in sé, in questo caso sono anche la sproporzione tra il particolare reato di cui la donna è accusata (relazioni extraconiugali) e la pena di morte, oltre alla modalità di esecuzione della condanna stessa (lapidazione), che causano avversione e una spinta alla mobilitazione. L'antico ammonimento evangelico su pietre e adulterio ha una forte risonanza in queste circostanze. Ma è proprio questo principio di responsabilità morale e misericordia che induce una ulteriore riflessione.

Chi scrive si unisce senza esitazione alla richiesta di clemenza perché i motivi della condanna e la pena cruenta comminata sono contrari alla dignità umana e della millenaria civiltà di quel Paese.

In questo caso c'è ancora la speranza di poter fare in tempo. Purtroppo, in molti casi passati siamo arrivati troppo tardi. Per esempio, brucia ancora nella memoria la tragica fine di quindici donne lapidate il 22 agosto 2008 nel villaggio di Azizabad, provincia di Herat, Afghanistan. Proviamo a ricordare i nomi di alcune di loro: Paiki (17 anni), Suraya (32), Sameera (25), Shireen (60), Zulaikha (35), Bari Gul (22), Gulrukh (30) e altre di cui non sappiamo il nome proprio ma solo il patronimico. Bombardamento Nato

 

In quel caso non ci fu un processo e le donne non erano state in effetti accusate di alcunché di specifico. Eppure anche loro morirono seppellite dalle pietre delle loro stesse case, scagliate da forza disumana, molto superiore ai muscoli di qualche decina di uomini: esplosivo ad alto potenziale. Un bombardamento dell'aviazione NATO – seguito da un rastrellamento – uccise in quel villaggio 91 persone (o 76 secondo altre fonti) tra cui appunto 15 donne e decine di bambini. Dopo il massacro i media doverosamente e coraggiosamente informarono il pubblico di fronte ai sistematici dinieghi della NATO. Negli anni successivi, altre donne e altri civili, a decine, a centinaia, sono stati lapidati sotto le macerie delle loro case bombardate dagli aerei della NATO, certo per errore, tragici passi falsi sulla via che conduce a garantire la nostra sicurezza e a portare la democrazia a quel martoriato paese. O almeno così dice la versione ufficiale, ma dopo nove anni di guerra, centinaia di miliardi di euro spesi da Stati Uniti e alleati per sostenere un regime fantoccio tra i più corrotti del pianeta, chi ci crede più?

Il regime di Teheran è autoritario, violento e fascistoide e l'opposizione civile che ha il coraggio di affrontarlo certo merita tutta la simpatia e solidarietà. Credo che valga anche un principio di responsabilità politica e morale che discende dal privilegio di vivere in regime democratico per cui dovremmo innanzitutto occuparci di quanto i nostri stessi governi fanno in Italia e nel mondo. E' importante riconoscere che sino ad ora nessuno dei massacri contro la popolazione civile è stato attribuito alle truppe italiane che operano in Afghanistan nel quadro della missione ISAF sotto comando NATO. Questo si deve innanzitutto alla alta qualità professionale e umana dei soldati e ufficiali che servono la Repubblica. Tuttavia, siamo parte di un'alleanza che condivide gli stessi obbiettivi politici, e dobbiamo pertanto condividerne anche parte della responsabilità. In base a questo principio di responsabilità primaria, che non esclude altri doveri morali universali, dovremmo chiedere innanzitutto la fine dei bombardamenti che per anni hanno lapidato decine e decine di Sakineh in Afghanistan, dovremmo chiedere la fine delle operazioni degli squadroni della morte, come la Task Force 373 statunitense, che con la scusa della caccia ai capi talebani continuano a massacrare donne e civili nei villaggi afghani, dovremmo chiedere l'apertura di un'inchiesta per accertare eventuali violazioni del diritto internazionale umanitario e crimini di guerra da parte delle truppe NATO in Afghanistan. Dovremmo, ma preferiamo fissare lo sguardo sulla barbarie altrui continuando a scagliare giudizi e, per interposta aviazione, pietre.

 

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