Violenza e Religione
Il libro di Filippo Gentiloni La violenza nella religione
(Ed. Gruppo Abele, Torino 1991, pp.135, £. 18.000) è un
contributo serio al pensiero nonviolento, e naturalmente al pen-
siero religioso nonviolento e all'esperienza di una religione
nonviolenta, che del primo sono una componente importante.
Mi trovo in consenso ampio con Gentiloni. Più che sotto-
linearne le tesi, vorrei qui, partendo dal suo lavoro, presentare
qualche semplice considerazione suscitata dalla lettura e dalla
discussione. Se mi discosto in parte dal libro, non è per
contraddirlo, ma per proseguire, anche dialetticamente, il di-
scorso.
UN'ESPERIENZA
Dirò anzitutto la mia esperienza, che non ha nulla di spe-
ciale. Conosco bene la prepotenza oggettiva (non ho da accusare
alcuna persona singola) della religione istituita, ma ne ho
un'esperienza più positiva che negativa. Come tutti (ma molti non
possono riuscirvi) ho dovuto liberarmi da tanti di quei «pesi» di
cui parla Matteo, cap. 23. Considero grazia di Dio questa libera-
zione, mai terminata. Sto bene in un angolino della chiesa catto-
lica, a cui sono totalmente grato perché mi ha parlato di Gesù
Cristo. Ci sto liberamente e criticamente, senza obbedire a
tutto, non agli ordini elettorali né a tutti quelli morali.
Considero i vescovi pastori e padri (come altri maestri) quando
mi aprono strade, altrimenti sono fratelli incaricati di fare
unità, voci che la coscienza ha il dovere di vagliare nello
spirito di Cristo. Sono ugualmente fratello di tanti protestan-
ti, che per lo più non distinguo dai cattolici che frequento (le
differenze passano dentro le chiese, come dentro le persone). Non
spendo tempo a fare contestazione ecclesiale, se non quando lo
impone il dovere di solidarietà verso le vittime della prepotenza
religiosa. Alla chiesa chiedo fraternità, che è segno di Dio. In
essa trovo stupende sorelle e fratelli, trovo la bibbia, che sta
come la volta del cielo sopra le fatiche della vita, e trovo la
liturgia, che è bisogno e gioia, perché, come la poesia, conduce
a vedere che tutta la realtà è simbolica e si apre sull'ulteriore
luminoso e indicibile, necessario proprio perché gratuito. Se
sentissi la religione più violenta che amica la abbandonerei.
Perciò rispetto e comprendo chi ha fatto così, ammiro e imparo il
suo coraggio, e nel contempo soffro per lui, perché non gode, per
il momento, questa bellezza, musica, luce.
SMONTARE LA RELIGIONE
Gentiloni afferma spesso nel libro un nesso forte tra
religione e violenza, anche disumana e omicida. Anzi, dice che
«quel contatto religione-violenza forse non si può staccare»
(p.122, al termine della parte intitolata Speranze).
Credo che sia utile "smontare" l'idea e la realtà di reli-
gione, oltre ciò che fa Gentiloni da p.17 a p.20. Mi piace quel
detto riferito da Aulo Gellio (Noctes Atticae 4,9): «Religentem
esse oportet, religiosus nefas». Si può tradurre liberamente:
bisogna essere uno che collega, mentre è nefasto essere legato.
Michele Do, che è un uomo grande nello spirito, intende religione
non come azione umana, riti, istituzione, contrapposta a fede
(come fanno Barth e Bonhoeffer), non come dualismo (Gentiloni,
p.17), ma come collegamento, e come lettura profonda del cuore
delle cose, che - lui dice - «dà su Dio». Certamente si verifica
il dualismo sacro-profano, che è già violento, ma non è questo
che identifica l'autentica religiosità, la quale è, al contrario,
unità, comunione universale, nella più viva libertà. Michele Do
dice che «Dio è nell'incontro di due sguardi». E questo è fonda-
mento di pace libera, giusta, felice.
CONTRADDIZIONE O EVOLUZIONE?
Gentiloni parla spesso di «contraddittorietà» dei testi e
della storia religiosa. Mi convince di più quel che disse una
volta Paolo Ricca: Dio si è convertito dalla violenza alla non-
violenza (cfr. il foglio n.94, dicembre 1981, p.2). Almeno per la
bibbia, più che contraddizione direi che c'è progressione, pro-
spettiva chiara verso la nonviolenza, nelle nostre immagini di
Dio e della vita umana nel suo spirito. Me ne dà conferma Gian-
carlo Bruni, il quale, proprio nel tanto citato Lohfink (autore
di Il Dio della Bibbia e la violenza, Morcelliana, Brescia 1985),
legge che, nella bibbia ebraica, «la società alternativa di Dio
emerse solo lentamente dalle società tradizionali», e precisamen-
te attraverso «tre aspetti principali: partecipazione alla vio-
lenza, smascheramento della violenza, annuncio di nonviolenza»
(in Al di là del "non uccidere", Ed. Cens, Liscate-Milano 1989;
volume collettivo che riunisce articoli in gran parte pubblicati
su il foglio).
VANGELO INCONCLUDENTE?
«Violente anche le pagine del Vangelo, non diverse, in
questo, dalle scritture di Israele» dice troppo facilmente Genti-
loni (p.28) e cita Sergio Quinzio, il quale ripete in articoli e
conferenze quel che scrive nel bel libro Radici ebraiche del
moderno: «Il vangelo non insegna la non violenza, anche se c'è
chi lo legge così» (p.72). Sembra che per Quinzio ci sia nel
vangelo una inconcludenza, una non scelta tra violenza e nonvio-
lenza (bisogna decidersi a scrivere sempre questa parola come
unica, per le ragioni insegnate da Aldo Capitini). E' singolare
ritrovare, in questo ordine di idee, interpretazioni di passi
come, p.es., Matteo 11,12 e Luca 22,36, non diverse da quelle di
una religione e di una chiesa che, insensibili al bisogno di
superare la violenza storica, non uscivano da questa ottica, non
riconoscevano segni diversi neppure nel vangelo. Si trovano in
esegeti di oggi letture di quei passi in luce ben differente, con
solidi fondamenti testuali.
Questa asserita ambiguità del vangelo davvero non mi convin-
ce, non la vedo nel suo spirito. Ma non rifiuto il problema. Ci
sono oggi persone serie e spirituali che negano un nesso forte e
chiaro tra vangelo e scelta nonviolenta (che non è uguale al
pacifismo). In attesa di migliori spiegazioni, provo ad immagi-
nare i loro motivi: non introdurre un nuovo precetto morale; non
fare dell'integralismo pacifista, quasi politico. Ma chiedo: il
vangelo non dà nessuna indicazione pratica? I cristiani possono
scegliere una politica di pace o di guerra? Non credo che pensino
così quelle persone serie. Trovo invece scandaloso che i vescovi
italiani, prodighi di indicazioni morali dettagliate, nell'elen-
care i valori da considerare nel decidere il voto (democristiano)
non abbiano nominato la pace. Eh già, perché la Dc ha votato la
guerra! Ma torniamo a cose serie.
Quelle persone spirituali forse intendono soprattutto non
semplificare il problema del male, pesantemente presente nel
mondo, mistero d'iniquità che gli spiriti religiosi avvertono
dolorosamente, e credono che la nonviolenza lo semplifichi inge-
nuamente. Tutt'altro! Essa smaschera anche le violenze accettate
dalla società, comprese le persone religiose. Essa non è asten-
sione, ma lotta. Mentre la polizia e l'esercito, se sono fortuna-
ti, respingono la violenza diretta e vistosa, introducendone
altra (non sempre minore), la lotta nonviolenta va soprattutto
contro la violenza strutturale e culturale, stando attenta a non
imitarne modi e mezzi. La nonviolenza non è una religione, ma
tocca il mistero religioso presente in ogni animo umano, non è
una fede, ma le somiglia, perché guarda più lontano delle forze
immediatamente calcolabili e confida in forze vitali profonde.
Non conosce la nonviolenza chi la crede una ricetta illusoria
proposta per tutti i casi, mentre è una ricerca con una lunga
strada alle spalle e inedite possibilità di fronte.
LA RELIGIONE VIOLENTA E' LA GUERRA
Torniamo al discorso principale. La visione di Gentiloni,
che lega fortemente religione e violenza, critica giustamente la
religione che non è amore, ma - secondo la mia discutibile im-
pressione - con un eccesso di sospetto (di cui capisco bene le
ragioni), che finisce con l'occultare le reali esperienze di
religione liberante e così toglie anche un sostegno spirituale
alla ricerca nonviolenta.
La religione violenta offende gli spiriti e poi anche i
corpi, col santificare le guerre. Ma la vera religione violenta è
la guerra stessa, anche quando sembra tutta laica o atea. Il mio
amico ateo Costanzo Preve dice bene: la religione oppio dei
popoli è considerare il capitalismo insuperabile. Così è pure
della guerra. Essa è religione pesante perché pretende di essere
un assoluto. La guerra è il massimo del farsi dio da parte del-
l'uomo. Ma questo è pure fare un dio che schiaccia l'uomo.
Nulla è più assoluto e teocratico della guerra. Essa è la
cultura del diritto di uccidere. Non è un eccesso di legittima
difesa né uno scoppio di collera, non è una violenza istintiva,
ma un sistema di diritti e doveri, di scienze e di arti, di
organizzazione e di pedagogia, di tradizioni e di cultura, di
informazione e di propaganda, di valori e di giudizi, di
interpretazioni della storia e della natura umana, di
affrontamento delle diversità e dei conflitti, di concezioni
della persona e della politica: di tutto ciò, e di altro, si
struttura l'idea complessiva che, in certe circostanze noi
abbiamo diritto di uccidere loro; diritto, e quindi dovere, e
quindi merito e gloria nell'uccidere esseri umani. Non è la
vergogna e la tristezza dell'essere costretti, in circostanze
disgraziate, ad usare la violenza anche estrema per riparare una
vita indifesa. Non conosco una guerra statale che rimanga umile e
triste. Anche oggi, nell'era atomica, la guerra cerca pretesti se
non trova motivi, poi cerca giustificazioni, e finisce sempre col
vantarsi di dare la morte.
Quel diritto di uccidere è la suprema arroganza teologica e
- se un Dio c'è - la suprema bestemmia. E' l'azione contraria
alla creazione. Con l'attribuirci il diritto di guerra, ci attri-
buiamo l'assoluta, divina, decisione sulla vita altrui. Ci fac-
ciamo, per l'altro, pari alla necessità, al destino, al giudizio
ultimo e totale sulle sue azioni, da pagare con tutto il suo
essere. E neppure sulle sue personali azioni, ma sulla sua appar-
tenenza ad un gruppo che io tratto da nemico. Così finiamo per
pensare Dio alla maniera del nostro farci dèi: un dio di morte e
non di vita.
Maneggiare la morte è opera assoluta. Non c'è padrone più
totale del guerriero. Non c'è dio più orribile ed antiumano del
dio-guerra. Un cercatore di Dio, come una mente dubbiosa che
agnosticamente né afferma né nega un'eventuale divinità, entrambi
devono disonorare e destituire il dio-guerra. Questo è l'idolo
degli idoli. Niente di più anticristiano, niente di più antilai-
co. I cristiani che ammettono la guerra sono idolatri, i laici
che la giustificano non sono abbastanza critici. La guerra è una
divinità che esige il massimo dei sacrifici: non solo una quanti-
tà di vite fisiche di persone travolte in conflitti determinati
da altri e pochi, ma un'alluvione di sofferenze interminabili e
di rovine materiali, ed anche una disperazione sulla ragione e
sulle risorse propriamente umane, che ci offende e ci degrada
tutti, in quanto esseri umani, perché consegna ogni valore umano
alla forza materiale delle armi, il cui giudizio è cieco e asso-
luto. La rassegnazione alla guerra è la più avvilente alienazione
"religiosa". Perché, come insegna Capitini, «la protesta contro
la morte è più religiosa della sua accettazione» (Norberto Bob-
bio, Introduzione a Il potere di tutti, di Aldo Capitini, Ed. La
Nuova Italia, 1969, p.10).
LAICI E CREDENTI: PROFANARE LA GUERRA
I laici richiamano e aiutano i credenti a relativizzarsi, a
non credersi potenti possessori di verità assolute. I credenti
richiamano e aiutano i laici a non scivolare dal dubbio critico
al relativismo e al nichilismo. Entrambi hanno bisogno di di-
struggere gli idoli, i credenti per fare luogo a Dio, i laici per
riportare l'uomo alla sua misura. La guerra, sempre assoluta, è
nemica dello spirito religioso come dello spirito critico. Il
realismo laico come la speranza cristiana possono saper vedere,
ciascuno a suo modo, nella storia e nel presente, le reali alter-
native umane alla guerra e possono costruirle per il futuro.
Invece di risollevare steccati e vecchi equivoci, la guerra,
tornata a farsi dèa e signora del momdo, impegna e accomuna i
persuasi e i perplessi (per usare i termini classici di Capitini
e di Bobbio) a trovare nella migliore fedeltà al proprio genio la
forza di una lotta strenua per abbattere la divinità che si nutre
di sacrifici umani, che vuole decidere la storia, occupare la
politica, invadere gli spiriti. Sulle ultime ragioni dell'esi-
stenza abbiamo chi un po' di fede, chi molti dubbi. Tutti abbiamo
molti umili interrogativi. Tutti possiamo avere la volontà di
liberare il cammino umano da questa divinità omicida, che lo
sbarra.
Di più. Le analisi più disincantate del fenomeno guerra ce
lo presentano come un immenso business mondiale, che usa gli
stati, l'Onu, i politici, il diritto, i sentimenti nazionali, gli
eserciti, i mezzi d'informazione, il commercio di armi come
l'embargo, gli uccisi come gli uccisori, la distruzione come la
ricostruzione, che usa tutto ciò per il suo profitto. Una
divinità inferiore al più miserabile degli uomini, un feticcio
vile, che ottiene ancora infiniti sacrifici umani grazie al
nostro culto rassegnato, alla mancata profanazione e
ribellione da parte di società non ancora davvero secolarizzate e
libere. Un demonio ancora onorato da statisti e sacerdoti, da
intellettuali e giornalisti, da mistici e da storicisti. La
liberazione da questa religione di morte è il compito storico del
nostro tempo, ed è possibile, perché la guerra non è un dio
eterno, ma un'opera dell'uomo che ha avuto inizio nella storia e
nella storia può finire.
UNA GRANDE ENERGIA
Nella lotta alla violenza, è più che giusto smascherare il
fattore violento nelle religioni. Ma a me pare, che, a confronto
con questa vera e propria religione della guerra, oggi di nuovo
in auge, le religioni classiche dello spirito, pur se compromesse
e inquinate di violenza, sono una grande energia umana (e divina,
per i credenti) contro la guerra. Sono soprattutto questo. Gan-
dhi, che darà il suo nome al XX secolo, è una grande anima
religiosa. Capitini pure. In qualche ampio senso, ogni cercatore
della nonviolenza è religioso, e le religioni sono più nonviolen-
te che violente. Anche l'Islam, nel suo insieme e nella sua
essenza. Credo che ciò sia vero da sempre, non solo oggi che le
religioni, pur tra contraddizioni, si muovono insieme, come non
mai, contro la guerra.
Il libro di Gentiloni suggerisce altre riflessioni, per
esempio sulle idee stesse di Dio che ci facciamo, in relazione
alla violenza. Ma semmai un'altra volta.
Enrico Peyretti (23 marzo 1992)
Articoli correlati
- Honduras
Urge un approccio globale alla violenza di genere
Organizzazioni di donne smontano campagna di disinformazione e chiedono l'approvazione di una legge integrale15 aprile 2024 - Giorgio Trucchi Honduras, paradiso femminicida
Ancora un anno con quasi 400 donne assassinate4 dicembre 2023 - Giorgio Trucchi- Carlo Giuliani sempre nel cuore
Genova 2001, io non dimentico
Da sempre vicina da Haidi, Giuliano ed Elena Giuliani
Carlo per sempre nel mio cuore
Scritto nel Giugno 2006
Lo ripropongo ogni anno25 luglio 2023 - Adriana De Mitri - Una giornata contro la violenza sulle donne un po' speciale
Piantiamo la speranza!
Un mandorlo, speranza di nuova fecondità27 dicembre 2022 - Virginia Mariani
Sociale.network