Pace

Lista Pace

Archivio pubblico

In risposta al discorso di Obama all'ONU

Due pesi e due misure

L'ultimo discorso di Obama all'ONU, il 21 settembre scorso, ricalca molto da vicino quelli del suo predecessore George Bush Jr., tra contraddizioni e affermazioni fuorvianti e insincere.
2 novembre 2011
Stephen Zunes
Tradotto da per PeaceLink
Fonte: FPIF - Foreign Policy in Focus - 30 settembre 2011

Obama all'ONU Durante l'amministrazione Bush, ho scritto più di una dozzina di critiche ragionate dei discorsi presidenziali. Mi sono astenuto dal fare altrettanto nei confronti del Presidente Barack Obama perché – malgrado la delusione per certe sue politiche amministrative – tutto sommato trovavo che i suoi discorsi fossero abbastanza ragionevoli. Ma il suo intervento del 21 settembre, precedente l'Assemblea Generale delle Nazioni Unite, pur contenendo diversi elementi positivi, conteneva in molti modi anche quel genere di ambigue e fuorvianti affermazioni che ci si sarebbe potuti aspettare dal suo predecessore.

 

Eccone qualche estratto, seguito dai miei commenti.

 

La guerra e i conflitti fanno parte di noi fin dall'inizio della civiltà. Ma... lo sviluppo degli armamenti moderni ha provocato un numero sconvolgente di morti.

 

Verissimo. Purtroppo gli Stati Uniti rimangono il maggior esportatore mondiale di armamenti e materiale militare, con un sistema di spedizioni i cui destinatari sono stati, nella maggior parte dei casi, regimi autocratici o altri governi che hanno utilizzato le armi contro la popolazione civile. Per esempio, dopo l'uccisione, nel 2009, di più di 800 civili ad opera delle forze armate israeliane dotate di armi provenienti dagli Stati Uniti nel corso di un assalto durato tre settimane contro i popolatissimi quartieri della striscia di Gaza, l'amministrazione Obama ha seccamente respinto gli appelli di Amnesty International che chiedevano l'embargo sulle forniture internazionali di armi, destinate tanto al governo israeliano quanto ad Hamas: per tutta risposta, l'appoggio militare a Israele è stato non solo confermato, ma persino incrementato.

 

Alla fine di quest'anno, l'operazione militare americana in Iraq giungerà al termine. Allora avremo un normale rapporto con uno Stato sovrano, membro della comunità delle nazioni. E questo rapporto di parità sarà ulteriormente rafforzato dal nostro supporto all'Iraq – al suo governo e alle sue forze dell'ordine, al suo popolo e alle sue aspirazioni.

 

Il repressivo regime autocratico iracheno, dominato da un partito politico settario come quello sciita, continuerà a essere largamente dipendente dagli Stati Uniti, che manterranno nel cuore della capitale una tentacolare struttura diplomatica, con ambasciate e migliaia di impiegati. Gli Stati Uniti continueranno ad assumere decine di mercenari stranieri, inviandoli in tutto il paese anche dopo il formale ritiro delle truppe americane: difficilmente questo potrebbe venire a costituire un “rapporto di parità”.

 

Un anno fa, quando ci siamo incontrati qui a New York, vi erano dubbi circa il successo di un referendum in Sudan. Ma la comunità internazionale ha superato i vecchi disaccordi, negoziando al fine di sostenere l'autodeterminazione del Sudan meridionale. La scorsa estate, quando una nuova bandiera è stata innalzata a Juba, i soldati hanno deposto le armi, donne e uomini hanno versato lacrime di gioia, e i bambini hanno finalmente conosciuto la speranza di poter dare forma al loro futuro.

 

La riuscita del referendum che ha portato all'indipendenza del Sudan meridionale è effettivamente un'importante e positiva conquista. Per contrasto, gli Stati Uniti (insieme alla Francia) hanno impedito all'ONU di attuare una serie di risoluzioni del Consiglio di Sicurezza che chiedevano il referendum per l'autodeterminazione del popolo del Sahara Occidentale, che dal 1975 subisce l'illegale occupazione del proprio territorio da parte del Marocco. Gli Stati Uniti usano chiaramente due pesi e due misure, cosa particolarmente singolare, in questo caso, se si considera che il nuovo Stato del Sudan Meridionale nasce da quello che era universalmente riconosciuto come territorio sudanese, mentre le Nazioni Unite considerano il Sahara Occidentale un “territorio non autonomo”.

 

La Primavera Araba

 

Un anno fa, le speranze del popolo tunisino erano soppresse. Ma i tunisini hanno scelto la dignità della protesta pacifica contro il dominio del pugno di ferro. Un venditore ha acceso una scintilla che ha portato via la sua stessa vita, ma che ha anche infiammato un movimento. Fronteggiando la repressione, gli studenti hanno gridato la parola “libertà”. I governanti hanno iniziato a provare quella paura che prima attanagliava il popolo assoggettato, e ora i tunisini si preparano per le elezioni che saranno un passo verso la realizzazione della democrazia che essi meritano.

 

 È facile tessere le lodi di una rivolta a favore della democrazia dopo che questa è riuscita a rovesciare un dittatore, ma bisogna ricordare che l'amministrazione Obama ha fermamente appoggiato il regime di Zine El Abidine Ben Ali quasi fino alla fine. Quando, in dicembre, ha avuto inizio l'insurrezione popolare, in gran parte non-violenta, il Congresso ha approvato la richiesta del governo di fornire alla Tunisia 12 milioni di dollari in assistenza per la sicurezza, secondo la legge di stanziamento in cui la Tunisia risulta uno dei soli cinque governi stranieri cui  destinare l'aiuto militare finanziato direttamente dalle tasse dei contribuenti. A gennaio, con il crescere della protesta e l'abbattimento del regime, il Segretario di Stato Hillary Clinton ha espresso la sua preoccupazione per l'impatto “dei disordini e dell'instabilità” sui “reali aspetti positivi delle nostre relazioni con la Tunisia”, e ha insistito sul fatto che gli Stati Uniti non avrebbero preso posizione in merito.

 

Fino a un anno fa, l'Egitto era stato governato da un solo Presidente per più di trent'anni; ma per diciotto giorni gli occhi del mondo sono stati puntati su Piazza Tahrir, dove gli egiziani di ogni estrazione sociale – uomini e donne, vecchi e giovani, musulmani e cristiani – hanno preteso i loro diritti universali. Abbiamo visto in quei manifestanti la forza morale della non-violenza che ha incendiato il mondo da Delhi a Varsavia, da Selma al Sudafrica – e ci siamo resi conto che il cambiamento era giunto in Egitto e nel mondo arabo.

 

Lodare “la forza morale della non-violenza” per la causa della libertà è significativo, in particolar modo se la lode viene dal Presidente di un paese che Martin Luther King – che guidò quella protesta di Selma citata proprio da Obama – aveva identificato come “il più grande fornitore di violenza del mondo”. In effetti, è emblematico il fatto che un Presidente degli Stati Uniti riconosca il potere di una strategia d'azione non-violenta, a lungo ignorata a Washington, mettendosi così in contrasto con le precedenti amministrazioni che sostenevano che la democrazia potesse avanzare in Medio Oriente solo per mezzo delle invasioni condotte dagli Stati Uniti.

 

Comunque, è importante ricordare che solo un mese prima della rivoluzione egiziana, Obama e l'allora Congresso Democratico avevano approvato un'ulteriore concessione di 1,3 miliardi di dollari per la sicurezza a sostegno del regime repressivo di Hosni Mubarak. Qualche giorno prima dell'allontanamento del dittatore, il Segretario di Stato Clinton dichiarava che “il paese era stabile” e che il governo Mubarak stava “cercando il modo di venire incontro ai bisogni e agli interessi legittimi della popolazione egiziana”, proposito mai realizzato in ben trent'anni di governo. Quando gli fu chiesto se gli Stati Uniti supportavano ancora Mubarak, il portavoce della Casa Bianca Robert Gibbs rispose che l'Egitto rimaneva “un vicino e importante alleato”. Come accaduto durante la protesta tunisina, l'amministrazione Obama ha tentato di mettere sullo stesso piano gli occasionali atti di violenza di alcuni manifestanti pro-democrazia con la molto più estesa violenza perpetrata dalle forze dell'ordine di regime, come suggerito dalle parole di Gibbs: “Continuiamo a pensare che, innanzitutto, tutte le parti debbano evitare la violenza”.

 

In un'intervista alla BBC nel 2009, poco prima della visita di Obama in Egitto, Justin Webb aveva chiesto al Presidente: “Considera il Presidente Mubarak un governante autoritario?”. Obama aveva risposto: “No, tendo a non etichettare le persone” rifiutando, peraltro, di riconoscere l'autoritarismo di Mubarak sulla base del fatto che non l'aveva “mai incontrato”, come se la domanda fosse riferita alla personalità del dittatore piuttosto che alla sua ben documentata intolleranza nei confronti dei dissensi. Riferendosi a Mubarak come a un “fedele alleato degli Stati Uniti sotto molti aspetti”, Obama ha continuato a insistere dicendo: “Penso che egli sia una forza per la stabilità e per il bene della regione”. Quando Webb gli ha chiesto come intendesse occuparsi del problema delle “migliaia di prigionieri politici in Egitto”, Obama ha replicato dicendo che gli Stati Uniti non dovrebbero cercare di imporre i loro principi sui diritti umani agli altri paesi.

 

L'unità di misura del nostro successo dovrebbe essere considerata in base alla possibilità per gli uomini di vivere in perenne libertà, dignità e sicurezza. Le Nazioni Unite e gli Stati membri devono fare la loro parte e sostenere queste fondamentali aspirazioni. Non abbiamo altro lavoro da fare.

 

Se il Presidente Obama la pensa davvero così, risulta difficile spiegare perché abbia pensato di porre il veto a una risoluzione ONU che riconosceva le “fondamentali aspirazioni” dei palestinesi di auto-determinazione nazionale.

 

Gli Stati Uniti hanno già imposto pesanti sanzioni ai leader siriani. Abbiamo appoggiato un passaggio di poteri che rispondesse alle esigenze del popolo siriano, e molti dei nostri alleati si sono uniti a noi in questo sforzo. Ma per il bene della Siria – e per la pace e la sicurezza di tutto il mondo – dobbiamo esprimerci con un'unica voce. Non ci sono scuse per l'inattività. È tempo che il Consiglio di Sicurezza dell'ONU sanzioni il regime siriano e prenda le difese del popolo.

 

Le sanzioni internazionali poste contro il regime siriano sono senza dubbio appropriate, ed è giusto che Obama esorti il Consiglio di Sicurezza all'azione. Sfortunatamente, gli Stati Uniti hanno ben poca credibilità a questo proposito, data la lunga serie di veti posti alle Nazioni Unite che intendevano sanzionare i regimi alleati – incluse l'Indonesia (durante l'occupazione di Timor Est) e il Sudafrica (quando l'allora regime pro-apartheid occupava la Namibia) – e altri paesi che hanno, proprio come il regime siriano, massacrato migliaia di oppositori disarmati.

 

In tutta la regione dovremo rispondere agli appelli per il cambiamento. In Yemen, uomini, donne e bambini si riuniscono a migliaia nelle città e nelle piazze, sperando che la loro determinazione e il sangue che hanno versato possano avere la meglio su un sistema corrotto. L'America sostiene queste aspirazioni. Dobbiamo lavorare con i paesi vicini allo Yemen e con i nostri alleati in tutto il mondo per cercare di realizzare un pacifico passaggio di potere dal Presidente Saleh verso un movimento che ottenga al più presto elezioni libere e giuste.

 

Questo cambiamento di rotta è ben accetto, dato il precedente sostegno di Obama al regime di Saleh: in effetti, nei primi due anni di governo di Obama, l'assistenza alla sicurezza per il regime di Saleh è aumentata di cinque volte rispetto a quanto erogato durante l'amministrazione Bush. Nonostante la sospensione dell'appoggio americano alle repressive forze dell'ordine del dittatore, Obama ha comunque rifiutato di fare appello alle sanzioni internazionali, cosa che invece ha fatto nei confronti della Siria.

 

In Bahrain sono stati fatti passi in avanti verso la riforma e la responsabilizzazione. Ne siamo soddisfatti, ma bisogna fare di più. L'America è un intimo alleato del Bahrain e continuerà a chiedere al governo e al principale blocco dell'opposizione – il Wifaq – di portare avanti un dialogo costruttivo che porti a un cambiamento pacifico rispondente alle esigenze della popolazione. Crediamo che il patriottismo che lega gli abitanti del Bahrain debba essere più vigoroso delle violenze settarie che distruggerebbero il popolo. Sarà difficile, ma si può fare.

 

È stato il governo del Bahrain controllato dalla minoranza sunnita, e non l'opposizione democratica, a giocare la carta del settarismo. Alcuni membri chiave dell'amministrazione Obama, come il consigliere speciale Dennis Ross, hanno falsamente esagerato la questione del sostegno iraniano diretto soprattutto – ma non solo – a gran parte dei movimenti democratici all'opposizione.

 

Sfortunatamente, anziché invocare sanzioni, proprio come il Presidente ha fatto nei confronti della Siria, il Dipartimento  della Difesa ha annunciato, solo una settimana prima del discorso di Obama, la proposta di vendita di armamenti con relativo equipaggiamento pari alla somma di 53 milioni di dollari al regime del Bahrain. Secondo Maria McFarland, direttrice a Washington di Human Rights Watch “questa è esattamente la mossa più sbagliata dopo la repressione che il governo del Bahrain ha esercitato sulle proteste e sugli oppositori politici. Sarà difficile per tutti prendere sul serio qualsiasi dichiarazione degli Stati Uniti su democrazia e diritti umani in Medio Oriente quando il paese sembra premiare la repressione con nuove armi.”

 

Crediamo che ogni nazione debba tracciare il proprio percorso di realizzazione delle aspirazioni del suo popolo. L'America non si aspetta di essere d'accordo con qualsiasi partito o persona che si esprime politicamente, ma noi difenderemo sempre i diritti universali che sono stati accolti da quest'Assemblea. Quei diritti dipendono da elezioni libere e giuste; da un governo trasparente e affidabile; dal rispetto dei diritti delle donne e delle minoranze; da una giustizia equa e onesta. Questo è ciò che tutti meritano. Questi sono gli elementi di pace che possono durare nel tempo.

 

La natura di tali diritti universali sta proprio nella loro universalità. Purtroppo, il governo Obama sembra aver abbracciato lo stesso principio delle amministrazioni precendenti, vale a dire l'utilizzo di due pesi e due misure, secondo cui il supporto ai diritti umani è basato non tanto sull'effettivo stato di tali diritti in dati paesi, quanto piuttosto sulla relazione degli Stati Uniti con un dato governo.

 

Inoltre, gli Stati Uniti continueranno a sostenere quelle nazioni che attuano il passaggio alla democrazia – con maggiori attività commerciali e investimenti – in modo che il raggiungimento della libertà sia seguito dalla presenza di opportunità.

 

Purtroppo, la crescita dell'attività commerciale e degli investimenti americani si è verificata con maggiore frequenza secondo modelli neo-liberali, che hanno di fatto diminuito le opportunità per i piccoli imprenditori locali e danneggiato le pratiche di sviluppo sostenibile. Il risultato è stato quello di accrescere l'ineguaglianza, arricchendo le élites antidemocratiche alle spese di una maggioranza costituita da persone povere. 

 

Cercheremo di impegnarci al massimo con i governi, ma anche con la società civile – studenti e imprenditori, partiti politici e stampa.

 

Qui, e in molti altri passaggi del suo discorso, Obama – a suo merito – ha enfatizzato il ruolo della gente comune piuttosto che focalizzarsi esclusivamente sull'intervento degli Stati e delle organizzazioni internazionali. Nello stesso tempo, il fatto che la sua amministrazione abbia continuato a sostenere i regimi autocratici e gli eserciti di occupazione che reprimono la società civile, solleva seri dubbi riguardo al suo effettivo impegno.

 

Abbiamo impedito l'ingresso nel nostro paese a quanti oltraggiano i diritti umani e abbiamo sanzionato chi calpesta i diritti dell'uomo all'estero. Daremo sempre voce a tutti quegl'individui che sono stati ridotti al silenzio.

 

Gli Stati Uniti hanno intrapreso azioni simili solo quando i diritti umani sono stati calpestati in paesi che non appoggiano la politica americana; il governo Obama è stato decisamente più tollerante quando questo è avvenuto in paesi alleati degli Stati Uniti.

 

Lo Stato Palestinese e la Pace in Medio Oriente

 

Un anno fa ero su questo podio, e ho chiesto la fondazione di una Palestina indipendente. Allora credevo, e credo ancora oggi, che il popolo palestinese meriti il proprio Stato. Ma ho detto anche che una pace autentica non può essere realizzata se non attraverso i palestinesi e gli israeliani stessi. Un anno dopo, malgrado gli estesi sforzi dell'America e di altri, le parti non hanno ancora appianato le loro divergenze... Tutti noi qui lo sappiamo bene. Agli israeliani deve essere garantita la sicurezza, e i palestinesi meritano di avere la base territoriale per il loro Stato.

 

Nel dichiarare il suo appoggio alla costituzione di uno Stato palestinese, basato grossomodo sui confini di Israele prima del 1967, Obama è stato molto più esplicito di qualsiasi presidente lo abbia preceduto, attirando su di sé severe critiche sia da parte dei Repubblicani sia da un certo numero di membri democratici del Congresso. Comunque, dato che l'Autorità Palestinese ha già garantito a Israele la sicurezza acconsentendo, come parte di un accordo di pace definitivo, al disarmo di tutte le milizie irregolari controllato dalla comunità internazionale, alla demilitarizzazione dello Stato e alla messa al bando di tutte le forze ostili presenti sul territorio, mentre al contrario Netanyahu ha sempre rifiutato di ritirarsi dai territori occupati, viene da chiedersi perché Obama abbia voluto insinuare che entrambe le parti debbano “appianare le proprie divergenze”.

 

Ora, so che molti sono frustrati dalla mancanza di progresso. Vi assicuro che anche io lo sono. Ma il punto non è lo scopo a cui vogliamo arrivare, bensì il modo in cui possiamo raggiungerlo. Sono convinto che non si possa dare un taglio netto a un conflitto che dura da decenni. La pace richiede un duro lavoro e non può realizzarsi semplicemente attraverso dichiarazioni o risoluzioni delle Nazioni Unite – se il percorso fosse stato così facile, si sarebbe già compiuto.

 

La ragione principale per cui le risoluzioni ONU hanno fallito nella pacificazione del conflitto sta nel fatto che gli Stati Uniti hanno posto il veto a non meno di 42 risoluzioni unanimi del Consiglio di Sicurezza che chiedevano a Israele di rispettare i propri obblighi internazionali, e hanno bloccato anche l'applicazione di alcuni punti di altre risoluzioni del Consiglio di Sicurezza che erano state accettate da Washington.

 

In definitiva, sono israeliani e palestinesi – non noi – che devono pervenire a un accordo sulle questioni che li dividono: confini, sicurezza, rifugiati e Gerusalemme.

 

La Carta delle Nazioni Unite e le leggi internazionali hanno sempre posto l'accento sul fatto che debba essere l'occupante, e non il paese sotto occupazione, a raggiungere un'intesa sulle questioni che dividono le due parti. La risoluzione 242 del Consiglio di Sicurezza dell'ONU, a lungo considerata la base per un accordo di pace e citata in numerose risoluzioni successive, insiste sullo stato di illegalità in cui si trova qualsiasi nazione che espanda il proprio territorio attraverso la violenza, mentre Obama ora ripete che entrambe le parti devono “raggiungere un accordo”. Similmente, le risoluzioni numero 252, 267, 271, 298, 476 e 478 – sulle quali tanto le amministrazioni repubblicane quanto quelle democratiche degli Stati Uniti non avevano avuto nulla da obiettare – chiedono specificatamente che Israele annulli l'annessione di Gerusalemme e cessi i propri tentativi di alterare lo status legale della città. Eppure, Obama dice che sulla questione dell'occupazione di Gerusalemme Est, sia il potere occupante sia coloro che sono sotto occupazione devono raggiungere un “accordo”.

 

La pace dipende dai compromessi fatti tra coloro che devono vivere l'uno accanto all'altro, e questo accadrà molto tempo dopo la fine dei nostri discorsi e il conteggio dei nostri voti... Questo è e sarà il percorso da compiere per la fondazione di uno Stato palestinese – negoziato tra le due parti.

 

Obama suggerisce questa falsa simmetria tra Israele – la maggiore potenza militare della regione – e la debole Autorità Palestinese, che governa solo una ridotta serie di enclave nella West Bank circondate dalle forze di occupazione israeliane. Al tempo dell'occupazione del Kuwait, gli Stati Uniti hanno respinto gli appelli al negoziato rivolti dall'Iraq, e non hanno mai insistito sulla necessità di “negoziati da entrambe le parti”.

 

Vogliamo un futuro in cui i palestinesi possano vivere nel loro Stato sovrano, senza porre limiti a ciò che essi possono raggiungere. Questa possibilità è stata loro preclusa per troppo tempo. Ed è proprio perché crediamo fermamente nelle aspirazioni del popolo palestinese che l'America ha investito così tanto tempo e fatica nella costruzione dello Stato palestinese e nello svolgimento dei negoziati che possono portare alla sua nascita.

 

In realtà, gli Stati Uniti si sono opposti a lungo alla costituzione di uno Stato palestinese e hanno approvato l'idea solo recentemente, nel 2003. Nel lontano 1976, gli Stati Uniti hanno posto il veto a una risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell'ONU che prevedeva la fondazione di uno Stato palestinese che comprendesse il 22% dei territori palestinesi sotto occupazione israeliana, oltre a garantire la sicurezza a Israele. Ora Obama sta già preparando un altro veto per bloccare le aspirazioni nazionali palestinesi.

 

Ma è necessario che capiate anche questo: l'impegno americano per la sicurezza di Israele è incrollabile. La nostra amicizia con il paese è profonda e stabile, pertanto crediamo che per una pace duratura si debba tener conto degli effettivi problemi di sicurezza che Israele si trova ad affrontare ogni giorno... Gli ebrei hanno creato con successo il loro stato nella loro madrepatria storica. Israele merita di essere riconosciuto e merita di avere relazioni normali con i propri vicini. E gli amici dei palestinesi non fanno un favore ai loro alleati ignorando questa verità.

 

Israele sarebbe un paese decisamente più sicuro se avesse dei confini riconosciuti e garantiti dalla comunità internazionale, invece di essere un arcipelago di insediamenti illegali e avamposti militari circondati da una popolazione ostile. L'Autorità palestinese, sostenuta dall'intera Lega Araba, ha già preso l'impegno di garantire a Israele sicurezza e ampie relazioni diplomatiche, in cambio del ritiro delle forze israeliane dai territori occupati. Se agli Stati Uniti interessa davvero la sicurezza di Israele, dovrebbero obbligare il governo israeliano di destra ad accettare le ragionevoli proposte per una “terra di pace”.

 

Entrambe le parti hanno aspirazioni legittime – e questo è ciò che in parte rende la pace così difficile. L'impasse potrà essere superata solo quando gli uni impareranno a mettersi nei panni degli altri e viceversa; ogni parte dovrà vedere il mondo attraverso gli occhi dell'altra. E questo è ciò che noi dovremmo incoraggiare e promuovere.

 

Le aspirazioni legittime – di pace, sicurezza e auto-determinazione nazionale – tanto per gli israeliani quanto per i palestinesi, non possono essere negate, e Obama è uno dei primi presidenti americani ad aver riconosciuto che anche i palestinesi, e non solo gli israeliani, possiedono tali legittime aspirazioni. A dire la verità, i suoi potenziali rivali nelle elezioni presidenziali del prossimo anno lo hanno attaccato per questa sua imparzialità.

 

Comunque, pur concordando sul fatto che entrambi i popoli hanno lo stesso diritto di realizzare le proprie aspirazioni, la realtà è che la Palestina rimane occupata, e che Israele è l'occupante. L'Autorità Palestinese chiede solo il 22% della Palestina storica (la West Bank e la Striscia di Gaza), ma gli israeliani continuano a sostenere che è troppo. Il governo conservatore israeliano – appoggiato dalla schiacciante maggioranza bipartisan del Congresso – insiste invece nel voler annettere a Israele gran parte della West Bank, riducendo così lo “Stato” palestinese a una serie di minuscoli cantoni non confinanti tra loro e circondati da Israele, proprio come gli infami Bantustan nel Sudafrica dell'apartheid. Obama, quindi, introduce una falsa simmetria laddove invece esistono relazioni di potere estremamente asimmetriche.

 

Questa terra – nata, storicamente, dalle ceneri della guerra e del genocidio e dedicata, nel presente, alla dignità di ogni singolo individuo – deve riconoscere la propria realtà, che è l'essere abitata sia dai palestinesi che dagli israeliani. Dobbiamo sempre misurare le nostre azioni affinché esse promuovano il diritto dei bambini israeliani e palestinesi di vivere le loro vite in pace, sicurezza, dignità e opportunità. Potremo riuscire in questo sforzo solo se incoraggeremo le parti a sedersi l'una di fronte all'altra, dialogare e comprendersi reciprocamente per quanto riguarda le speranze e le paure di ognuna di esse. Ecco il progetto in cui l'America è coinvolta, ed ecco ciò su cui le Nazioni Unite dovranno concentrarsi nelle settimane e nei mesi a venire.

 

Sfortunatamente, nei più di vent'anni passati da quando palestinesi e israeliani hanno intrapreso i negoziati per la prima volta, Israele ha più che raddoppiato il numero dei coloni presenti nei territori occupati, in aperta violazione della IV Convenzione di Ginevra, di una serie di risoluzioni del Consiglio di Sicurezza dell'ONU, e di un'importante opinione consultiva del 2004 della Corte Internazionale di Giustizia, che richiedevano il ritiro incondizionato dagli insediamenti. Gli Stati Uniti hanno giurato di porre il veto a qualsiasi sanzione o altra azione proposta dalle Nazioni Unite che abbia lo scopo di costringere Israele a onorare i propri obblighi internazionali.

 

Israele sta inoltre violando alcune disposizioni della Road Map, il Piano Tenet, il Piano Mitchell e altrettanti accordi provvisori che chiedono al paese di non impiantare nuovi insediamenti. Israele continua invece a espandere questi insediamenti illegali, malgrado le reiterate obiezioni provenienti da Washington, ma Obama ha ostinatamente rifiutato di sfruttare anche uno solo dei miliardi di dollari destinati al governo israeliano per convincere quest'ultimo a cessare l'insediamento. Visto che Netanyahu ha promesso di continuare a costruire le colonie sulla terra di cui i palestinesi hanno bisogno per stabilire uno Stato vivibile, indipendentemente dai nagoziati, il Presidente palestinese Mahmud Abbas è giunto alla conclusione, a dire il vero poco sorprendente, che i continui colloqui non servono a nulla.

 

Ancora una volta si rivela l'utilizzo di due pesi e due misure nel momento in cui Obama insiste affinché l'ONU non riconosca lo Stato palestinese senza il benestare di Israele, malgrado esso sia riconosciuto da più di 130 paesi, e dato anche che gli Stati Uniti appoggiarono, nel 1948, la richiesta di Israele di far parte delle Nazioni Unite senza porre come condizione che esso si incontrasse prima con i palestinesi per discutere dei confini e di altre questioni. Più recentemente, gli Stati Uniti non hanno chiesto che il Kosovo negoziasse con la Serbia a proposito della propria indipendenza e ha supportato la sua adesione alle Nazioni Unite anche se, giuridicamente parlando, il Kosovo è una provincia serba, mentre l'ONU riconosce la West Bank come un territorio sotto occupazione belligerante straniera.

 

Armi Nucleari

 

L'America continuerà a combattere per la messa al bando dei test nucleari e della produzione del materiale fissile che serve a fabbricare le armi.

 

Questa dichiarazione è ironica, dal momento che gli Stati Uniti fanno parte di quel pugno di paesi che devono ancora ratificare il Comprehensive Test Ban Treaty, adottato originariamente più di quindici anni fa.

 

Dunque, abbiamo cominciato a muoverci nella giusta direzione [a proposito della proliferazione nucleare]. Gli Stati Uniti si impegnano a far fronte ai propri obblighi; ma nel far fronte ai nostri obblighi, nello stesso tempo consolideremo i trattati e le istituzioni che aiuteranno a fermare la diffusione delle armi nucleari.

 

Non è certo questo il caso. Per esempio, come parte di un accordo del 2006 di cooperazione nucleare con l'India – uno dei tre stati che rifiutano di firmare il Trattato di Non-proliferazione nucleare (NPT) – la maggioranza del Congresso, costituita da elementi di entrambi i partiti, ha votato per la rettifica dell'Atto di Non-proliferazione degli Stati Uniti del 2000, che aveva vietato il trasferimento di qualsiasi tecnologia nucleare sensibile verso qualsiasi paese che avesse rifiutato di accettare il monitoraggio internazionale sugli impianti nucleari. L'accordo USA-India contravveniva inoltre alle regole del Nuclear Suppliers Group (formato da 40 nazioni), che controllava l'esportazione di tecnologia nucleare e del quale gli Stati Uniti sono firmatari. Questo accordo costituiva già di per sé una violazione dell'NPT, che chiedeva alle potenze nucleari esistenti di non fornire conoscenze nucleari ai paesi non firmatari. Dunque, Obama non è del tutto onesto quando afferma che gli Stati Uniti si impegnano a far fronte ai propri doveri o a consolidare i trattati e le istituzioni al fine di prevenire un'ulteriore prolificazione del nucleare.

 

Dobbiamo continuare a ritenere responsabili quelle nazioni che sfidano [i trattati di non-proliferazione e i propri obblighi]. Il governo iraniano non può dimostrare che il suo programma è pacifico. Esso non rispetta i propri obblighi, rifiutando le offerte che gli fornirebbero un potere nucleare pacifico. La Corea del Nord deve ancora muoversi concretamente verso l'abbandono delle armi e delle continue azioni belligeranti nei confronti della Corea del Sud. Esiste un futuro che offre maggiori opportunità per i popoli che vivono in queste nazioni, se solo quei governi si decidessero a onorare i loro obblighi; ma se continueranno a procedere su un percorso che si trova al di fuori delle leggi internazionali, presto dovranno fronteggiare una pressione e un isolamento sempre crescenti. Questo è ciò che richiede il nostro impegno nella pace e nella sicurezza.

 

Gli Stati Uniti difficilmente credono devvero che i paesi che non assolvono ai propri obblighi giuridici internazionali riguardo alla non-proliferazione nucleare, possano “fronteggiare una pressione e un isolamento sempre crescenti”. Oltre ad aver firmato il trattato di cooperazione nucleare con L'india, gli Stati Uniti hanno impedito al Consiglio di Sicurezza dell'ONU di mettere in pratica la risoluzione 1172, che chiede a India e Pakistan di eliminare i loro arsenali nucleari, e la risoluzione 487, che chiede a Israele di porre i suoi impianti nucleari sotto la tutela della Commissione Internazionale per l'Energia Atomica. Gli Stai Uniti hanno persino fornito a questi tre paesi velivoli da combattimento equipaggiati con testate nucleari. Questo avviene malgrado il fatto che, mentre l'Iran semplicemente “non può dimostrare che il suo programma [nucleare] è pacifico”, India, Pakistan e Israele sono effettivamente in possesso di pericolosi arsenali nucleari e sofisticati sistemi di consegna. Nella visione del mondo di Obama, l'applicazione degli obblighi giuridici internazionali in materia di non-proliferazione nucleare non dovrebbe essere messa in pratica universalmente, ma solo da parte di quei governi che non piacciono agli Stati Uniti.

 

Norme Internazionali e Cooperazione

 

Per combattere la povertà che affligge i nostri bambini, dobbiamo agire nella convinzione che la libertà dal bisogno è un diritto umano fondamentale.

 

Ironicamente, gli Stati Uniti sono l'unico paese, a parte il decaduto stato della Somalia, ad aver rifiutato di ratificare la Convenzione Internazionale sui Diritti del Bambino, progettata per proteggere i diritti economici, sociali e culturali dei bambini.

 

Per salvaguardare il nostro paese, non dobbiamo rimandare gli interventi richiesti dal cambiamento climatico. Dobbiamo sfruttare il potere della scienza per salvare quelle risorse che sono insufficienti. Insieme, dobbiamo continuare a lavorare sulle basi dei progressi fatti a Copenhagen e Cancun, in modo che le maggiori potenze economiche presenti oggi portino a termine gli impegni presi allora.

 

Quest'affermazione è assolutamente insincera. Gli Stati Uniti costituiscono, insieme alla Cina, il principale impedimento alla realizzazione di un intervento significativo riguardo il più grave pericolo che oggi minaccia il pianeta. Gli Stati Uniti sono infatti l'unico dei 191 paesi firmatari del Protocollo di Kyoto che non è stato in grado di ratificarlo. Inoltre, secondo il Guardian, a seguito del summit di Copenhagen del 2009, conclusosi semplicemente con un'affermazione non vincolante da parte degli USA e di altri quattro paesi, “la prima causa di fallimento degli obiettivi può essere riassunta con due parole: Barack Obama.” Quanto al successivo summit di Cancun del 2010, John Prescott, ex-vice Primo Ministro inglese e poi relatore per il cambiamento climatico al Consiglio d'Europa, ha osservato come gli Stati Uniti abbiano “condiviso la colpa” con la Cina “della mancata realizzazione di un accordo giuridicamente vincolante.”

 

E per avere la certezza che le nostre società raggiungano il loro potenziale, dobbiamo consentire ai nostri cittadini di raggiungere i propri. Nessun paese può permettersi di convivere con la corruzione che affligge il mondo come un cancro.

 

I governi di Afghanistan e Iraq sono tra i quattro paesi più corrotti del pianeta secondo Transparency International. Centinaia di americani hanno perso le loro vite e miliardi di dollari provenienti dalle tasse dei contribuenti sono stati dilapidati per appoggiare questi regimi, che peraltro dipendono dagli Stati Uniti per rimanere al potere. Visto questo genere di rapporto, viene da chiedersi fino a che punto l'amministrazione Obama stia effettivamente combattendo la corruzione.

 

In nessun paese dovrebbero essere negati al popolo i diritti di libertà di parola e confessione, e a nessuno dovrebbero essere negati i propri diritti in base a chi si ama: per questo dobbiamo difendere ovunque i diritti di gay e lesbiche.

 

Obama è il primo presidente che difende così esplicitamente i diritti delle minoranze sessuali davanti all'ONU, e questo è certamente un fatto positivo. Sfortunatamente, gli Stati Uniti continuano a portare avanti una stretta coollaborazione economica e strategica – compresa l'assistenza per la sicurezza e l'ordine su larga scala – con l'Afghanistan, l'Arabia Saudita e (fino a poco tempo fa) lo Yemen, paesi in cui l'omosessualità viene punita con la morte, come in Pakistan e in altri paesi dove gay e lesbiche possono essere condannati all'ergastolo. Dunque è anche discutibile che l'amministrazione Obama mantenga tali relazioni strategiche con paesi che agiscono in questo modo nei confronti delle minoranze religiose o etniche.

 

Nessun paese può realizzare il proprio potenziale se metà della sua popolazione non riesce a raggiungerlo a sua volta. Questa settimana, gli Stati Uniti hanno firmato una nuova Dichiarazione per la Partecipazione delle Donne. L'anno prossimo ognuno di noi dovrà dichiarare quali provvedimenti sono stati presi per abbattere le barriere economiche e politiche che si pongono sul percorso delle donne e delle ragazze. Questo è l'impegno necessario per il progresso dell'umanità.

 

Quella stessa settimana l'Arabia Saudita, intimo alleato degli USA, ha condannato una donna alla fustigazione pubblica perché aveva guidato una macchina. Invero, malgrado Arabia Saudita e Afghanistan rimangano i regimi più misogini del mondo, l'amministrazione Obama ha, almeno apparentemente, mostrato qualche dubbio sulla propria cooperazione strategica con le forze dell'ordine di quei paesi che applicano leggi sessiste.

 

La pace è difficile, ma sappiamo che è possibile. Quindi, insieme, dobbiamo essere risoluti affinché la pace sia definita attraverso le nostre speranze e non attraverso le nostre paure. Insieme, dobbiamo realizzare la pace e, cosa più importante, una pace duratura.

 

Una delle ragioni per cui la pace è così difficile da ottenere sta nel fatto che gli Stati Uniti rimangono il maggior esportatore mondiale di armi, che negli ultimi quarant'anni hanno posto il veto a più risoluzioni del Consiglio di Sicurezza di quanto abbiano mai fatto tutti gli altri paesi membri messi insieme, che hanno un budget per le spese militari immenso quasi quanto la somma di quelli di tutti gli altri paesi del mondo, e mantengono forze militari in più di metà del nostro pianeta. Se non ci sarà un cambiamento nella politica dell'amministrazione Obama, il Presidente avrà davvero ben poca credibilità nelle sue prediche sull'importanza della “pace”.

 

 

Note: Tradotto da Irene Grita per PeaceLink.

Articolo originale: http://www.fpif.org/articles/answering_obamas_un_address

Articoli correlati

PeaceLink C.P. 2009 - 74100 Taranto (Italy) - CCP 13403746 - Sito realizzato con PhPeace 2.7.21 - Informativa sulla Privacy - Informativa sui cookies - Diritto di replica - Posta elettronica certificata (PEC)