16 febbraio 2012 Il potere dei senza potere: le risorse della nonviolenza
12 02 16 SBPT Il potere dei senza potere: le risorse della nonviolenza
10 maggio
Lezione (ore 15.00) Elena Paciotti, Il potere politico. Tra stato e istituzioni sovra-statali
Seminario (ore 17.15) l potere dei “senza potere”: le risorse della nonviolenza
Introduce Enrico Peyretti
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Due temi che coincidono: si può sostenere che chi è senza “potere-potenza” ha il potere della nonviolenza? La nonviolenza è un potere?
I “senza-potere” (senza quale potere?) hanno un altro potere? quale? Non è pre-potenza, ma un potere sol-levatore, sov-versivo
Scheda Uno
Galtung: potere /economico, /militare, /politico, /mediatico, /culturale, /filosofico (trasmettere una concezione della realtà e dell'umanità), /sacro (di fonte trascendente),
+ immaginifico, spirituale, carismatico, fascinoso, artistico, poetico
che è o / liberante o / bloccante
< liberante (creatore di nuove immagini del possibile), p. es. potere dell'immagine alternativa: Aung San Suu Kyi che (nel film di Luc Besson) attraversa il muro di fucili come fosse nebbia: il potere del coraggio, forte della buona causa, annulla il potere repressivo e mortale dell'arma
< bloccante: l'esistente assolutizzato, ad-orato come unico possibile; t.i.n.a = there is not alternative
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Scheda Due
Potere = forza della vita, energia vitale, ma ambivalente: o / forza o / violenza
Due significati: 1) vitale, potenza ≠ 2) prevaricatore, pre-potenza
distinzione importante: forza ≠ violenza
< per non condannare la forza
< per non assolvere la violenza
la forza è vita, la violenza mette morte
la forza costruisce, la violenza distrugge
la confusione tra i due poli (zone sfumate in mezzo) serve a giustificare la violenza
forza pubblica, polizia, ha lo scopo di contenere e ridurre la violenza
la violenza militare (statale o privata) – cioè esercito e guerra - accresce la violenza perché la guerra premia non il diritto (se non per caso) ma la violenza maggiore, più spregiudicata
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Scheda Tre
la parola “potere”
in italiano è verbo e sostantivo: verbo ≠ sostantivo
< il verbo (io posso, tu puoi) indica una capacità di produrre effetti, una dimensione vitale, attiva, creativa, personale, capacità fisica o psichica o intellettuale
anche una relazione sociale: “io posso perché mi è riconosciuta/conferita la capacità e possibilità di fare, avere, agire, andare, parlare, pensare, ...”
< il sostantivo: quella facoltà è cosificata, è vista come un oggetto: lo scettro, la spada, la corona, .. che è “in mano” di chi “ha” il potere, oppure il luogo che significa dove “sta” il potere: il trono, il palazzo, la cattedra, .. ...
perciò, pensato così, il potere-cosa può essere “preso, conquistato, tolto, ...”, appunto come un oggetto
certo, ci sono strumenti del potere-oggetto: posizione di comando, ricchezza, prestigio, armi, …: sono a loro volta “cose” in cui si identifica il potere-cosa
< così pensato, è ancora il potere-oggetto, una cosa in mano a qualcuno
se chiamato “potenza” il potere diventa un soggetto, diventa qualcuno, si ipostatizza: si può dire “il re ha potere”, ma non si dice “la potenza Usa, o Cina, ha il potere”, perché la potenza è il potere, non più oggetto ma soggetto
< il potere-verbo inerisce alla persona = facoltà umana, di cui la persona ha responsabilità morale
il potere-cosa è accessorio della persona = più è grosso, più inverte il rapporto, rendendo la persona accessorio subordinato del potere (soldato accessorio del fucile), che ha suoi meccanismi e logiche: persona schiava del proprio potere, con cui si identifica
Lidia Menapace, mail del 13 febbraio 2012 - «Ero d'accordo, anche prima di leggere che Monica Lanfranco cita una mia vecchia (ma non abbandonata) opinione, e cioè che di solito per il maschile il Potere è un sostantivo che fa diventare assoluto un verbo, invece per le donne "potere" resta un verbo servile, significativo solo se in compagnia di una ulteriore specificazione:: poter dire, poter fare ecc.»
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Scheda Quattro
un'altra analisi (analoga alla distinzione verbo-sostantivo):
potere di, su, per, con
potere di = possibilità, capacità-abilità di produrre effetti, non-disabilità
potere su = su altri esseri umani, o anche sulle cose naturali o artificiali, o anche su animali, cioè = possibilità di far fare, o di impedire, di condizionare
potere per = l'uso generoso e non avido delle proprie possibilità. Criterio morale della politica: per sé o per tutti? Per chi ti premia p per chi ha bisogno?
potere con = condivisione del potere, delle possibilità; non “salire” al potere, ma far discendere il potere, distribuirlo; anzi, liberarlo, liberare le possibilità proprie di tutti, togliere gli ostacoli (art. 3 Cost.)
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Scheda Cinque
potere come diritto (di agire e influire): è derivato o originario? Attribuito, o spettante?
La persona è “diritto sussistente” (Rosmini) = diritti umani
non è il diritto oggettivo (la legge), positivo-posto, regola generale
neppure è un diritto soggettivo a possedere (jus utendi et abutendi), ad agire, a muoversi, ecc.
ma è dignità inerente alla persona, che è “degna” di rispetto; ha un valore a cui è dovuto un rispetto, inviolabilità
la dignità ha il potere di resistere alla violazione, che non la annulla, ma la fa risaltare: la persona uccisa continua a reclamare il suo diritto: Nietzsche “l'ucciso non si stacca da te”; uccidere non annulla, la vittima conserva un ruolo nella memoria, perciò nella realtà sociale
la “forza della verità” o “dell'anima” o “dell'amore”, il satyagraha gandhiano, è la coscienza di questa dignità non cedibile al potere che voglia imporsi sopra di essa, violarla
questa consapevolezza e coscienza è un vero “potere” indomabile, che sa anche morire, ma non si lascia spodestare; che può soccombere fisicamente, ma non soccombe come valore
nella fede cristiana l'esistenza di Gesù di Nazareth è riconosciuta talmente piena di dignità e di verità umana, di autenticità della forma umana di esistenza, che - amando “fino in fondo” (Gv 13) l'umanità bisognosa di bene e di verità – affronta, con la forza tutta positiva dell'amore vitale, l'opposizione-eliminazione feroce e mortale dei potenti smascherati,
e non resta soccombente al male che dà la morte, ma “risorge” (è glorificato; si rialza; vive pienamente; ha ragione; non è eliminato):
il che non significa tornare indietro alla vita comunque mortale, ma entrare in una nuova vita reale, libera, universale, spirituale, partecipabile,
vita che possiamo sperare se cerchiamo di seguire quel modello di esistenza donativa, amante fino a spendersi totalmente
che è un “potere” (έξουσία , exousia) vivificante
ma anche al di fuori della fede cristiana, la vittima per causa giusta, o innocente, pur se “violata” dalla violenza, conserva e mostra intatta la sua dignità, più solida della vita fisica
la dignità violata non è distrutta, ma esaltata e mostrata dalla violazione; è offesa, ma non abolita: la memoria delle vittime è l'affermazione e riconoscimento della loro dignità
non si doveva colpirla, ma resta in qualche modo invulnerabile, in una sfera di realtà dei valori superiore alla sfera dei fatti bruti
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Scheda Sei
“Potere dei senza potere” è la democrazia, nella misura in cui si realizza = potere di tutti quelli che non ce l'hanno già di fatto (non sono nati figli di re, né figli di ricchi, non “figli di qualcuno, hidalgos”;
i senza-potere nella democrazia hanno potere: è il potere del popolo, di ciascuno: ognuno è sovrano, insieme agli altri, nelle forme e nei limiti della democrazia costituzionale
il “potere dei senza potere” è il contrario del “potere di chi ha potere”
democrazia è la “possibilità di chi non ha possibilità”: art. 3 Cost, il “super-articolo” della democrazia = dare possibilità-potere
la democrazia toglie il potere-oggetto detenuto da alcuni, non per passarlo in altre mani, ma per distribuirlo a tutti come potere-verbo = possibilità, capacità
quando la democrazia non si realizza, o viene frustrata-manipolata, e corrotta, la situazione di “senza potere” si cronicizza, e si ha la “impotenza del cittadino”, frustrato irritato arrabbiato davanti agli abusi di potere:
allora i senza-potere sono davvero senza-potere, ma vengono ancora illusi di averlo, perché si mantengono le forme democratiche, ma svuotate di potere
Definizione del potere mascherato, data da Michel Foucault: «Azione che mantiene come “soggetto libero” colui sul quale essa si esercita». (Michel Foucault, Le sujet et le pouvoir, dans Dits et écrits, tome IV, Gallimard, Paris, 2001.)
la frustrazione del cittadino impotente è una pericolosa malattia civile perché può spingere o alla violenza, o all'affidarsi a qualche “uomo forte”
certo, la decisione democratica a maggioranza, non è matematicamente “di tutti”
è regola formale necessaria, perché nessuno possa pretendere che tutti adottino la sua proposta dal momento che egli la ritiene e vanta come la più giusta,
senza questa regola numerica ognuno vorrebbe imporre la sua proposta con la forza
eppure non è la quantità che fa la qualità, che fa giustizia: la maggioranza può sbagliare, la democrazia può suicidarsi dando il potere a Hitler
la giustizia sta nel valore della proposta, [[cioè che dia davvero a tutti la possibilità del “pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori [= cittadini attivi] all'organizzazione [e sviluppo umano] della società”]]
ma occorre, per evitare imposizioni, che il giudizio sul valore delle proposte sia condiviso dai più: tendendo al consenso generale, si accetta l'approssimazione che evita la violenza: “contare le teste invece di tagliarle”
E se la maggioranza democratica sceglie decisioni ingiuste?
1- si deve poter decidere di nuovo entro un tempo certo;
la democrazia scommette sulla correggibilità e ragionevolezza degli umani
2- resta libero il giudizio obbligante della coscienza. Don Milani: leggi giuste e ingiuste: «Non posso dire ai miei ragazzi che l’unico modo di amare la legge è di obbedirla. Posso solo dir loro che essi dovranno tenere in tale onore le leggi degli uomini da osservarle quando sono giuste (cioè quando sono la forza del debole) [cioè il potere di chi non ha potere]. Quando invece vedranno che non sono giuste (cioè quando sanzionano il sopruso del forte) essi dovranno battersi perché siano cambiate.
La leva ufficiale per cambiare la legge è il voto. La Costituzione gli affianca anche la leva dello sciopero. Ma la leva vera di queste due leve del potere è influire con la parola e con l’esempio sugli altri votanti e scioperanti. E quando è l’ora non c’è scuola più grande che pagare di persona un’obiezione di coscienza. Cioè violare la legge di cui si ha coscienza che è cattiva e accettare la pena che essa prevede. (…) . Chi paga di persona testimonia che vuole la legge migliore, cioè che ama la legge più degli altri.» (L’obbedienza non è più una virtù – Lettera ai giudici, Libreria Editrice Fiorentina, senza data, pp. 37-38).
la disobbedienza civile per obbedire alla coscienza – non alla convenienza! (v. oggi la Lega) perciò a favore di altri svantaggiati, non a favore proprio! E accettando la pena prevista, come Socrate, in omaggio alla legge disobbedita e rispettata nello stesso momento - è un contributo alla legge, cioè la avvicina ad essere la “forza del debole”, il “potere dei senza-potere”
Dossetti proponeva alla Costituente il diritto di resistenza
la minoranza, le minoranze hanno vera funzione democratica, non di decidere, ma di far pensare come sarà meglio decidere
il potere non è solo di chi vince coi numeri: questi lo ha e lo esercita, ma è discutibile e opponibile, in cerca di un altro diverso migliore consenso
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Scheda sette
ma basta la democrazia?
Capitini, Pontara: “aggiunta” alla democrazia è la nv
l'opposizione in democrazia deve essere nonviolenta, è anche lotta ma nonviolenta
Anche in democrazia c'è spesso in molti un retro-pensiero: la democrazia va bene fin quando io posso affermare le mie scelte; se non posso, ricorro a violazioni della regola: dai brogli elettorali, alla corruzione, alla disinformazione, alla strategia della tensione; al crimine politico... per strappare i consensi mantenendo apparente la regola democratica e la libertà dei cittadini
< all'interno: il patto democratico richiede lealtà nell'escludere la violenza: se manca lealtà, una qualche forma di violenza, aperta o subdola, prevarica sul diritto di tutti
Capitini indicava la “onnicrazia”, il potere di tutti, come orizzonte di compimento della democrazia, mediante il massimo di partecipazione e di condivisione delle decisioni, non mediante i partiti, ma i “centri” di orientamento sociale
L'onnicrazia «resta un'esigenza intima da affermare più che un articolarsi di procedure»; non utopia se non come “utopia concreta” (G. Fofi), o profezia in atto (Polito, L'eresia di Aldo Capitini, Stylos, Aosta 2001, pp. 133, 142)
< all'esterno: ci sono democrazie bellicose e imperialiste, che non escludono la violenza esterna; questa ormai è una contraddizione che inficia la democrazia stessa, se non rispetta l'universalità dei diritti umani
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Scheda otto
La lotta nonviolenta esige efficacia
quali sono le risorse della nonviolenza?
«La nonviolenza –ha scritto Gandhi– appare nella sua vera e più profonda natura quando viene opposta alla violenza»1. Cioè, non è solo regola interna alla democrazia, ma vuole valere anche dove c'è violenza. Vuole essere opposizione nonviolenta alla violenza
È giusto esigere efficacia da chi propone la nonviolenza nei conflitti umani. L’astenersi dal fare violenza è il minimo di una vita umana moralmente decente. Se la nonviolenza vuole proporsi 1) come opposizione ai metodi armati della pre-potenza ingiusta, e anche 2) come sostituzione dei metodi armati usati per fini giusti, allora 3) deve promettere un’efficacia almeno pari a quella che si attende solitamente dalle armi.
La nonviolenza è la scelta fondamentale di un atteggiamento attivo, positivo, per sostituire nelle relazioni umane ogni comportamento offensivo e distruttivo con comportamenti rispettosi e costruttivi, e questo anche e proprio nei conflitti più acuti, anche e proprio quando si pensa di avere ragione contro il torto dell’avversario.
L'esigenza di nonviolenza viene certamente / dalla esigenza morale, cioè dal dovere di qualità umana e non disumana sia dell'azione sia dell'agente. Ma l'esigenza di nonviolenza viene anche / dalla esigenza pratica, che il risultato dell'azione sia il più possibile puro da violenza, dato che mezzi violenti, anche “a fin di bene”, immetterebbero violenza nel risultato, perché tra mezzi e risultato – dice Gandhi – intercorre lo stesso nesso stretto e necessario che corre tra il seme e l'albero.
Quindi occorrono tecniche nonviolente efficaci. Però, questa ricerca non può cadere in una razionalità strumentale, efficientistica, settoriale, per la quale la ragione e le sue capacità sono trattati come strumenti per ottenere un risultato.
Invece, le tecniche nonviolente sono azioni della ragione globale, valoriale e critica, che intende realizzare visioni e valori mediante rispetto, cura, amore. L’ossessione dell’efficienza immediata e totale è ingannevole, porta al cortocircuito della violenza, brucia i tempi della vita e forza la realtà, e così compromette il futuro.
Maurice Merleau-Ponty: «La regola dell’azione non è […] l’efficacia a ogni costo, ma anzitutto la fecondità»2.
Infatti, osserva Michael Nagler: «La nonviolenza non sempre funziona, ma è sempre efficace; anche la violenza non sempre funziona, ma non è mai efficace» (Per un futuro nonviolento, Ponte alle Grazie, Milano 2005, p. 132).
Funzionare = ottenere un risultato sicuro e rapido, spesso breve e insicuro.
Efficacia = seminare frutti profondi di metodi umani nel tempo lungo successivo.
Perciò, chi fa l’opzione nonviolenta si pone problemi pratici: come agire nei conflitti senza fare violenza, come lottare per le cause giuste con metodi che non duplichino la violenza altrui, e siano alternativi rispetto ai mezzi violenti giustificati da altri con il perseguire un fine giusto, ma, con tutto ciò, ottenere il fine giusto cercato.
Cardine dell’etica e della politica nonviolenta è il nesso inscindibile tra la qualità dei mezzi, le forme dell’azione, e la qualità del risultato. L’intenzione può essere la più giusta del mondo, ma è da vedere se il risultato effettivo è altrettanto giusto. Se lo scopo è riconosciuto giusto – con coscienza fallibile e sempre correggibile – occorre cercare mezzi giusti ed efficaci
Insieme al lavoro interiore, di acquisto della padronanza di sé, sperimentata continuamente da ciascuno nei piccoli o grandi conflitti della vita quotidiana; insieme alla indipendenza profonda dal conformismo nei metodi di azione; insieme soprattutto all’emancipazione dall’ideologia della violenza come legge della storia; insieme alla fiducia nel valore ineliminabile della testimonianza del valore, abbia o no pronto successo nel conflitto; insieme a tutto ciò, chi sceglie la nonviolenza sceglie la lotta, niente affatto la rassegnazione all’ingiustizia. E, scegliendo di lottare, incontra subito, come problema centrale, la decisione sul tipo di mezzi dell’azione, sulla loro elaborazione, affinamento, articolazione, efficacia.
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Alcuni autori: Gene Sharp, Aldo Capitini, Jacques Semelin, Gandhi, Anna Bravo,
Scheda otto : SHARP
Teoria del potere e tecniche di lotta nonviolenta, da Gene SHARP, il “machiavelli” della nonviolenza.
Il “potere” dipende dall'obbedienza. Anche il più duro e cosificato potere degli uni sugli altri consiste in definitiva nell'essere obbedito (Gene Sharp, Politica dell'azione nonviolenta, 3 volumi, vol 1, cap. 1, Ega, Torino 1986 e anni seguenti): o per convinzione, o per paura, o per interesse. Non appartiene completamente a chi lo detiene. È sempre una relazione.
La disobbedienza al potere ingiusto - con la forza dell'unità (ma anche cominciando da uno o da pochi), e con costanza, nonostante i costi anche cruenti – svuota e distrugge il potere senza dover colpire gli uomini del potere nella loro vita e nei loro diritti umani, per «non essere come loro». La coscienza libera e consapevole condiziona il potere senza usare violenza. «La coscienza è il vero potere di tutti» (David Turoldo). Il comando cade nel vuoto creatogli dalla libera coscienza umana se non trova obbedienza.
Un popolo consapevole dei diritti umani possiede la “bomba no”: il no all'ingiustizia, che rende vani i comandi ingiusti. La forza umana che non si corrompe nella disumanità della violenza sta nella coscienza della dignità di ognuno, dignità propria e altrui, anche di chi non l'ha rispettata, che deve vederla rispettata in sé colpevole, per richiamarlo all'umanità: il tiranno non va massacrato come Gheddafi o Mussolini, ma reso di nuovo semplice cittadino, che renda conto dei suoi atti.
Chi non usa il potere di colpire e non ha il potere di imporsi, ha il potere umano della dignità, da attuare in libertà e giustizia, che resiste all'ingiustizia e può smontarla .
La nonviolenza – non come mera astensione dal fare violenza, ma come affermazione di diritto e dignità non falsificate dalla violenza – è resistenza e lotta dei “senza potere”, ovvero dei “senza potere offensivo, violento, ma col potere della verità umana, del diritto-dignità”. Questo è potere “di”, potere “con”, potere “per”, non è potere “su”.
Ma c'è la “pressione nonviolenta”: è violenza? È coazione? Se, con la forza dell'unità e della resistenza che soffre senza colpire, si rende più conveniente al potente venire a compromessi
Un ampio lavoro sulle tecniche di lotta nonviolenta è il secondo dei tre volumi di Gene Sharp, Politica dell'azione nonviolenta3: Nel vol. II, Le tecniche, Sharp elenca 198 tecniche (un numero aperto, ovviamente) che non ha immaginato a tavolino, ma osservato nella storia di tutti i tempi e luoghi4. Per ognuna di queste tecniche, egli colleziona diversi casi storici; si tratta dunque di una raccolta, pur sommaria, di molte centinaia di realtà storiche di nonviolenza attiva in luogo della guerra o di altre violenze. Un elenco è in appendice all’edizione italiana.
Indico le maggiori categorie individuate dall’Autore: Protesta e persuasione nonviolenta; Noncollaborazione, distinta in sociale, economica, politica; Intervento nonviolento. Nel primo gruppo troviamo: Dichiarazioni formali; Forme di comunicazione rivolte a un pubblico più vasto; Rimostranze di gruppo; Azioni pubbliche simboliche; Pressioni sui singoli individui; Spettacoli e musica; Cortei; Onoranze ai morti; Riunioni pubbliche; Abbandoni e rinunce. Ognuno di questi sottogruppi comprende singole forme di azione, da tre o quattro a una dozzina, individuate da Sharp nella storia. Sotto la noncollaborazione economica, per esempio, troviamo ancora due grandi sottogruppi, a loro volta molto articolati: i boicottaggi economici e gli scioperi.
Rimando al libro per vedere tutte le 198 diverse tecniche rintracciate nell’esperienza: si tratta evidentemente di un elenco aperto, che i fatti integrano continuamente, che ovviamente può essere discusso e corretto, emendato qui o là, ma che resta comunque indicativo della ricchezza di fantasia, concretezza e coerenza delle lotte nonviolente nella storia.
E come mai tanta esperienza di mezzi nonviolenti non è arrivata a caratterizzare più ampiamente la politica, le lotte sociali, il pensiero teorico sui conflitti umani? Jean-Marie Muller scrive: «Bisogna ben riconoscerlo, quelli che affermano la necessità della violenza, generalmente non hanno mai provato la nonviolenza. Una cosa è dire: bisogna ricorrere alla violenza il meno possibile; altra cosa è dire: bisogna ricorrere alla nonviolenza il più possibile. Se l’uomo non si prepara a mettere in atto i mezzi dell’azione nonviolenta ogni volta che è possibile, allora la violenza sarà ogni volta necessaria. Non si può fare davvero risparmio di violenza se non facendo risolutamente la scelta della nonviolenza. Il risparmio di violenza non è possibile che nella dinamica della nonviolenza»5.
Sharp: Ostacoli alla conoscenza dell’azione nonviolenta nella storia
+ Nel vol. I, Potere e lotta, Sharp propone sette ipotesi per spiegare perché gli storici hanno per lo più trascurato e ignorato (se non occultato) questo genere di lotte (cap. III, pp. 133-136). Ecco alcune delle sue spiegazioni: 1) il pregiudizio della società in cui gli storici vivono, secondo cui la violenza è il solo modo veramente efficace di lottare; 2) il loro legame, in certi casi, con gruppi di potere e sistemi oppressivi, di cui si preoccupano di salvaguardare gli interessi, perché far conoscere forme di lotta utilizzabili da persone senza armi sarebbe come istruire il popolo a un metodo praticabile da tutti contro i dominatori (in effetti, le tecniche nonviolente valgono per la difesa popolare dalla sopraffazione interna a un determinato sistema politico, e non solo, come le tecniche militari, per i conflitti esterni guidati da chi ha il potere, e quindi sono temute e possibilmente occultate da questi).
Come ogni nuova concezione scientifica o sociale deve solitamente attendere vario tempo per essere accettata, così la gestione nonviolenta dei conflitti, la sua natura e le sue potenzialità, hanno bisogno di tempo per essere scoperte e accettate. Fino a poco tempo fa, non esisteva alcun sistema concettuale per raggruppare come esempi di lotta nonviolenta casi storici verificatisi in tempi e luoghi i più diversi della storia umana, apparentemente separati e scollegati, di cui non si scorgeva un comune metodo di azione; quando la violenza fallisce, si tende a vederne la causa in specifici fattori e carenze, e non al metodo in se stesso, mentre quando la nonviolenza fallisce o ha risultati limitati, si condanna integralmente come impotente questo metodo, a causa del suddetto pregiudizio diffuso.
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Scheda nove : CAPITINI
+ Aldo Capitini (1899-1968), il filosofo e pedagogista che introdusse in Italia il pensiero nonviolento, per primo nel nostro paese cercò di individuare le tecniche dell’azione nonviolenta studiata e sostenuta da Gandhi6. Dal suo pensiero si coglie subito come per lui «la questione della prassi non sia riducibile a un fatto tecnico, organizzativo, e tanto meno a una ricerca di potenza da esercitare in nome di supposti fini superiori di bene». Pur interessandosi proprio degli aspetti operativi e tecnici dell’azione nonviolenta, pur mentre riferisce esperienze pratiche e istruzioni altrui, Capitini «non ha voluto presentare alcun manuale operativo, tattico o strategico. Piuttosto, ha insistito sulla natura e sulla qualità dell’azione nonviolenta. Per lui, secondo l’insegnamento di Gandhi, la pratica della nonviolenza è amore in atto»7.
Il primo capitolo del suo Le tecniche della nonviolenza (nell’edizione del 1967) tratta della «coincidenza» di mezzi e fini. «Per Gandhi i mezzi sono più che strumentali, sono creativi, costruttivi già di per se stessi» (p. 13). «La cosa fondamentale non è la conoscenza del metodo come il possesso di uno strumento, ma ciò che è nell’animo, cioè l’apertura allo spirito della nonviolenza» (p.10). Capitini tratta quindi del Satyagraha (vedi oltre), nome del metodo nonviolento usato da Gandhi, il «contributo massimo» che Gandhi ha dato8.
Tecniche nonviolente individuali ci sono sempre state, sicché si può veramente dire, contro le impressioni superficiali dovute al clamore delle violenze, che «la storia dell’uomo è una lunga marcia verso una luce, una libertà, una mitezza più grandi. […] Se la competizione ha alcune volte portato avanti la causa del progresso, la cooperazione è stata fondamentale per la sopravvivenza della specie» (p.15)9. «Ma Gandhi ha decisamente preso la nonviolenza dall’esperienza soltanto individuale e ne ha fatto un metodo per moltitudini», alla luce della «influenza formidabile» che esercitò su di lui ancora bambino un verso di una poesia del Gugerat: «La vera bellezza consiste nel ricambiare il male con il bene», specie dopo avere ritrovato questo principio nell’evangelico Discorso della Montagna, nelle Bhagavad Gita, e definitivamente in Il Regno di Dio è dentro di te, di Tolstoj (p. 16)10. Da virtù personale, sempre esistita, «antica come le montagne», Gandhi ha fatto della nonviolenza una virtù politica, una possibile azione storica.
Capitini su Gandhi e il Satyagraha
La forza di queste ispirazioni è appunto il Satyagraha, cuore del nuovo metodo, che supera la resistenza passiva, ed è qualcosa di fortemente attivo e positivo. Gandhi lo spiega come «la Forza che è generata da Verità e Amore» (p. 18)11. Capitini continua esponendo ampiamente la concezione gandhiana della Verità, e mostrando che questo è un metodo per tutti, come prova l’esperienza contemporanea di Martin Luther King. Dunque, come si vede, non si tratta di dovere semplicemente applicare regole pratiche, ma di acquisire un metodo sostanziale di azione costruttiva, a rimedio della distruttività.
Capitini espone dodici Tesi sulla nonviolenza (pp. 29-34) riassuntive del suo pensiero ormai maturo. Anche qui si tratta ancora di capire, di entrare nella realtà antica e nuova della nonviolenza. Capire l’essenziale per potere viverlo è qualcosa di pratico, è un fare, ma non è certo applicare meccanicamente formule tecniche come ricette. «Se si sceglie la nonviolenza, cioè l’apertura incessante all’esistenza, alla libertà, allo sviluppo di tutti gli esseri, sta poi alla tecnica (giuridica, amministrativa, sociologica, ecc.) trovare i modi della sua attuazione. […] L’importante è rendersi conto che la scelta è fatta per un principio» (p. 31).
Il metodo di lotta nonviolenta creato da Gandhi «è fondamentalmente un principio etico, l’essenza del quale è una tecnica sociale di azione». Con questa parole (prese dal libro citato di Joan V. Bondurant), Capitini introduce il terzo capitolo La nonviolenza come rivoluzione permanente (questo termine si poneva come alternativo a uno slogan del comunismo cinese, corrente in quegli anni). L’indicazione capitiniana essenziale è la creazione di «centro al livello delle moltitudini», che corregge ogni potere accentrato ed escludente; è il potere e controllo dal basso, o democrazia diretta, quella che chiamerà poi «onnicrazia, o potere di tutti»12. «Per il problema sommo che è il potere, cioè la capacità di trasformare la società e di realizzare il permanente controllo di tutti, bisogna che l’individuo non resti solo, ma cerchi instancabilmente gli altri, e con gli altri crei modi di informazione, di controllo, di intervento. Ciò non può avvenire che con il metodo nonviolento» (p. 39). «La sintesi di nonviolenza e di potere-di-tutti dal basso diventa così un orientamento costante per le decisioni nel campo politico-sociale» (p. 40).
Se guardiamo il programma costruttivo di Gandhi, notiamo anzitutto che per lui esso ha la massima importanza, come azione sociale, rispetto alle lotte di opposizione politica: «Se la disobbedienza civile non è accompagnata da un programma costruttivo, è un atto criminale e una dispersione di energie, […] è soltanto una bravata ed è peggio che inutile»13. Poi, guardandone i contenuti, gli undici punti precisi che Gandhi individuò fino dal 1909, vediamo che sono tutti obiettivi di risanamento sociale: riconciliazione religiosa, abolizione della intoccabilità come primo passo verso l’abolizione delle caste, lotta all’uso di alcol e droghe, lavoro manuale per l’indipendenza economica e la dignità del capitale umano, la piccola industria di villaggio, l’educazione di bambini e adulti, la parità tra i due sessi, miglioramento fisico e psichico mediante la «semplicità volontaria», propagazione della lingua nazionale, promozione dell’uguaglianza economica come condizione per una società nonviolenta14.
Un codice di disciplina
+ Una costante di queste lotte è la presenza di regole fondamentali, un vero codice di disciplina, e della previsione di gradi o fasi della contesa, invariabili nei diversi casi. Al combattente satyagrahi era richiesto anzitutto un impegno scritto, una specie di voto solenne, da inviare alla Commissione del Congresso per il satyagraha. Chi firma questa promessa si impegna a restare nonviolento nelle parole e nelle azioni, a credere nell’unità di tutte le componenti etniche e religiose dell’India, a rimuovere «il male dell’intoccabilità» e a «rendere servizio alle classi sommerse», a praticare il lavoro manuale per l’indipendenza economica dell’India dagli inglesi, ad eseguire le istruzioni di chi guida la lotta «non incompatibili con lo spirito di questa promessa», si dichiara «preparato a soffrire l’imprigionamento o anche la morte per questa causa e per il mio Paese, senza risentimento»15.
+ Le regole fondamentali di una campagna satyagraha si basano sulla distinzione tra forza e violenza: la forza nonviolenta costringe l’avversario senza offenderlo, conquistandone l’animo con la capacità di soffrire piuttosto di far soffrire lui, rendendogli meno costoso l’accordo che l’ostinazione. Quelle regole possono essere indicate così: / autosufficienza del gruppo; / mantenere l’iniziativa nelle mani dei satyagrahi; / diffondere gli obiettivi, strategie e tattiche della campagna; / richiedere il minimo coerente con la verità; / avanzamento progressivo e graduale del movimento; / esame delle debolezze interne al gruppo; / ricerca continua di cooperazione onorevole con l’avversario; / disponibilità al compromesso su punti non essenziali e rifiuto di cedimento sui punti essenziali; / insistere per un pieno accordo sui fondamenti prima di accettare una soluzione. / In sintesi: verità, nonviolenza, accettazione della propria sofferenza.
Gandhi stesso precisò il «codice di disciplina» durante le campagne del 1930, che prescriveva: / non nutrire alcuna rabbia, ma soffri per la rabbia dell’oppositore e non restituire i suoi colpi; / non sottometterti ad alcun ordine dato nella rabbia; / astieniti da insulti e provocazioni; / proteggi gli oppositori da insulti e aggressioni, anche a rischio della vita; / non resistere all’arresto né all’attacco alla proprietà (a meno che tu non ne sia amministratore fiduciario: allora difendila a rischio della vita); / se fatto prigioniero, comportati in modo esemplare; / obbedisci agli ordini dei leader del satyagraha e dimettiti dall’azione in caso di serio disaccordo.
Tu-tutti
Per Aldo Capitini, la tecnica nonviolenta è soprattutto un fatto di spirito e di pensiero: «La prima tecnica nonviolenta da esaminare è quella del tu, del rivolgersi con l’anima e con l’azione a ogni singolo individuo, in modo da interiorizzarlo, da sentirlo come prossimo, come sé stesso. Anzi, l’atteggiamento è tanto importante che lo si può vedere come più che una tecnica, ma la premessa di molte tecniche, un orientamento dell’animo» (p. 46). Con l’«atto del tu», anzi del tu-tutti, siamo nel cuore della filosofia di Capitini: questo pensare è già atto pratico. Egli vi si sofferma citando Gesù Cristo, Ernesto Buonaiuti, Guido Calogero, lo estende poi alla zoofilia e al vegetarianesimo, ascoltando Buddha, i Jainiti, l’imperatore Asoka, san Francesco, Piero Martinetti (di cui cita La psiche degli animali16), la Carta internazionale degli animali (Delhi 1953) che riporta da una pubblicazione della Società vegetariana italiana (pp. 47-55).
+ «Una delle tecniche fondamentali della nonviolenza verso gli esseri umani è il superamento della vendetta e del risentimento»: la vera tecnica continua a essere un atto interiore pratico. Le voci qui richiamate sono quelle di Socrate nel Critone, del profeta Isaia, la tradizione indiana, il vangelo, san Paolo e san Francesco, Tolstoj e Gandhi, Richard Gregg, autore di Il potere della nonviolenza17 (pp. 55-59).
+ Atti di questo rispetto religioso verso il tu, sono la preghiera, la persuasione (qui cita Giovanni XXIII, Calogero e Socrate), il dialogo (dove ricorda un grande atto coraggioso di padre Gauthier, prete-operaio, p. 64), l’esempio, il digiuno (riferendo parole di Danilo Dolci e di Gandhi), la croce di Cristo, l’autoincendio religioso (dei monaci buddhisti in Vietnam, e vi riflette per comprenderlo), la pietà verso i morti (porta per esempio la storia del film giapponese di Kurosawa, L’arpa birmana) (pp. 59-70).
+ Venendo sempre più ad azioni pratiche, Capitini le pone sotto il principio della noncollaborazione, della quale scrive che «non esclude il mantenimento di un rapporto di amicizia, di amore, di vicinanza. […] Cioè, la noncollaborazione non è totale, non esclude il tu, l’altro, l’unità con tutti, il tu-tutti; ma esclude semplicemente di dare il proprio aiuto all’attuazione di una cosa che non si accetta». Essa «così realizzata, viene a essere una specie di sollecitazione all’altro […], si può dire che è una noncollaborazione collaborante […], dà all’avversario un contributo che può avvertirlo e anche persuaderlo; e questa vicinanza all’altro compensa quella certa freddezza che potrebbe apparire nel rifiuto della collaborazione» (pp. 71-72). Esempi sono Martin Luther King, l’opposizione al fascismo durante il ventennio, Antigone («Io non sono nata per condividere l’odio, ma per condividere l’amore»), gli insegnanti statunitensi che rifiutano di addestrare gli allievi a una falsa difesa nucleare.
+ Obiezione di coscienza
Appunto l’obiezione di coscienza al servizio militare è il mezzo d’azione trattato successivamente. Essa «si fonda su due tipi di ragioni. Il primo tipo è di non riconoscere a nessuno e nemmeno allo Stato il diritto di costringere un uomo ad agire contro la propria coscienza. Il secondo tipo è di porre come superiore al potere dello Stato il rapporto amorevole con tutti gli esseri umani, nessuno escluso» (pp. 77-78). Capitini ricorda l’obiezione antica di san Massimiliano18, quella dei terziari francescani (laici chiamati alle armi, difesi dal papa nella loro obiezione) nel 1221 a Rimini: «Noi non possiamo combattere né portare le armi, sia di offesa che di difesa, perché noi vogliamo la pace con gli uomini e con Dio, conquistandola con opere di bontà, trasformando il male che è nel mondo in bene».
Capitini ricorda poi le minoranze cristiane nonviolente, e specialmente i Quaccheri, poi il Movimento Internazionale della Riconciliazione19 e la War Resisters International20, nati rispettivamente prima e dopo la prima guerra mondiale. Ricorda ancora Pietro Pinna, primo esplicito obiettore italiano, incarcerato nel 1949: la prima legge che riconosce l’obiezione e istituisce il servizio civile sostitutivo del militare si avrà in Italia solo nel 1972. Ammira l’apertura mentale del ministro degli esteri norvegese Halvard Lange, e cita la lettera di don Milani ai cappellani militari (11 febbraio 1965)21. Conclude sull’obiezione di coscienza: «Non ci sono leggi o istituzioni che possono farla contenta se non quelle che per sempre sostituiscano efficacemente il modo bellico di regolare i conflitti» (pp. 78-90).
+ Marce, scioperi, boicottaggi
Tra le tecniche collettive, Capitini indica la vita interna e l’azione esterna delle comunità nonviolente (terziari francescani; Comunità dell’Arca, fondata da Lanza del Vasto), poi le marce per la pace, dimostrative e nonviolente: sono «comunità momentanee e in movimento»; la marcia «manifestazione dal basso, al livello minimo, che tende a comprendere tutti, è assolutamente nonviolenta, cioè priva di armi e opposta perciò alla sfilata militare». «La marcia è il simbolo della moltitudine povera, che sa di essere nel giusto, che accomuna volentieri tutti». Ne riferisce realizzazioni diverse, in diversi paesi (Germania, Giappone, India e Cina, Canada, Stati Uniti, Cuba, Spagna), poi parla naturalmente della Perugia-Assisi, da lui stesso promossa nel 1961 con il Centro di Perugia per la nonviolenza, il quale «invitò a prender parte persone e associazioni politiche e religiose di ogni tendenza, e pose come condizione non la propria ideologia, ma l’assenza di ogni fatto o accenno violento per quelle ore» (pp. 98-107).
Questo tipo di azione è diverso dalla manifestazione cittadina, pur giusta ed efficace in certi momenti, che ha forma di corteo, dal simbolismo quasi marziale, più facilmente abusata e rovinata da elementi violenti, dei quali poi quasi unicamente riferiscono gli organi di informazione. La marcia fuori città, realizzata nei nostri anni in forme varie, meno vistose e clamorose, è piuttosto un cammino da una località significativa a un’altra, simbolo più mite di un percorso anche interiore di trasformazione personale e politica verso la pace22.
Altre forme di lotta nonviolenta sono lo sciopero (esperienze di Danilo Dolci in Sicilia) nelle sue varie forme, fino allo hartal gandhiano (anche a Budapest nel 1956); il boicottaggio economico, «tecnica prettamente nonviolenta del principio di noncollaborazione», realizzato da Gandhi (produzione artigianale per non acquistare i tessuti inglesi) e da Martin Luther King (non uso dei bus pubblici). Ma riguardo al sabotaggio (danno o distruzione contro il funzionamento di un servizio o di un’industria, oltre il limite della legalità), si chiede Capitini: «È una tecnica della nonviolenza?». È una misura estrema –risponde– la quale esige che il danno procurato sia inferiore al danno apportato dal funzionamento di quel servizio, e che non vi sia nessun rischio per esseri viventi, particolarmente umani. «Nessuno può sostenere che rendere inefficiente un meccanismo o un servizio disposto da oppressori o invasori per tormentare o uccidere persone, non sia lecito anche a un nonviolento». Così, antimilitaristi o familiari dei soldati hanno ostacolato la partenza di treni per la guerra (pp. 107-112). Azioni simili, in anni recenti, contro il transito in Italia di treni di armi per le nuove guerre, sono state assolte in tribunale.
«Nelle azioni nonviolente collettive è necessaria la pubblicità delle iniziative». Capitini fa risalire questa regola gandhiana mirante a ridurre nell’avversario paura e dunque violenza, al dovere civico, propugnato da Kant (in Che cos’è l’illuminismo?), di contribuire, con l’uso pubblico della ragione, al miglioramento della società. Così, ogni gruppo, pur addestrandosi alle lotte nonviolente, deve rendersi utile con un continuo servizio sociale alla comunità, senza cercare potere o prestigio a ogni costo, ma dimostrando fiducia nella coscienza di tutti che possa comprendere la giustizia di una causa (pp. 112-114).
+ Disobbedienza civile
La disobbedienza civile si distingue chiaramente dalla noncollaborazione. Questa «non esce dall’ambito della legalità e ha un carattere di rinuncia a ciò che lo Stato può dare». La disobbedienza civile, invece, «infrange la legalità, senza tuttavia attentare alla vita, o all’onore di alcuna persona». Essa «può essere difensiva, rivolta contro leggi ingiuste: per esempio, in uno Stato che neghi la libertà di associazione, formare corpi di volontari nonviolenti». «La disobbedienza civile di attacco è disobbedienza volontaria, è una rivolta contro lo Stato oppressore». (Capitini, Le tecniche della nonviolenza, Feltrinelli 1967, pp. 114-118; ripubblicato Linea d'ombra 1989 e Edizioni dell'Asino 2009)
Può accadere che qualcuno faccia un uso che non è nonviolento della disobbedienza ad una legge o ad un ordine che si sente ingiusto. Mi pare che la discriminante sia ciò che si intende difendere con questo mezzo di lotta: se si difende un interesse o vantaggio particolare, oppure un diritto e un bene di altri, di tutti. Il primo caso è la disobbedienza fiscale (ora minacciata dalla Lega Nord) col rifiuto di pagare un tributo perché troppo gravoso. Il secondo caso, assai diverso, è l'obiezione di coscienza palese e dichiarata a versare la quota dei propri tributi che va in spese militari, perché in questo caso si cerca di tutelare un diritto altrui e, con il pignoramento, si paga all'erario una somma anche maggiore, con sacrificio personale, mentre si chiede il diritto di optare coi propri tributi, senza nulla sottrarre, tra difesa militare e difesa civile.
Capitini chiama la disobbedienza civile con il termine gandhiano Satyagraha (forza che viene dalla fedeltà alla verità), prevede ben nove fasi successive:
- tentare anzitutto trattative e accettare un arbitrato;
- esaminare bene i motivi dell’azione, esercitarsi all’autodisciplina, anche con un digiuno purificatore, considerare bene le procedure, la situazione dell’avversario, l’opinione pubblica;
- svolgere un’attiva campagna di propaganda;
- rivolgere un ultimo forte appello all’avversario, spiegandogli le fasi ulteriori dell’azione e offrendogli una via d’uscita dignitosa e costruttiva;
- iniziare boicottaggi e scioperi;
- azioni di noncollaborazione alle pubbliche istituzioni;
- scegliere bene quali leggi disobbedire;
- preparare le funzioni di governo alternativo, cioè un Satyagraha affermativo;
- sviluppare tali funzioni, renderle così solide da ottenere la cooperazione della popolazione.
Si tratta di fasi successive nell’azione gandhiana, ma anche di regole di questa azione, che gli studiosi hanno estratto dalle lotte di Gandhi, formulandole in modi diversamente dettagliati, ma sostanzialmente coincidenti 23.
«Ogni lotta per la giustizia passa per la prova di cinque tappe: l’indifferenza, il ridicolo, la calunnia, la repressione, il rispetto»:24 Capitini sottolinea che la lotta nonviolenta «poggia principalmente non sulla quantità, ma sulla qualità, sulla forza dell’anima (che può essere anche in donne e ragazzi), sulla padronanza di sé, sullo spirito di sacrificio, insomma sul valore morale di ciascun combattente». Insiste poi sulla persistente ricerca di un accomodamento onorevole con l’avversario, senza alcun trionfo, sul rifiuto di cedere sull’essenziale, sulla necessità di controllare bene lo stato d’animo dei combattenti nonviolenti, sul non nutrire mai astio o collera, né usare insulti, sul comportarsi in modo esemplare in caso di arresto. Questo metodo gandhiano si è diffuso nel mondo, più che nell’India stessa (pp. 114-118).
SEMELIN
Senza armi di fronte a Hitler
Il libro di Jacques Semelin, Senz'armi di fronte a Hitler25 studia la resistenza civile al dominio nazista in Europa. È particolarmente importante che l’obiettivo di queste lotte fosse il potere militare nazista, cioè la forma più violenta che abbiamo conosciuto nell’età contemporanea. Se resistenze nonarmate e/o nonviolente hanno potuto sorgere come riscatto di dignità e con speranza di riuscita, se hanno potuto contenere quel terribile potere, imporgli restrizioni, frustrarne almeno alcuni obiettivi, ciò significa che se la nonviolenza diventasse cultura politica e strategia, se disponesse di un centesimo dei mezzi economici e organizzativi e simbolici di cui dispone la difesa statale armata, militare, costruita per uccidere vite umane, la difesa nonviolenta potrebbe diventare anche la forma istituzionale con cui una società politica si difende dalle aggressioni tanto esterne quanto interne.
Questa osservazione non è annullata dalla abituale obiezione che Hitler è stato vinto dalla guerra degli stati democratici e non dalle resistenze nonviolente. Questo è vero (senza dimenticare il contributo di queste lotte) sul piano semplicemente fattuale, ma rimangono ben aperte due domande: una diversa cultura della politica, dei conflitti e della difesa non avrebbe potuto contrastare e impedire la violenza di Hitler fin dall’inizio con mezzi alternativi, anziché quegli stessi usati da lui, le armi e la guerra, cioè l’uso della morte? La vittoria su Hitler mediante la guerra, certo da lui provocata, ma accettata dalle democrazie come unico piano possibile di confronto, non ha trasmesso alle democrazie stesse quel virus bellico e quel distruttivismo che era l’essenza del nazismo e a cui le democrazie non hanno saputo essere radicalmente alternative?
Alla fine del suo lavoro, Semelin raccoglie gli esempi storici citati classificandoli secondo le forme di resistenza e di lotta. Forme generali sono: il lavoro al rallentatore, la stampa clandestina, l’infiltrazione delle amministrazioni.
Le mobilitazioni di popolazioni comprendono le manifestazioni, gli scioperi, la disobbedienza civile di massa, movimenti particolari di resistenza professionale (medici olandesi, insegnanti norvegesi, l’insegnamento clandestino in Polonia).
Una categoria di azioni particolarmente significativa comprende i movimenti di solidarietà e assistenza agli Ebrei perseguitati, in Francia, Belgio, Danimarca, Paesi Bassi, Bulgaria. Sul caso danese, il più efficace di tutti nel salvare il 95% degli ebrei di quella nazione, è noto il giudizio di Hannah Arendt (a parte l’improprietà del vecchio nome di «resistenza passiva» per un’azione nonviolenta di massa altamente attiva e organizzata): «Su questa storia si dovrebbero tenere lezioni obbligatorie in tutte le università in cui vi sia una facoltà di scienze politiche, per dare un’idea della potenza enorme della nonviolenza e della resistenza passiva, anche se l’avversario è violento e dispone di mezzi infinitamente superiori»26.
Le mobilitazioni istituzionali si attuarono in proteste (responsabili delle chiese della Germania, Paesi Bassi, Bulgaria, Francia, Belgio, associazioni norvegesi, politici e intellettuali della Bulgaria, organi giudiziari del Belgio), in forme di noncooperazione limitata (opposizione alla persecuzione e deportazione degli Ebrei, da parte degli stati danese, finlandese, italiano, rumeno, ungherese; consegna ai tedeschi delle navi danesi dopo averle rese inutilizzabili; resistenza parziale della corte di cassazione in Belgio), in forme di noncooperazione totale (nella Norvegia occupata: resistenza al colpo di stato di Quisling, fermezza dello stato, dimissioni della corte suprema e della chiesa di stato norvegese; nella Danimarca occupata: dimissioni del governo per non cedere alle pressioni tedesche, dopo aver mantenuto una dignitosa quasi-indipendenza, e conseguente legittimazione della resistenza popolare, in larga parte nonarmata).
GANDHI e il terrorismo
Certamente Gandhi seppe affrontare anche i conflitti sociali più acuti e violenti, confinanti con il fenomeno guerra. Il capitolo IV Gandhi, il terrorismo e la nonviolenza, del libro di Fulvio Cesare Manara (Una forza che dà vita,Ed. Unicopli 2006) è di impressionante attualità. Gandhi, contrariamente a un errato luogo comune, non ebbe a che fare con un dominio coloniale dolce, ebbe invece esperienza diretta di entrambi i terrorismi, inglese e indiano. Con i terroristi indiani dialogò intensamente, sia a Londra, sia in India: mai interruppe il dialogo franco con loro, mai pensò che la condanna del metodo dovesse chiudere il discorso aperto e critico. Riconosce e ammira il loro zelo, mentre lo critica apertamente come fuorviato.
Atti di terrorismo scandiscono continuamente i suoi anni, fino a colpirlo a morte, nel 1948. Egli sviluppa una decina di argomenti sui modi di giudicare e contrastare il terrorismo (pp. 138-147), che è il «culto delle pistole e delle bombe» (Kulke): i principali sono il nesso tra mezzi e fini; la necessità, ben più che della repressione, di cercare le cause profonde del terrorismo popolare, il quale è segno di debolezza; i due terrorismi si rafforzano a vicenda, ma più grave è il terrorismo di stato, perché usa le istituzioni e corrompe l’intera popolazione. Soprattutto, Gandhi indica la «non-ritorsione» come l’unica via d’uscita dalla spirale: questa è l’arma del forte, che fa ricorso a profonde forze spirituali, come leggiamo nel lungo grande brano del 1947 (p. 145).
Oggi, al terrorismo internazionale e interno, veramente preoccupante, si è opposta esclusivamente la guerra occidentale dispiegata, senza limiti di mezzi, di forme, di armi illegali, di tempi, senza rispetto delle convenzioni internazionali e degli stessi diritti civili dei cittadini, mettendo a rischio la democrazia, con enorme cecità e insipienza, che accresce disastri e dolori, che risulta analoga e omologa al terrorismo che combatte, e semina altri mali nel futuro. I popoli minacciati possono accettare questa politica per paura, ma appena riescono a ragionare non la riconoscono saggia e giusta. I popoli da cui vengono i terroristi fanatici vivono un tempo di disperazione storica: quando mancano prospettive di azione e di relazioni collettive vivibili, serpeggiano ed esplodono pulsioni di morte. Poche voci sapienti hanno ricordato che anche il criminale è umano, mentre nega l’umanità, anche le culture fuorviate riflettono drammi storici, memorie avvelenate, che vanno risanate con il coraggio della verità. Il criminale va certamente contrastato e impedito, ma anche incontrato nel suo distorto stato d’animo, correggendo il rapporto rovinato, per ricuperarlo alla comune umanità, con una prospettiva ampia, storica, attenta alle storie di culture e generazioni, e non angustamente securitaria.
Anche la nonviolenza si impara, come dicono i ricercatori, come fanno i formatori. Si impara dalla storia, dall’esperienza, dall’immaginazione di ciò che è giusto, ma anzitutto educando in noi stessi personalità intimamente nonviolente27. Questa è la prima forma di lotta nonviolenta, la lotta con noi stessi. La quale, contro un diffuso equivoco, è anche il primo e
principale significato dello jihad islamico: lo jihad maggiore, jihad del cuore, lotta contro il male e la debolezza che sono in noi28.
+ Terrorismo atomico
e anche sui-omicida: difesa con guerra o politica?
La forma di terrorismo più vasta e grave è quello atomico, che è terrorismo di stato, fino dal suo uso nel 1945, minacciato lungo tutta la guerra fredda, fino a oggi: fino all’uso clandestino di armi all’uranio impoverito nelle guerre recenti e in corso, fino alla possibilità attuale di mini-atomiche usabili anche da singoli, nelle «guerre privatizzate o individualizzate»29.
Come difendersi? Quale tecnica nonviolenta vale contro un attacco nucleare? Non c’è difesa. La tecnologia si arrabatta a inventarne, ma eleva solo il livello di pericolo e moltiplica i danni e le conseguenze imprevedibili. Così, non c’è difesa dall’arma assoluta, quale è l’uso mortale del proprio corpo-bomba da parte dell’attentatore sui-omicida, che annulla la minaccia di morte oppostagli dall’avversario trasformandola in strumento proprio. Solo la politica saggia, capace di prevenire la guerra con atti di pace e di giustizia preventiva, ha possibilità di fermare prima dell’uso la bomba nucleare e il corpo-bomba. Solo una legge internazionale uguale per tutti, che impegna tutti contro la proliferazione nucleare e anzi obbliga alla riduzione continua di tali armi, fino alla eliminazione, da parte di tutti, e non imposta solo ad alcuni, può dare qualche garanzia.
Nessuna garanzia è assoluta, perché malvagità e follia sono ineliminabili dall’umanità, ma la maggiore probabilità di sicurezza sta nel non eccitare quelle patologie con l’istituire dominio e iniquità, che sono la prima radicale violenza strutturale, più profonda e continua della stessa violenza fisica. Se poi a strutture ingiuste si accompagna la forma ancora più profonda e grave di violenza, che è la violenza culturale, la quale rispetta, giustifica, onora e, quando occorre, occulta le violenze strutturali e dirette, allora il male è della massima gravità. Il fatto è che sono violente appunto le culture, tante culture, anche vantate come civili e con forme democratiche. Non dimentico quelle parole di Raimon Panikkar: «Il compito della filosofia nel momento attuale è tanto semplice da enunciare quanto difficile da realizzare: consisterebbe, a mio parere, nel disarmare la ragione armata»30.
La nonviolenza è dignità
Così il discorso necessario e concreto che abbiamo fatto sulle tecniche ci conduce ancora una volta a ciò che include e dà senso al lavoro sulle tecniche, cioè la purificazione incessante della prassi31. «Il metodo gandhiano non va inteso come un insieme di regole per prendere più subdolamente e astutamente il potere nel contrasto con chi si oppone a noi, e neppure soltanto alla stregua di una metodologia di risoluzione razionale dei conflitti. Il metodo di Gandhi va visto invece come un autentico cammino di guarigione dell’anima. Guarigione che riguarda sia chi fa la scelta della nonviolenza, sia quanti ne sono provocati mentre si oppongono al nonviolento, sia il tessuto della società nel suo complesso»32.
Lo stesso concetto di difesa, così spesso abusato nella storia, tanto da chiamare difesa l’offesa –come fece Hitler nello scatenare la seconda guerra mondiale, e non lui solo– aggiungendo la menzogna alla violenza materiale, in Gandhi è purificato e rettificato. La nonviolenza è difesa della dignità umana, non sempre della proprietà e di altri beni materiali, sebbene anche per questi sia baluardo migliore delle armi; non è di alcun aiuto nel difendere guadagni illeciti e azioni immorali. La difesa della dignità umana è efficace se vale indissolubilmente per la vittima come per l’aggressore33. «Il metodo della nonviolenza rappresenta la via della rigenerazione della prassi politica appunto perché la ricolloca sul suo terreno vitale di unificazione, di alimentazione e di purificazione»34.
La nonviolenza è un’esigenza filosofica, esistenziale, politica. Anche se ne cerchiamo e ne impariamo le tecniche concrete, resta sempre una ricerca, mai una ricetta preconfezionata. Va vista dunque né come uno strumento impugnabile, né come un sogno sfuggente. Essa è un cammino, una dinamica: non è una caratteristica della politica attuale, ma è una storia realmente cominciata, avviata. Essa comincia a rispondere davvero, e rimane al tempo stesso la domanda buona, anche di fronte all’esigenza critica o scettica.
Domande e risposte
+ Mi pare che dica bene Muller: «La riflessione filosofica non ci autorizza ad affermare che la nonviolenza sia la risposta che offre in tutte le circostanze i mezzi tecnici per affrontare le realtà politiche, ma ci porta ad affermare che la nonviolenza è la domanda che, di fronte alle realtà politiche, ci permette in tutte le circostanze di cercare la migliore risposta. Se, immediatamente, volessimo considerare la nonviolenza come la risposta buona, noi non vedremmo altro che le difficoltà a metterla in atto e rischieremmo di convincerci rapidamente che esse sono insormontabili. Invece, se noi consideriamo la nonviolenza come la domanda buona, potremo allora guardarla come una sfida da raccogliere e applicarci a cercare la migliore risposta che possa esserle data.
Fino a oggi gli uomini generalmente non si sono posti la (buona) domanda della nonviolenza e hanno accettato subito la (cattiva) risposta offerta dalla violenza. Affermare che la nonviolenza è sempre la buona domanda ci deve far evitare di credere troppo in fretta che la violenza sia la buona risposta. Infatti, se è vero che la domanda buona non ci dà immediatamente la risposta buona, essa orienta la nostra ricerca nella direzione in cui abbiamo le maggiori probabilità di trovarla. E questo è già decisivo. Poiché il fatto di porre la buona domanda è una condizione necessaria, benché non sufficiente, per trovare la buona risposta»35.
Lo sappiamo: quel che non si cerca, che non si desidera, non lo si vede. Si ignora e si nega ciò che non si vuole cercare e conoscere. Sulla base delle motivazioni, delle esperienze e delle tecniche operative qui sommariamente richiamate, e non con invenzioni a tavolino, è possibile proporre non ricette magiche, certo, ma ricerche fondate nella realtà per predisporre mezzi di difesa, forme di rivendicazioni di diritti umani, in lotte giuste, che siano costruttive e non distruttive, che realizzino un vero ripudio della guerra omicida, senza rinunciare alla politica e alle giuste rivendicazioni.
La strada è lunga, perché i modelli di difesa, in pressoché tutte le culture politiche attuali, sono modelli militari, di rassegnazione fatalistica (o interessata) alla guerra. La quale, nel migliore dei casi non è fatta di propria iniziativa, ma accettata, e comunque sempre predisposta, con altissimi costi sociali, ambientali e umani. Al quale proposito, è vero ciò che ha detto Teresa Sarti, compianta direttrice di Emergency: «Finché la guerra sarà una possibilità della politica la guerra ci sarà». La possibilità politica urta contro l’impossibilità morale, umana. Il compito è approfondire questa contraddizione, fino a risolverla nella capacità politica (perciò culturale, morale) di gestione nonviolenta dei conflitti.
Conclusione
Tecniche di difesa nonviolenta, sì, ma prima l’opzione morale e politica per la nonviolenza come forma più umana. Una intelligenza come quella di Aristotele riteneva naturale la schiavitù, la differenza essenziale tra uomini-persone e uomini-strumenti. Così, nel nostro tempo civile e sviluppato, orgoglioso dei suoi progressi e conquiste, ci sono ancora intelligenze politiche - la grande maggioranza dei filosofi, politologi, e operatori della politica - che continuano o ritornano a giudicare inevitabile, nel caso estremo, e dunque praticabile, utile e naturale, la guerra, cioè la morte procurata ad altri, lo stragismo organizzato e studiato, scientifico e industriale, come uno degli strumenti della politica. Brutta cosa, che nessuno di loro ama – figuriamoci! - ma una cosa da fare, per necessità politica. Restare fermi in questa concezione è una stupidità -nel senso etimologico: abbacinazione sul fatto e sul passato, senza uno sguardo e un’esigenza intima che lo trascenda– che impedisce di vedere davvero che la politica è l’arte di convivere e non di vivere uccidendo, e che la politica è pace e nonviolenza, oppure non è politica, abusa di questo nome.
Non basta una concezione negativa dell’esistenza, che vede morte e distruttività insediate come legge interna all’esistenza e alla sopravvivenza, per giustificare tanta limitatezza di visuale davanti alla storia e al futuro della nostra specie a rischio36. Non basta, perché legittimare ancora, teoricamente e politicamente, lo strumento dell’omicidio programmato di massa, significa non tanto custodire la propria vita al prezzo drammatico e angosciante dell’uso inevitabile della morte altrui, quanto ormai inchinarsi alla morte, la regina del nulla, la dea negatrice di ciò che è; significa puntare sulla distruzione della specie, e forse della intera vita sul pianeta, per salvare una breve sopravvivenza di qualche potente e della sua fazione, tenuta strettamente prigioniera nell’ignoranza brillante e nell’illusione. Cecità ingiustificabile, ormai criminale. Costoro non sono nascosti in qualche antro brigantesco, ma siedono, persino eletti dai popoli, nei luoghi visibili del potere (sebbene spesso siano semplici strumenti di poteri ristretti e interessi occulti, fuori dal controllo democratico), nelle sedi delle decisioni pubbliche non solo sulle nostre vite, che è il meno, ma sul senso dell’umanità.
Eppure, questa criminale cecità volontaria non è invincibile. Mai come nel nostro tempo violentissimo, l’alternativa nonviolenta positiva è stata presente come possibilità e necessità politica, e non solo virtù personale. Le minoranze «persuase» (per usare il bel termine di Capitini) della nonviolenza hanno il compito e la responsabilità di questa battaglia storica, di accusare la cultura di guerra, sviluppando pensieri, esperienze positive e istituzioni di pace, di sistematica gestione nonviolenta dei conflitti naturali, a ogni livello micro, meso, macro.
Le generazioni venture dovranno giudicare e condannare questa nostra epoca per le guerre condotte e preparate a difesa di più profonde strutture di violenza, i cui effetti cadranno su di loro. E noi che ne abbiamo coscienza saremo scusabili solo se avremo, oggi e qui, tenacemente combattuto la cultura violenta e costruito la cultura nonviolenta.
Anna Bravo
+ Resistenza nv (Anna Bravo)
DRAGO
+ HAVEL
Una analoga profonda teoria pratica sulla resistenza al potere ingiusto è quella di Vaclav Havel, (* 5 ottobre 1926 + 17 dicembre 2011), Il potere dei senza potere (Garzanti, Milano 1991; l'originale in samizdat risale al 1978).
Ne dava un'ampia sintesi Giovanni Salio in Il potere della nonviolenza (Ediz. Gruppo Abele, Torino 1995, pp. 16-23). Per Havel il potere dei senza potere si fonda sulla «vita nella verità», che ha valore di vera forza politica, opposta alla «vita nella menzogna» imposta e pretesa da ogni potere totalitario. I movimenti così ispirati «non puntano alla trasformazione politica violenta, e non perché considerino questa soluzione troppo radicale, ma, al contrario, perché è poco radicale» (p. 70). Questa forma di azione politico-morale consiste nel «seminare pazientemente il grano, annaffiare assiduamente la terra che lo ricopre e concedere alle piante i loro tempi» (p. 42).
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