La pace, fine o principio della politica?
Di Claudio Ciancio, filosofo, abbiamo pubblicato in il foglio n. 306, novembre 2003, La pace, fine della politica. Il titolo di Ciancio giocava volutamente sul doppio significato di fine: scopo e conclusione, il fine e la fine. Poiché «il punto di partenza [della politica] è la conflittualità degli uomini e degli stati», se la politica ottiene la pace - dice Ciancio - finisce come politica, perché, in quanto tale, è legata alla guerra, pur cercando la pace, che però eccede radicalmente la politica.
Ma non si può dire anche che la pace è il principio e la realizzazione della politica? Che, cioè, gli uomini si associano nella polis (almeno quando è un pactum unionis e non un pactum subiectionis) allo scopo di costruire convivenza non distruttiva, quindi pace? E, dunque, che la politica giusta è connaturata e consiste nella pace, la quale è arte e scienza della convivenza? Il fatto, poi, che nella politica si svolga non solo una competizione civile, ma anche la lotta violenta, come nello stato selvaggio che precede la polis, non dice piuttosto che quella è violenza e non politica?
La vittoria uccide la pace
Sull’affermazione «nemmeno la guerra si riduce alla guerra, la sua dimensione politica è l’aver come fine la pace», vorrei osservare: ma quale pace è il fine della guerra? La pace di dominio, l’imperio del vincitore, che non è davvero pace, non è rispetto dei diritti e della giustizia. È un semplice “cessate il fuoco”, perché ormai non serve più uccidere, e si può parcere subiectis, purché stiano soggetti. La pace imposta dal vincitore al vinto, non è pace, ma guerra stabilizzata, mascherata da contratto giusto. Non è guerra solo fare fuoco: dominare è guerra. La concezione negativa della pace non basta più; tutta la peace research adotta la concezione positiva: assenza di violenza diretta, ma anche di violenza strutturale. Questo punto qualifica l’odierna cultura di pace rispetto alla politica ancora corrente (a sinistra quasi come a destra), che si accontenta della non-guerra, anche nell’ingiustizia strutturale (praticata anche dalle democrazie). La cultura di pace nonviolenta analizza la violenza nelle forme più nascoste, vuole la pace giusta.
Si dirà: la pace è il fine della guerra di difesa, giusta. Ma dov’è una guerra di difesa, nei fatti? Tutti gli stati hanno, per la “difesa”, armamenti ultra-aggressivi, provocatori, ingiustificabili, contrari alla pace, belligeni.
La politica non può fare di più? Ma lo cerca almeno? Sta diventando necessario oggi un ripensamento radicale della politica e dei suoi fini, in presenza di pericoli gravissimi per la sopravvivenza dell’umanità, generati dalla guerra, dalle disparità enormi nelle risorse vitali, dall’aggressione consumistica alla natura, nostro corpo comune. Nessuno vede chiaro e tondo un modello compiuto di nuova politica, ma tutti vediamo l’esigenza e le linee della sua ricerca.
La forza è l’opposto della violenza
Ciancio scrive poi: «La politica sta tra pace e guerra, è il superamento della guerra in vista della pace, ma facendo guerra alla guerra, violenza alla violenza». Su questo punto delicato occorre lavorare con chiarificazioni che vanno dal piano teorico al piano tutto pratico. È chiaro che la politica ha il dovere di usare la forza, come ultima risorsa, per difendersi dalla violenza, sia interna che esterna. Ma forza e violenza non sono affatto la stessa cosa, anche se c’è una voluta confusione, utile ai violenti. Anche la nonviolenza attiva e lottatrice è una forza, ed è più forte della violenza delle armi omicide. La polizia, se è corretta, usa la forza, ma se fa violenza è essa stessa criminale, come a Genova nel 2001. La forza ha il senso e l’etica della riduzione della violenza, mentre la violenza provoca sempre altra violenza. Per questo la violenza-anti-violenza non è mai per la pace, non libera mai dalla violenza, ma la accresce, in definitiva. Forza e violenza non si distinguono solo per essere una legale (forza pubblica, statale) e l’altra illegale, ma per ragioni di sostanza. Forza è la resistenza, violenza è l’aggressione (c’è più forza nel resistere che nell’aggredire: Summa Theologica, IIa IIae, q. 123, art. 6). La forza è una virtù, la violenza un vizio. Non è questione di parole. La distinzione ha sfumature intermedie, ma è concretamente pratica, perché orienta le azioni. (Vedi meglio in il foglio n. 298, gennaio 2003).
La politica ripudia la guerra
Ciancio citava una conclusione di Pascal: «Non potendo far sì che ciò che è giusto fosse forte, si è stabilito che ciò che è forte fosse giusto» (Pensieri, 298, numeraz. Brunschwigg), e scriveva: Pascal pensa che, data la «radicale falsità del potere (…) non vi è altro da fare», e pone «una distanza infinita tra politica e morale». Ma non c’è qui un eccesso di opposizione e separazione, che lascia alla politica la gestione del male? La politica ha il suo senso nella costruzione graduale della socievolezza (limitata, ricorda Kant, dalla insocievolezza), e dunque nella costruzione di pace; la carità è la pienezza della socievolezza generosa. Lo stato e la legge non possono certo (né di diritto né di fatto) imporre l’amore, il perdono; eppure lo stato di diritto, la democrazia, la giustizia mite, sono passi graduali verso il pieno rispetto della persona, la cui legge minima è il non uccidere: perciò l’abolizione della guerra – che è la legge dell’uccidere - è necessaria affinché la politica diventi minimamente umana.
Le armi tolgono dignità
Citando ancora Pascal, quando giustifica la guerra in difesa dei beni minacciati e condanna una pace che trascuri tale difesa, Ciancio pare condividere questa «funzione negativa della politica» e queste «aporie della pace», che deve usare le armi. Tuttavia, potremmo chiedere allo stesso Pascal: la pace non è soprattutto la realizzazione della dignità di un popolo, libero anche dalla propria violenza, più ancora che tutela armata della libertà materiale e dei beni? Oggi abbiamo un’idea di pace più esigente, che non dipende e non è garantita dai risultati di una guerra giustificata.
Arte e scienza del conflitto vitale
Più avanti, leggiamo in Ciancio: se si persegue la pace con la politica «è difficile andare al di là di un concetto negativo: pace come assenza di guerra. (…) La pace intesa positivamente è difficilmente concepibile (…) si cade in contraddizione (…) finisce per apparirci come una tendenziale cessazione o almeno riduzione della vita, che è caratterizzata da lotte e contrasti». La pace in senso positivo, sarebbe la “tranquillità dell’ordine” (Agostino), che è «un’idea escatologica (…), al di là della lotta (…), una condizione non politica». A me pare il contrario: la pace politica positiva è realizzazione della vita! Certo, dobbiamo intenderci: la pace nella storia, come la vita stessa, non è paradisiaca, totale, finale, ma è un cammino possibile nell’arte e nella scienza del conflitto vitale e non mortale; è un concetto dinamico, non statico come quello di Agostino. Gandhi è il Galileo nella scienza del conflitto. Guardiamo la realtà: non solo la politica moderna, nei suoi attuali sviluppi, non produce una pace negativa (assenza di guerra), ma in base al suo principio fondativo di combattere il male col male (denunciato da Marco Revelli, La politica perduta), produce guerra – questa sì – finale, infinita, totale! L’alternativa è nel rifondare la politica. Nulla di meno. Questa è l’ambizione, anzi, la necessità e il dovere della cultura di pace nonviolenta. L’unico realismo, l’unica sopravvivenza, primo dovere di ogni politica, è ormai – come vedeva Balducci – in questa utopia.
La buona domanda
«La riflessione filosofica non ci autorizza ad affermare che la nonviolenza sia la risposta che offre in tutte le circostanze i mezzi tecnici per affrontare le realtà politiche, ma ci porta ad affermare che la nonviolenza è la domanda che, di fronte alle realtà politiche, ci permette in tutte le circostanze di cercare la migliore risposta. (…) Se noi consideriamo la nonviolenza come la domanda buona, potremo allora guardarla come una sfida da raccogliere e applicarci a cercare la migliore risposta che possa esserle data. (…) Fino ad oggi gli uomini generalmente non si sono posti la (buona) domanda della nonviolenza e hanno accettato subito la (cattiva) risposta offerta dalla violenza. (…) Se è vero che la domanda buona non ci dà immediatamente la risposta buona, essa orienta la nostra ricerca nella direzione in cui abbiamo le maggiori probabilità di trovarla. E questo è già decisivo». (Jean-Marie Muller, Le principe de non-violence. Un parcours philosophique, Desclée de Brouwer, 1995, pp. 159-160).
Pace storica, nome dell’uomo
C’è una pace minima (cessate il fuoco), una pace media (scienza e arte nonviolenta e dinamica dei conflitti), una pace massima, piena, ultrastorica, data da Dio, ora ai cuori e ai desideri profetici, domani al mondo intero. La pace media è lavoro propriamente politico. Se si colloca solo nel terzo tipo il concetto di pace, come pura idea regolativa, si abbandona la politica alla guerra, col pretesto del realismo serio. È per questo che, più che di pace e pacifismo, è meglio parlare di nonviolenza attiva, di lotta con forze costruttive e non distruttive; è meglio scoprire la storia occultata delle molte lotte popolari nonviolente e fondare la politica sulla pace, suo primo criterio.
Certo, «la pace è un nome di Dio». Ma è anche un nome dell’uomo, sua immagine, che cammina nella storia. Senza questa pace storica, infatti, incompiuta ma in costruzione, emancipata da ogni debito castrante e fallimentare verso la guerra e la violenza, l’uomo non ha nome di uomo, non ha dignità, nega la sua vocazione umana.
Enrico Peyretti (3 febbraio 2004)
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