Il Potere della Resistenza Nonviolenta
La scorsa settimana, un articolo molto letto del New York Times tracciava dei legami tra la resistenza nonviolenta in Egitto e il lavoro accademico di uno studioso americano, Gene Sharp, autore nel 1973 di uno studio seminale in tre volumi, The Politics of Noviolent Action, e nei decenni successivi di ulteriori pubblicazioni tradotte in trenta lingue.
Il Professor Stephen Zunes, politologo e figura di spicco del settore, afferma nell’articolo del New York Times, “[Sharp] è generalmente considerato il padre dell’intero ambito di studi sull’azione nonviolenta strategica.” Zunes non esagera. Nell’ultimo secolo, a parte Ghandi, nessuno più di Sharp ha delineato in maniera così sistematica una teoria del potere nonviolento.
L’articolo del Times utilizza parole come “timido” e “calmo” per descrivere Sharp. Ho avuto l’opportunità di parlare con lui in un paio di occasioni, e benché questi aggettivi non siano sbagliati, non è certo una persona che si tira indietro. Anzi, la sua sicurezza nel parlare riflette decenni di studio accurato e imperturbabile.
Naturalmente, Sharp non ha certo orchestrato gli eventi in Medio Oriente dalla sua base all’Albert Einstein Institution. Le sommosse che si stanno propagando nel mondo arabo sono, nei loro aspetti fondamentali, fenomeni locali. Gli egiziani si stavano organizzando da anni. Si segnalano come avvenimenti della storia recente del riformismo in Egitto l’emergere del movimento di Kefaya nel 2003, lo sciopero nazionale del 6 aprile 2008, e la campagna online di Khaled Said nel 2010.
Inoltre, chi potrebbe dire, guardando il coraggio e la passione di milioni di egiziani, che questa non sia stata la loro rivoluzione, l’espressione dei loro problemi, sul loro terreno, nella loro lingua, nelle loro danze, costumi e canti, nel loro umorismo?
Anche le storie di resistenza in Tunisia, Algeria, Yemen, Giordania, Bahrain e Libia sono fondamentalmente storie locali.
Allo stesso tempo, questi eventi sono collegati in maniera importante e sostenuti da un insieme di idee condiviso sulla resistenza nonviolenta, sviluppato da Sharp e molti altri, compresa una nuova generazione di studiosi e sostenitori come il Dr. Peter Ackerman dell’International Center of Nonviolent Conflict.
La resistenza nonviolenta sta cambiando il mondo da almeno un secolo, da quando Ghandi iniziò a sfidare il razzismo britannico in Sudafrica. (O piuttosto, da secoli? Geoge Lakey, un collega del Centro Studi sulla Pace e i Conflitti ed esperto di azione nonviolenta allo Swarthmore College, la scorsa settimana mi ha detto che uno dei suoi studenti ha tracciato le origini della resistenza nonviolenta ad almeno il V secolo a.C., in Egitto, sotto forma di scioperi.)
C’è uno scambio sempre maggiore di idee tra i movimenti di resistenza nonviolenta attraverso i network transnazionali. Un libro a fumetti del 1956, Martin Luther King and the Montgomery Story, pubblicato dalla Fellowship of Reconciliation, è stato recentemente tradotto in arabo. Alcuni attivisti egiziani sono andati in Serbia per confrontarsi con i veterani del movimento “Otpor”, che rovesciò Slobodan Milosevic nel 2000. I serbi hanno condiviso la loro preziosa esperienza insieme ad alcune lezioni fondamentali di resistenza popolare nonviolenta.
Quali sono queste lezioni?
La prima è che la resistenza nonviolenta, per avere successo, deve basarsi sul superamento della paura e dell’obbedienza. I regimi dispotici, piuttosto che governare con la violenza assoluta, solitamente si affidano ad un mix nocivo di propaganda, condiscendenza, apatia, legittimazione politica ed un uso calibrato della violenza talora palese, talora nascosto per generare una coltre di paura. Tuttavia, paura ed apatia si rivelano potenzialmente fragili. I dissidenti possono sferrare i primi colpi contro l’intera struttura creando possibilità a basso rischio per i cittadini di solidarizzare l’uno con l’altro e intravedere una via di fuga dal regime.
Nel 1983, per esempio, il popolo cileno si servì di una serie di scioperi bianchi per diffondere una coscienza del dissenso contro il regime di Pinochet. Attraverso il rallentamento delle proprie attività, la gente comune, come i tassisti o addirittura i pedoni, comunicava la natura diffusa dell’insoddisfazione verso il governo di Pinochet. Attraverso la loro partecipazione, i cileni si ripresero il potere.
In modo analogo, Facebook ha reso disponibile la partecipazione di molti egiziani ad un’attività relativamente a basso rischio, nella quale poter rendersi conto della propria forza e lasciar cadere le proprie paure.
Improvvisamente, l’inimmaginabile appare possibile – e questa trasformazione negli atteggiamenti può avvenire ad una velocità incredibile. Ahmed Maher del movimento egiziano del 6 aprile ha affermato: “Quando mi sono guardato intorno e ho visto tutti quei volti sconosciuti nelle proteste, e che questi erano più coraggiosi di noi – ho capito che quello era il punto di svolta per il regime”.
La seconda lezione, come insiste Gene Sharp sulle orme di Gandhi, è che: ”Il potere, affinché sia forte e possa esistere, dipende sempre dal sostegno fornitogli dalla cooperazione di numerose istituzioni e persone – cooperazione che non deve continuare.”
La resistenza nonviolenta può sollevare un’immensa pressione politica ed economica poiché ogni regime si affida ai suoi cittadini per la forza lavoro e la competenza. Una non cooperazione mirata può avere effetti devastanti. Non è un caso se soltanto tre giorni dopo che i sindacati si sono uniti al movimento di protesta in Egitto e che gli operai in servizio al Canale di Suez hanno scioperato, i militari hanno preso le redini del potere dalle mani di Mubarak.
La terza lezione è che la disciplina nonviolenta può essere una delle strategie maggiormente critiche nel programma politico dei manifestanti. Siamo soliti associare le rivoluzioni a sanguinose lotte armate e colpi di stato, ma ciò che ha colpito di più durante la resistenza di Piazza Tahrir è stato il comune impegno nonviolento, a dispetto delle provocatorie infiltrazioni di poliziotti travestiti da manifestanti e degli attacchi da parte dei sostenitori di Mubarak.
La violenza da parte dei manifestanti può mettere a rischio il sostegno dell’opinione pubblica e dare ai leaders del regime una scusa per la repressione di massa. In Egitto, è stato il regime ad essere screditato dalla violenza invece dei manifestanti.
Analogamente, in Bahrain, uno degli organizzatori, Hussein Ramadan, ha dichiarato, “La gente è arrabbiata, ma noi sapremo tenere sotto controllo la nostra rabbia, non daremo fuoco a nessun copertone, non lanceremo una sola pietra. Non ce ne andremo a casa finché non vinceremo. Ci vogliono violenti. Noi non lo saremo.”
Il lavoro di Sharp fa capire chiaramente che la resistenza nonviolenta non è affatto una soluzione semplice. Col progressivo diffondersi dei tumulti in Medio Oriente, alcuni regimi potrebbero scatenare una repressione fulminante. Potrebbero schiacciare il dissenso – almeno finché avranno la possibilità di comandare i loro apparati militari.
Oppure, la repressione potrebbe ritorcersi contro i regimi e alimentare ulteriore opposizione. Molto dipenderà dalla determinazione e dall’abilità dei manifestanti nonviolenti.
Ma almeno si stanno scambiando le impressioni da vicino.
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