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Amnesty International e l'industria dei diritti umani

Chi controllerà i controllori?
17 gennaio 2013
Daniel Kovalik (Daniel Kovalik è un avvocato del lavoro, specializzato in diritti umani, di base a Pittsburgh. Al momento insegna Diritto umanitario internazionale alla Scuola di Legge dell'Università di Pittsburgh.)
Tradotto da Andrea Lisi per PeaceLink
Fonte: www.humanrightsinvestigations.org - 14 novembre 2012

amnesty 1 Quando all’inizio degli anni ’90 studiavo legge alla Columbia University, ebbi la fortuna di studiare con Louis Henkin, probabilmente il più famoso teorico dei diritti umani al mondo. Dopo la sua scomparsa nel 2010, Elisa Massimino di Human Rights First ha dichiarato, nel necrologio per il professor Henkin sul New York Times, che egli "ha scritto, in senso sia letterale che figurato, il libro sui diritti umani" e che "non è esagerato dire che nessun americano è stato più determinante nello sviluppo dei diritti umani tanto quanto Lou”.

Il Professor Henkin, pace all'anima sua, se da un lato è stato una leggenda nell’ambito dei diritti umani, dall’altro non si è rivelato sempre ferrato su questioni come guerra e pace. Lo so per esperienza personale, da quando ho avuto con lui un acceso dibattito, durante e dopo le lezioni sull'incarcerazione di manifestanti pacifisti, tra cui Eugene V. Debs, durante la prima guerra mondiale. In breve, il professor Henkin era d’accordo con il giudice Oliver Wendell Holmes della Corte Suprema e riteneva che questi manifestanti fossero stati incarcerati giustamente, poiché le loro attività, anche se pacifiche, costituivano un "chiaro pericolo" per la sicurezza della nazione in tempo di guerra. Io ero fortemente in disaccordo.

Il fatto che il professor Henkin si ponesse dalla parte dello Stato contro questi oppositori della guerra è indicativo dell'intero problema del settore dei diritti umani, il quale è nel migliore dei casi neutrale o indifferente riguardo alla guerra, se non addirittura a favore di essa come strumento per difendere i diritti umani. Ciò, naturalmente, rappresenta un enorme vicolo cieco. Nel caso della prima guerra mondiale, per esempio, se i manifestanti fossero riusciti a fermare la guerra, milioni di persone sarebbero state salvate dalla crudeltà omicida di un conflitto del quale, ancora oggi, pochi possono anche solo a malapena spiegare le ragioni. E tuttavia, questo non sembra presentare un dilemma morale per gli odierni sostenitori dei diritti umani. (C’è da notare, inoltre, che il professor Henkin si sentì sempre più a disagio riguardo la guerra del Vietnam, man mano che il conflitto si estendeva, e in particolare mentre aumentava l’usurpazione da parte del Presidente delle prerogative in materia di guerra spettanti al Congresso).

Alla fine, non è stato dal professor Henkin, ma da altri intellettuali - dissidenti - che ho imparato la maggior parte di quello che so sui diritti umani e sul diritto internazionale. L'elenco di questi intellettuali, nessuno dei quali in realtà si occupa di diritti umani come suo lavoro quotidiano, comprende Noam Chomsky, Edward S. Herman, Jean Bricmont e Diana Johnstone. E, naturalmente, ho letto un sacco di ciò che questi autori hanno da dire su questo argomento proprio sulle pagine di CounterPunch.

Ciò che tutti questi individui hanno sottolineato più e più volte è che il diritto internazionale, come codificato per la prima volta all'indomani della seconda guerra mondiale in strumenti quali la Carta delle Nazioni Unite e della Carta di Norimberga, è stato creato per lo scopo primario di preservare e mantenere la pace mettendo al bando le guerre d’aggressione. E questo perché? Perché le nazioni che avevano appena attraversato la guerra più distruttiva della storia dell’umanità, con il suo portato di crimini di genocidio e l’Olocausto, avevano capito benissimo che quei crimini erano stati resi possibili dal reato fondamentale costituito dall’aggressione, dalla guerra stessa. Infatti, come spiega Jean Bricmont nel suo bellissimo libro L'imperialismo umanitario, il reato per il quale i nazisti "sono stati condannati a Norimberga è l’aver iniziato una guerra di aggressione, che in base alla Carta di Norimberga 1945 'è il supremo crimine internazionale, differenziandosi dagli altri crimini di guerra perché contiene in sé tutto il male rappresentato dagli altri'".

In altre parole, la logica dei padri fondatori del diritto internazionale - compreso il diritto internazionale dei diritti umani - è che, per tutelare i diritti umani, il compito primario delle nazioni è quello di assicurare la pace e prevenire la guerra, la quale inevitabilmente conduce alla violazione massiccia dei diritti umani. Come Noam Chomsky ha per anni ripetuto, in particolare nel suo articolo del 1971 sulla Yale Law Review dal titolo "La legge del più forte nelle relazioni internazionali," (80 Yale LJ 1456), una delle prime sostanziali norme stabilite dalla Carta delle Nazioni Unite è il divieto della guerra di aggressione. Tale norma è contenuta, come riferisce Chomsky, nell'articolo 2 (comma 4) della Carta, ove si prevede che tutti i membri delle Nazioni Unite "devono astenersi nelle loro relazioni internazionali dalla minaccia o dall'uso della forza ...". E, in contrasto con la posizione dei nuovi interventisti umanitari, l’articolo 2 (comma 7) della Carta afferma esplicitamente che "nulla nel presente Statuto autorizza le Nazioni Unite ad intervenire in questioni che appartengono essenzialmente alla competenza interna di ogni stato ...".

Purtroppo, come Chomsky osservava già nel 1971, queste norme supreme di tutto il sistema delle Nazioni Unite,sono state omesse dal diritto internazionale. E sono state omesse, tra gli altri, dai responsabili delle principali organizzazioni per i diritti umani quali Amnesty International e Human Rights Watch. Come spiega Jean Bricmont in Imperialismo umanitario, citando lo studioso di diritto internazionale Michael Mandel, mentre all'inizio dell'invasione del 2003 dell’Iraq da parte degli Stati Uniti Amnesty e Human Rights Watch esortavano tutti i "belligeranti" (senza distinguere tra aggressori e aggrediti) a rispettare il diritto bellico (il cosiddetto diritto internazionale umanitario ndt), nessuno dei due gruppi proferì parola circa l'illegittimità e l’illegalità della guerra stessa. Come ha giustamente dichiarato Bricmont: "queste organizzazioni sono come chi consiglia di usare il preservativo agli stupratori", ignorando il fatto che una volta che l'intervento a cui non si sono opposte "si sarà dispiegato su larga scala, i diritti umani e la Convenzione di Ginevra verranno violati in maniera massiccia".

Da qui ai giorni nostri. Proprio la settimana scorsa, Amnesty International ha rilasciato un’estesa dichiarazione in opposizione ad un articolo che ho scritto per Counterpunch, dal titolo "La Libia e l'ipocrisia dell’Occidente sui diritti umani". Amnesty, ha titolato sul suo blog “Un critico che si sbaglia su Amnesty International e la Libia”[1], sostenendo che io sia nel torto quando affermo che essa ha sostenuto l'intervento della NATO in Libia. Confermando le critiche di Bricmont e Mandel, il blog sostiene che "Amnesty International in generale non prende alcuna posizione sull'uso della forza armata o sugli interventi militari nei conflitti armati, se non esigendo che tutte le parti rispettino i diritti umani e il diritto umanitario". Amnesty prosegue poi chiarendo che, prima dell'intervento della NATO in Libia, in una comunicazione del 23 febbraio 2011, ha semplicemente invitato il Consiglio di Sicurezza ad adottare contro la Libia e Gheddafi misure immediate, tra cui [ma non solo] il congelamento dei beni di Gheddafi stesso e dei suoi consiglieri militari, valutando la possibilità di un ricorso alla Corte penale internazionale.

Nel suo post in risposta al mio articolo, Amnesty sostiene di aver invocato tale azione sulla base delle minacce di Gheddafi di 'ripulire la Libia casa per casa'" per porre fine alla resistenza. Anche se questo è vero, questa non è tutta la verità. Così, nella nota di Amnesty del 23 febbraio 2011, l’invito si basava anche sulle "continue notizie di mercenari chiamati dal leader libico per reprimere violentemente le proteste contro di lui." E, come abbiamo imparato dal nostro Patrick Cockburn in un suo articolo per l’Independent del 24 giugno 2011, dal titolo "Amnesty contesta le voci secondo cui Gheddafi avrebbe ordinato di usare lo stupro come un’arma da guerra", Amnesty ha finito per sfatare i rapporti (anche se molto dopo l’inizio dell'attacco della Nato contro la Libia) secondo cui Gheddafi stava arruolando mercenari stranieri.

Come spiega Cockburn, citando Donatella Rovera, consulente sulla gestione delle crisi per Amnesty International:

"I ribelli hanno più volte denunciato l’uso contro di loro di truppe mercenarie provenienti dall'Africa centrale e occidentale. L'inchiesta di Amnesty ha verificato che di ciò non v’era alcuna prova.”

“Quelli mostrati ai giornalisti occidentali come mercenari stranieri sono stati in seguito tranquillamente rilasciati” afferma la Rovera. “La maggior parte erano migranti sub-sahariani che lavoravano in Libia senza documenti”.

In altre parole, il 23 Febbraio 2011, Amnesty ha sollecitato un intervento del Consiglio di Sicurezza contro la Libia sulla base di notizie di mercenari stranieri che avrebbe in seguito dichiarato false, e sulla base di minacce verbali fatte da Gheddafi – presupposti alquanto deboli in effetti per un’azione del Consiglio di Sicurezza.

E per quanto riguarda queste stesse richieste? Come tutti sappiamo, il Consiglio di Sicurezza ha agito, autorizzando un attacco della NATO sulla Libia, il quale ha avuto inizio il 19 marzo 2011. La decisione di un attacco era una delle possibili e anzi probabili azioni che il Consiglio di sicurezza avrebbe potuto prendere, tanto più che paesi come Stati Uniti e Francia in quel momento erano impegnati a pressare in maniera aggressiva per tale scelta. E Amnesty ne era perfettamente a conoscenza; con la sua richiesta di intervento del Consiglio di Sicurezza, ha lavorato in tandem con gli sforzi degli Stati Uniti e della Francia per ottenere l'autorizzazione ad un tale intervento.

In altre parole Amnesty, basandosi almeno in parte su notizie false, ha pressato il Consiglio di sicurezza affinché agisse, sapendo benissimo che con tutta probabilità tale azione si sarebbe tramutata nell'autorizzazione all’uso della forza contro la Libia. E in effetti anche l’altra richiesta da parte di Amnesty di un eventuale deferimento dei funzionari libici alla Corte penale internazionale equivale a una richiesta di intervento armato, dando per implicito il cambio di regime, perché solo tale intervento può portare a un deferimento dei funzionari di un governo alla Corte dell'Aia. Nonostante la sua attuale posizione ufficiale di neutralità sulla questione dell'intervento armato, si può affermare in verità che Amnesty ha oggettivamente sostenuto l'aggressione che ha avuto luogo nel marzo del 2011.

Triste a dirsi, tale supporto oggettivo si è basato in parte su dossier falsi riguardo presunti mercenari sub-sahariani chiamati in Libia. Questi rapporti falsi sui mercenari, oltre ad alimentare le richieste di intervento, hanno avuto un altro effetto terribile: hanno contribuito a generare le rappresaglie di massa che si sono scatenate contro i libici di pelle nera e contro i lavoratori stranieri durante il conflitto dell’anno scorso e dopo il rovesciamento di Gheddafi. Il caso più noto di rappresaglia è la distruzione totale da parte dei ribelli anti-Gheddafi della città di Tawarga, in gran parte popolata da libici neri. Amnesty (e ciò va a suo grande discredito), nella fretta di invocare l'intervento del Consiglio di sicurezza, ha diffuso proprio le notizie false che hanno poi alimentato tali atti di vendetta.

Cosa dire poi della risposta di Amnesty International riguardo i crimini commessi dalla NATO con i bombardamenti e l’intervento sul terreno libico? Amnesty, nella sua risposta al mio articolo, cita la critica che ha indirizzato alla NATO, come prova del suo grande equilibrio nel relazionarsi al comportamento di tutte le parti in conflitto in Libia. In particolare, Amnesty cita la seguente critica come evidenza di ciò:

Sebbene la NATO sembri aver compiuto notevoli sforzi per ridurre al minimo il rischio di provocare vittime civili, decine di civili libici sono stati uccisi e molti altri feriti. Amnesty International teme che nessuna informazione sia stata comunicata alle famiglie di civili uccisi e di quelli feriti negli attacchi della NATO circa le indagini che potrebbero essere state effettuate sugli incidenti che hanno provocato morti e feriti.

Naturalmente, questa critica dimostra solamente l’assoluta mancanza di equilibrio e imparzialità da parte di Amnesty. Prima di tutto, al fine di compiacere la NATO sua tutrice, Amnesty si sente ovviamente obbligata ad accompagnare la sua critica con un complimento - pacche sulla schiena alla NATO per aver presumibilmente cercato di "ridurre al minimo il rischio di vittime civili", come se il bombardamento aereo delle principali città potesse mai costituire una minimizzazione di tale rischio.

Poi Amnesty lamenta che "nessuna informazione è stata messa a disposizione" per le famiglie di civili uccisi o feriti "in merito a tutte le indagini che potrebbero essere state effettua[i]te sugli incidenti che hanno provocato morti e feriti." A quali "indagini" si riferisce qui Amnesty? Chiaramente, si lamenta del fatto che la NATO, incaricata di perseguire se stessa, non abbia condiviso i risultati delle proprie indagini sui suoi propri crimini.

La verità è che tale organizzazione, la quale ha invocato interventi del Consiglio di sicurezza e magari della Corte Internazionale dell’Aja nei confronti della Libia proprio mentre la NATO stava affilando i coltelli preparandosi a invadere il paese, non ha invece chiesto che un ente esterno alla NATO (ad esempio, la stessa Corte dell’Aja) indagasse ed eventualmente perseguisse i funzionari della NATO per i loro crimini. Quindi per Amnesty ci sono due pesi e due misure. Naturalmente, la Corte penale internazionale non esiste per perseguire coloro che provengono dai più pallidi paesi occidentali. No, la Corte penale internazionale (da cui gli Stati Uniti sono tra l’altro esenti, non avendone nemmeno ratificato lo statuto) è in pratica destinata alle genti di pelle scura dei paesi più poveri; esiste per colpire l’Africa, l’Asia e, di volta in volta, le nazioni slave minori. E qui sta il problema inerente l'intero sistema internazionale dei diritti umani, di cui Amnesty International è parte integrante.

Inoltre Suzanne Nossel, come ben spiegato da Diana Johnstone nel suo articolo su CounterPunch, poco prima di essere assunta da Amnesty (come direttrice del ramo USA ndt), ha svolto un ruolo diretto, mentre lavorava per il Dipartimento di Stato americano, nell’articolare i pretesti dell'intervento della NATO in Libia. Johnstone spiega che, "in qualità di Vice-assistente Segretario di Stato per le Organizzazioni Internazionali, la signora Nossel ha avuto un ruolo nella stesura della Risoluzione del Consiglio ONU sui diritti umani riguardante la Libia. Tale risoluzione, basata su rapporti esageratamente allarmistici, è servita a giustificare la successiva risoluzione delle Nazioni Unite che ha portato alla campagna di bombardamenti con cui la NATO ha rovesciato il regime di Gheddafi. In altre parole, il ruolo della signora Nossel nel supportare l'intervento della NATO è stato simile a quello di Amnesty nello stesso periodo, essendo entrambi coinvolti nelle pressioni per l'azione contro la Libia alimentate con notizie esagerate o del tutto false, pur di vedere un maggiore intervento contro la Libia.

Gli attuali tentativi di prendere le distanze dall’aggressione della NATO al cui inizio proprio Amnesty International e la signora Nossel hanno contribuito, semplicemente non suonano veritieri. Vorrei far presente che è giunto il momento per Amnesty di fare un vero e proprio esame di coscienza, chiarendo se intende fare gli interessi dei diritti umani oppure quelli delle guerre della NATO e dell’Occidente, perché davvero non si possono servire entrambi i padroni.

[1]http://blog.amnestyusa.org/middle-east/a-critic-gets-it-wrong-on-amnesty-international-and-libya/

Tradotto da Andrea Lisi per PeaceLink. Il testo è liberamente utilizzabile a scopi non commerciali citando la fonte (PeaceLink) e l'autore della traduzione.

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