Bobbio: la vita, la pace, la religione
E. P.
A chi volesse entrare nella lettura di Bobbio consiglio di cominciare dalla sua Autobiografia (Economica Laterza, 1999), o dal suo De senectute (Einaudi, 1996) pure autobiografico, e dalla bella antologia scolastica (ma non semplicistica), Elementi di politica, a cura di Pietro Polito (Einaudi Scuola, 1998), libro di 300 pagine tratte dai principali scritti di Bobbio sulla politica e la morale, sulla democrazia, la pace, i diritti, sul potere invisibile, la pena di morte, la tolleranza.
Vorrei tratteggiare qui in breve la vita, il pensiero sulla pace, la religiosità di Bobbio.
1) Vita
Norberto Bobbio è stato maestro riconosciuto tanto dalla cultura laica quanto dalla cultura cattolica dialogante, anche nella differenza e nel parziale dissenso. Maestro nella ricerca dei criteri e delle forme per assicurare i diritti umani e la giustizia nella vita sociale umana, e almeno ridurne le violenze. Questo era per lui il senso della democrazia.
Vissuto nelle tragedie del ‘900, ci ha insegnato ad apprendere le dure lezioni della storia senza perdere la sensibilità morale, che aveva viva e acuta. Chi lo ha frequentato personalmente per decenni ne è diventato anche amico affezionato, in un rapporto umano, non solo intellettuale, pur nella discussione, nella differenza di età, di esperienza, di scienza.
Bobbio ha lavorato nella ricerca rigorosa, seminata di interrogativi e di analisi concrete, nel pensiero libero dalle lusinghe del potere (non volle essere candidato alla presidenza della Repubblica) e dalle pressioni o disprezzo dei potenti (riferendosi a lui, Craxi parlò di «intellettuali dei miei stivali», e più recenti ottusità gli dedicò l’intelligenza oggi al governo), soprattutto nell’insegnamento assiduo offerto a generazioni di giovani studiosi, infine nel quasi disperato ma tenace paziente magistero civile pubblico, fin quando ha potuto.
Il suo pessimismo metafisico, la sua tristezza senza rimedio davanti ai mali della storia, lo lasciavano però attento ad ogni voce di speranza, anche religiosa, che non faceva sua, ma che era lontanissimo dal disprezzare. La durezza della storia e delle dinamiche dei poteri politici, oggetto dei suoi studi di tutta una vita, lo lasciavano (o lo rendevano?) attento alle virtù delicate: si rileggano i suoi scritti sulla mitezza e sulla nonviolenza, sebbene con molti dubbi e poca speranza di realizzazione storica. Ciò che ha scritto su Aldo Capitini, così diverso e così attraente per lui, è tra le sue migliori pagine e tra le migliori scritte su Capitini.
Impossibile render conto in breve non solo dei suoi moltissimi libri, saggi e articoli, ma anche degli infiniti contatti personali in colloqui, lettere sempre puntuali e accurate (anch’io ne conservo molte), incontri, seminari, dibattiti (ricordo specialmente le riunioni sempre di alta qualità al Centro Studi Piero Gobetti, nella casa che fu di Gobetti), da lui vissuti con la semplicità e l’autentica seria umiltà di chi ha sempre qualcosa da imparare da tutti, pur con sperimentate convinzioni e forti passioni.
Come ogni vero maestro, egli ha spinto gli allievi ad andare oltre, anche differenziandosi da lui, dal suo pensiero e valutazioni. Per esempio, nelle discussioni coi suoi migliori allievi sulla guerra del Golfo del 1991, che egli giudicò giuridicamente giusta e necessaria. «Ma non doveva diventare un massacro», scrisse poi a noi del foglio (vedi n. 178, febbraio 1991).
Negli ultimi tempi, dopo la perdita della moglie Valeria, sua compagna amata e appoggio intelligente, il peso della solitudine e degli anni lo ha chiuso nel silenzio. Con discrezione, amici e allievi gli hanno (gli abbiamo) mandato segnali di affetto e gratitudine, perché gli fossero di conforto.
È morto il 9 gennaio, nel giorno centenario della nascita di Giorgio La Pira. Vedo in ciò quasi una misteriosa combinazione: così simili nella passione civile, nel desiderio di giustizia e di pace, così diversi nella speranza, li immagino ora capaci di capirsi.
Ad un vescovo brasiliano, anziano come lui, egli disse una volta sorridendo: «Alla nostra età, contano più gli affetti dei concetti». In queste parole, c’è tutto il succo umano e la saggezza non arida della sua lunga vita di studioso e di maestro civile.
2)Pace
Bobbio è stato un assiduo pensatore della pace: il suo pacifismo è politico-istituzionale. Egli ammira e riflette sul più radicale pacifismo etico-religioso, ma lo ritiene il più difficile da realizzare, in tempi non si sa quanto lunghi. È stato scettico sulle possibilità della nonviolenza, dai dibattiti degli anni ’70 sino alla fine. Ad Aldo Capitini, che ha ammirato e studiato scrisse: «Tu sei persuaso, io perplesso».
Si può obiettargli che la nonviolenza non è soltanto un'alta etica dell'amore, ma anche una tecnica del minor dolore, del «minor male» (concetto usuale in Bobbio), e può essere accettata anche così (cfr Politica dell’azione nonviolenta, 3 volumi di Gene Sharp, Edizioni Gruppo Abele,),
Del resto, nella introduzione a Il problema della guerra e le vie della pace (Il Mulino, 1979) si dichiara convinto che è «ormai venuto il momento di rimettere in onore il tema della nonviolenza, di cominciare a considerarlo il tema fondamentale del nostro tempo». Nella 4ª edizione, del 1997, non ripete questa affermazione, ma scrive: «Non ho dubbi che, se tutti i cittadini del mondo partecipassero a una marcia della pace, la guerra sarebbe destinata a scomparire dalla faccia della terra».
«Esiste una grande filosofia della guerra, non esiste una filosofia della pace» (scrive nella prima come nella 4ª edizione del libro citato, p. 122). Ciò è vero e non è vero: contro le immagini dominanti, sono da ritrovare nella cultura la ricerca pensata (memoria, coscienza, progetto) della pace, la storia vissuta della pace, la storia effettiva delle lotte giuste nonviolente.
Bobbio è stato al tempo stesso un realista e un idealista, un moralista nel senso migliore della parola.
Si veda Il terzo assente (Sonda, 1989; sono saggi precedenti la fine della guerra fredda): senza un "terzo" più forte dei contendenti non c'è pace; solo la pace imposta è possibile. Però, dopo, accettò la critica e si corresse: le superpotenze Urss e Usa si sono avviate a disarmare senza esservi costrette, se non dal pericolo posto da esse stesse, e da esse compreso.
Certo, ora potrebbe dire: senza i due cani da guardia si sono scatenate le guerre locali; senza l’equilibrio pericoloso, si è scatenata la guerra imperiale! Nel novembre 1989 – ricordo bene l’occasione, al Centro Gobetti – mentre tutti esultavamo per l’abbattimento del Muro di Berlino, egli diceva scuro e pensoso: «Aspettate. Potrebbe essere la guerra».
Nel libro Una guerra giusta? (Marsilio 1991) si riflette il dibattito con i suoi allievi sulla giustificazione realistica della prima Guerra del Golfo. Dichiarò che la sua generazione era condizionata dalla sindrome del 1939, da Hitler, e dunque vedeva la necessità di stroncare il violento.
Era realista fino al pessimismo, sia sulla storia e la politica, sia quasi sull’intera realtà. Ma il suo famoso pessimismo politico non gli impediva di confrontare l’essere col dover essere umano.
Nel saggio Elogio della mitezza (edizioni Pratiche 1998): dice che la mitezza (la nonviolenza) e la politica si escludono. Eppure vede la mitezza come virtù sociale! Ne discussi nel mensile il foglio (n. 217, febbraio 1995).
Dalle sue lettere estrassi otto sue tesi sulla nonviolenza, che si possono vedere con relativa discussione in il foglio (n. 204, nov. 93 e 205, dic.93) e nel volume di Giovanni Salio, Il potere della nonviolenza (ed. Gruppo Abele, 1995, pp. 149-150.
Il suo pessimismo quasi metafisico nasceva dalla sensibilità al problema del male: nel citato Elogio della mitezza, nell’ultimo saggio Gli dei che hanno fallito: alcune domande sul problema del male, dice: non c'è alcun senso nel problema del dolore. Dopo la prima Guerra del Golfo diceva: la storia è male (male inferto, male patito, anche senza colpa umana): si può solo cercare il male minore.
Ma in lui c’era una fortissima istanza morale-ideale. Più di una volta, in lezioni sull’Onu e il diritto internazionale, (cfr p. es. l’intervista su Testimonianze n. 380, dicembre 1995) si diceva pessimista sulla pace politica "difficile" mediante l'Onu, eppure affermava che mai si deve abbandonare il pacifismo etico-religioso.
Nel bello e sentito Omaggio ad Erasmo detto il 29 marzo 1996 di fronte ai ministri degli Esteri dell'Unione Europea (testo intero su il foglio n. 231, luglio 1996) conclude: «Anche noi non siamo sicuri che quel sogno [della pace] si avveri. Ma non è necessario essere sicuri, come non era Erasmo, per continuare di comune accordo a perseguirlo»
Bobbio cerca le condizioni (politiche, etiche) della pace, ma non afferma la forza nonviolenta dell'anima e della verità (il Satyagraha gandhiamo). Vede sconfitti i "profeti disarmati", ma li onora! Ricordo ora una sua battuta impressionante, in una conversazione attorno al tavolo, durante un seminario ristretto, al Centro Gobetti, sul tema “La forza del male, la resistenza del bene”. Ci disse: «Non ho fatto la Resistenza armata. Mi sono pentito di non avere ucciso un soldato tedesco. Ma se lo avessi fatto, ora me ne pentirei».
3) Religione e fede
In una sua lettera manoscritta del giugno 94, mi scriveva: «Mi sono convinto una volta di più che col credente il dialogo è difficile. Possibile che di fronte [? parole di difficile lettura] a una teologia "debolista" - Dio sofferente, fragile, impotente, sconfitto - non ci sia una risposta? Il credente accetta tutto: nulla scuote la sua fede. E di fronte alla crudeltà della natura, che cosa c'entra l'uomo e il suo peccato? E che cosa ha a che fare la malvagità umana con le immani stragi d'innocenti provocate dai terremoti, dalle inondazioni, dall'accidentalità della natura?». Intendo che voglia dire: possibile che il credente non abbia una risposta? Possibile che non respinga il debolismo teologico? Possibile che pur di non abbandonare la fede accetti una tale idea di Dio, così diversa da quella tradizionale (che è quella da lui conosciuta)?
Nella pagina Ultime volontà (distribuita dai familiari alla camera ardente in Università, redatta il 4 novembre 1999, che richiama un altro testo del 10 maggio 1968), scrive: «Credo di non essermi mai allontanato dalla religione dei padri, ma dalla chiesa sì. Me ne sono allontanato ormai da troppo tempo per tornarvi di soppiatto all’ultima ora. Non mi considero né ateo né agnostico. Come uomo di ragione e non di fede, so di essere immerso nel mistero che la ragione non riesce a penetrare sino in fondo, e le varie religioni interpretano in vari modi». Dunque, «né ateo né agnostico», ma, direi, piuttosto teista (concezione di Dio vivente e personale, trascendente) che deista (Dio semplice causa del mondo), secondo la distinzione di Kant (Critica della ragion pura, Dialettica trascendentale, II, cap III, sez.7).
Non è cristiano, dunque, perché il cristianesimo è altro da teismo o deismo. Dicendo «credo di non essermi mai allontanato dalla religione dei padri», fa pensare che per lui la religione dei padri, come l’ha conosciuta, sia teismo o deismo.
Sulla religione, anzi «religiosità», di Bobbio, il suo scritto ultimo e principale mi sembra Religione e religiosità (in Micromega n. 2/2000, Almanacco di filosofia, pp. 7-16, ripubblicato nel n. 1/2004, pp. 11-20, preceduto da un commento di Carlo Maria Martini). Da questa sua sincera dichiarazione personale, che andrebbe esaminata punto per punto (ciò che tentai di fare nella corrispondenza che ho avuto con lui), risulta proprio l’umiltà del filosofo del dubbio e della ricerca, la sua religiosità naturale di uomo sensibile e attento al mistero della vita, del male e del bene, insieme alla sua relativa e indiretta conoscenza del cristianesimo.
Un cristiano che lo ha stimato, specialmente per la sua sensibilità morale, a questo punto si ricorda di come si rivolge san Paolo agli ebrei di Antiochia di Pisidia e a «voi che temete Dio» (Atti degli Apostoli 13,26). Questi erano stranieri simpatizzanti, residenti tra gli ebrei specialmente della diaspora, che avevano un senso religioso, ma non avevano aderito formalmente al giudaismo. Nel discorso di Pietro a Cornelio leggiamo: «In ogni nazione colui che teme Dio e pratica la giustizia è a lui accetto» (Atti 10, 35, e così pure in altri luoghi del Nuovo Testamento). Bobbio aveva il timor di Dio (anche nel senso più severo, ritenendolo più giudice che ispiratore), e aveva la passione intellettuale e morale della giustizia.
In più occasioni, dibattendo e scrivendo su etica laica e etica religiosa (ne ho ripreso dei momenti in Servitium n. 82, luglio-agosto 1992) affermava la superiore efficacia di questa seconda, perché soggetta ad un giudice infallibile, a differenza di qualunque etica laica. Diceva che più del legislatore conta il giudice, per l’efficacia della legge. Concepiva Dio come giudice, più che ispiratore interiore come lo pensano e lo sentono i cristiani.
Aveva una “religiosità” (non religione), fatta di grandi interrogativi sui massimi problemi: il male umano, ma di più il male cosmico: Dio impotente? indifferente? «Né ateo né agnostico» si è detto nel testo conosciuto dopo la sua morte. Ho discusso molto con lui, anche contestandogli il suo pessimismo sulla possibilità della pace, che pure voleva molto, e la sua idea arcaica, tridentina, del cristianesimo. «So solo quello che ho imparato da bambino nel catechismo», mi ha detto una volta. «Ho conosciuto tanti democristiani, pochi cristiani».
Gli ho voluto bene. Invecchiando, si amano i vecchi. Ci si capisce. Ma li ho sempre amati, Ho amato e ammirato (troppo silenziosamente) il mio Babbo (così lo chiamavamo, alla toscana), e la sua figura paterna, profondamente introiettata, mi ritorna davanti lungo la vita nelle figure “paterne”, in età e sapienza, che via via ho incontrato. Si amano vecchi e bambini meglio dei coetanei, che ci somigliano troppo.
Bobbio aveva una profondità interiore, che ritengo superiore al suo stesso pensiero teorico formulato. Lo spirito è più grande della ragione.
Su tutto quello che si è scritto su di lui, in occasione della morte, spicca memorabile, da inquadrare, l’articolo di Barbara Spinelli su La Stampa di domenica 11 gennaio, che - a proposito delle lettera giovanile a Mussolini rinfacciatagli da Giuliano Ferrara per infangarlo, lettera che Bobbio dichiarò imperdonabile - lo riconosce e lo rivela come uomo "religioso", in quanto onesto inflessibile servitore della verità anche contro sé stesso, ad ogni costo personale, anche molto alto.
Poi, avrà avuto anche le sue debolezze, anche qualche ostinazione o schema ripetuto, ma l'oro scintilla nella sabbia, e la interiore «luce che illumina ogni uomo» (Giovanni 1, 9), quando l'uomo in qualche modo la riconosce e la accoglie (1, 10-13), fa luce nel buio (1, 5), riscatta tutto l'uomo e tutto dell'uomo. La luce vince il buio e mai viceversa. Spesso non vediamo la luce, ma non possiamo sopprimerla, sempre ci attira, e ogni tanto torna a brillare imprevista.
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