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I bambini con le foto dei padri desaparecidos, gli anziani che mostrano con dignità le torture che segnano i loro corpi, le donne che parlano di violenze inenarrabili. Incontro dopo incontro siamo scesi in un girone del dolore senza fine.

La forza disarmante della Gandhi del Sahara

Da Firenze passando oltre il confine invisibile che taglia il Marocco in due. Un viaggio per conoscere e far conoscere al mondo sofferenze e speranze del popolo Saharawi.
3 marzo 2013
Andrea Misuri

Alle porte di Laayoune, la sbarra che segnala la  frontiera appare all’improvviso, lungo la stretta, grigia linea d’asfalto che da ore corre verso sud. Il paesaggio è quello desertico e pietroso della hammada. Da Tan Tan Plage a Tarfaya – luoghi che ispirarono Antoine de Saint-Exupéry nello scrivere Il piccolo principe - la linea stradale resta a lungo parallela all’Oceano, prima di superare l’invisibile confine del Sahara Occidentale e puntare verso l’antico avamposto spagnolo sorto vicino alle miniere di fosfati di Bou Craa. Il posto di polizia sono pochi metri quadri disadorni – un tavolo, un telefono e un paio di sedie – sufficienti per controllare il visitatore che arriva a Laayoune. Quasi una minuscola Fortezza Bastiani in attesa di un improbabile nemico. Ora i nostri passaporti sono sul tavolo. Ci domandano i motivi del viaggio. E’ mezzogiorno, il sole invernale è mitigato da una brezza leggera. Fuori, incurante del movimento attorno, un cane attraversa pigramente, più volte, la strada. Oltre mezz’ora di attesa prima di poter risalire sull’autobus della CTM che da lì a pochi minuti ci sbarca alla stazione della compagnia, in Blvd de Mekka. Una delegazione per approfondire la situazione dei diritti umani in questo angolo poco conosciuto del Maghreb. Per il Comune di Firenze, la presidente della Commissione Pace e Diritti Umani Susanna Agostini e il consigliere Andrea Vannucci, per i Progetti Sahara Occidentale occupato la responsabile Eleonora Moscardi.

Aminatou Hamidar

Ci attende Aminatou Haidar. 46 anni, due figli adolescenti, i tratti delicati del viso dietro grandi occhiali da sole, la figura esile e slanciata. Sempre più spesso è chiamata la Gandhi del Sahara. L’abbiamo conosciuta  in occasione del suo recente viaggio in Toscana su invito della Fondazione Robert Fitzgerald Kennedy. Nell’occasione le è stata consegnata la cittadinanza onoraria dai Comuni di Signa, Montespertoli e Calenzano, che fanno seguito a quella storica del Comune di Sesto Fiorentino da parte del sindaco Gianni Gianassi. Aminatou nasce nel sud del Marocco, ad Akka, dove era nata sua madre, secondo la tradizione per la quale le donne partoriscono nel paese dove sono nate. Nel 1975 la famiglia si trasferisce a Laayoune. Le scelte dei tre cugini, ai quali è fortemente legata, segnano la sua infanzia. In particolare quella del primogenito, l’adorato Larosi Haidar, che lascia la propria terra. Ancora oggi professore universitario in Spagna, non è più tornato.

Aminatou è arrestata nel novembre 1987, per un volantinaggio in occasione di una visita dell’Onu nei Territori occupati. Desaparecida, torturata, tenuta bendata fino alla liberazione nel giugno di quattro anni dopo. Una detenzione sproporzionata rispetto ai fatti addebitati. Resa più sottilmente crudele dall’avere poi scoperto, a liberazione avvenuta, che la prigione era a un passo  da casa. Davanti a quel palazzo – dice Aminatou con un filo di voce - tante volte si era fermata a giocare da bambina. Tornata libera, vorrebbe iscriversi alla Facoltà di Diritto internazionale in lingua francese, ma le autorità le consentono soltanto di frequentare la Facoltà di Filosofia di Rabat, che è costretta comunque a lasciare per le costanti pressioni poliziesche. Per questo i suoi studi s’indirizzano a informatica e gestione d’impresa.

Arrestata nel 2005, detenuta in una prigione dove la volontà dei prigionieri saharawi è piegata dall’uso di manganelli di ferro, di scariche elettriche e cani feroci, è liberata sette mesi dopo, nel gennaio 2006. La foto del suo viso gonfio, ridotto a una maschera di sangue, diviene un fortissimo atto d’accusa. E’ la svolta: le sue parole all’uscita dal carcere “Vogliamo essere liberi, io e il mio popolo”, un impegno quotidiano che preoccupa ogni giorno di più il potere.

Di ritorno dall’aver ritirato un premio negli Stati Uniti, all’aeroporto Hassan I di Laayoune, il 15 novembre 2009, per indicare la destinazione d’arrivo sulla carta di sbarco, Aminatou scrive Sahara Occidentale e non Marocco. Gli zelanti funzionari aeroportuali, in un crescendo kafkiano, per 24 ore tentano di convincerla a correggere quanto da lei scritto. Per poi, al suo ennesimo rifiuto, obbligarla ad imbarcarsi, destinazione Lanzarote, alle Canarie, territorio spagnolo.  L’internazionalizzazione dello scontro, nato in un dimenticato aeroporto ai margini del deserto del Sahara, presto coinvolge le principali Cancellerie occidentali. Aminatou dà inizio ad uno sciopero della fame, che mentre consuma il suo corpo, fa altrettanto con la credibilità della diplomazia marocchina. Perde 11 kg, trascorrono 32 giorni. Il 18 dicembre Aminatou può tornare nella sua terra. Leader riconosciuta della lotta saharawi.

Aminatou ci accompagna a casa. All’esterno della palazzina, i segni della violenza della quale è oggetto, i vetri infranti, la centralina elettrica recentemente bruciata è stata sostituita da una nuova. L’abitazione è calda e accogliente. Ci sediamo sui divani disposti lungo le pareti, il pavimento coperto di tappeti marroni ingentiliti da bianche figure geometriche. Alle finestre, panni scuri restituiscono l’intimità violata. Si definisce il programma dei prossimi giorni, gli incontri con le associazioni che si battono per difendere i diritti negati in questa parte d’Africa. Per i giorni a seguire è lei stessa a guidare l’auto che abbiamo affittato, a presentarci una ad una le associazioni locali a proporre percorsi politici di conoscenza delle diverse realtà. Negli incontri abbiamo toccato con mano cosa significano – nel quotidiano di un saharawi - discriminazione e lesione dei diritti elementari. E come – nonostante tutto questo – la non violenza è la costante nel confronto politico con il Governo del Marocco. Volantinaggi e fulminee manifestazioni. Flash mob di pochi, pochissimi minuti prima che siano violentemente interrotti dalla polizia. Oggi c’è una nuova possibilità per fare conoscere cosa succede all’interno dei Territori occupati. Il ricorso agli spazi sterminati messi a disposizione dalla Rete. Un contenitore che sfugge alle maglie della censura, che veicola informazioni, che sensibilizza l’opinione pubblica sulla sorte dei desaparecidos. La Rete come una nuvola, secondo la definizione di una pubblicità in gran voga. Carica d’informazioni, in grado di superare ogni frontiera, impermeabile alla censura. Rasd Tv, la televisione della Repubblica Araba Saharawi Democratica (1), Equipo Mediatico e Equipe Media (2), le pagine di Facebook (3), sottoposte ai continui attacchi degli hackers. Pagine web e blog gestiti spesso da ragazzi giovanissimi, poco più che adolescenti. Autodidatti ed entusiasti. Pagine quotidiane come quelle di Poemario (4).  

Eppure, nessun link può restituire le emozioni e i sentimenti da noi vissuti in tre giorni d’incontri. I bambini  - silenziosi - con le foto dei padri desaparecidos, gli anziani che mostrano, con dignità, le torture che segnano i loro corpi, le donne  - la voce ferma - che parlano di violenze inenarrabili. Incontro dopo incontro siamo scesi in un girone del dolore senza fine.

Con le donne del Coordinamento Gdeim Izik

I fosfati sono la ricchezza del sottosuolo. Quando gli spagnoli sono andati via, il contratto stipulato con i lavoratori saharawi è diventato pian piano carta straccia. Ce lo spiega bene - documenti alla mano – Eddia Sidi Ahmed a nome dei lavoratori del settore. Emarginati, licenziati a favore di operai marocchini, con i salari contrattuali non rispettati. Espulsi dal mondo del lavoro nella loro terra.

Said Dambar, 26 anni, ucciso dalla polizia all’esterno di un Internet Café in circostanze mai chiarite. A distanza di due anni, i familiari continuano a chiedere l’autopsia per conoscere la causa della morte. Per questo sono oggetto di persecuzioni da parte delle autorità. Nella stanza a pianterreno – una gigantografia del ragazzo su di una parete – ci mostrano sul muro i segni delle pietre scagliate dalla strada. L’ennesima intimidazione alla quale non cedono.

Il campo di Gdem Izik, a dodici km. da Laayoune, è nato il 10 ottobre 2010.  In poche settimane comprende ormai 8000 tende ed oltre 20000 saharawi. Una protesta collettiva che ogni giorno s’allarga. Gli abitanti del campo si organizzano. Grazie alla genialità di alcuni studenti, in modo assolutamente artigianale, una radio trasmette quanto succede all’interno del campo. Non a caso, un  attento osservatore come Noam Chomsky indica in Gdeim Izik il prodromo della primavera araba, che da lì a due mesi infiammerà in un crescendo inarrestabile i Paesi che si affacciano sulle rive del Mediterraneo.  “Le forze marocchine – ha scritto Chomsky – intervennero per smantellare le migliaia di tende causando una grande quantità di morti e feriti e così successivamente si è propagata la protesta”.

Bambino

E’ l’8 novembre 2010. I saharawi sono attaccati con gas lacrimogeni, elicotteri e carri armati. Eppure Gdeim Izik non avrà mai le pagine dei notiziari occidentali. Najem El Garmi, 14 anni, è tra i primi ad essere ucciso a freddo. La madre ci consegna la sua foto. In tempi di Internet, ci chiede di portarla con noi, quasi a volere così preservare il ricordo del figlio. Formato tessera, i colori sbiaditi, la foto ci mostra un ragazzino, i lineamenti ancora infantili e grandi occhi scuri.  M’barek Bani, 8 anni, tiene stretta tra le mani la foto del padre. Ha lo sguardo dolcissimo e sperduto. Bani Mohamed è tra gli arrestati del campo.

Hassan Dah, 25 anni, giornalista di Mediatico Saharawi, arrestato per i fatti di Gdeim Izik il 4 dicembre 2010, detenuto nel carcere di Rabat. Si aggiunge ai giornalisti perseguitati per il coraggio di informare. Sono tanti e in tanti Paesi. Anche nel nostro. Ma di Hassan Dah non si parla.

Quella di Mohamed Dihani, 28 anni, è la storia più inquietante. Nel 2010 torna a casa dopo alcuni anni in Toscana, tra le province di Livorno e Grosseto, impegnato in lavori stagionali come tanti immigrati: d’estate a vendere chincaglierie sulle nostre spiagge, in autunno a vendemmiare. Durante i festeggiamenti per la liberazione dal carcere di un cugino, si allontana un momento dalla festa ed esce in strada. Scompare. Per mesi è tenuto nella prigione segreta di Temara, nei pressi di Rabat. Sottoposto a torture di ogni tipo, finché gli viene fatta una proposta difficile da rifiutare. Se sarà disponibile a collaborare, tutto cambierà.

Piegato nel fisico oltre l’immaginabile, accetta. Per alcuni giorni gli sembra di sognare: i migliori cibi, sigarette, vestiti puliti. Gli spiegano che ci saranno degli attentati, in Marocco e in Italia. Dovrà firmare un documento di rivendicazione a nome di una fantomatica cellula jihadista collegata al Fronte Polisario. Si ribella a un simile ricatto. E’ trasferito nella famigerata prigione di Sale’. Blanca Enfedaque ha scritto sulla vicenda un articolo di forte impatto emotivo: Imagina que eres Mohamed Dihani. Una cronistoria. Atto d’accusa lucido e dolente sul comportamento delle forze di sicurezza (vedi documento a fondo pagina). Undici volte è stato rinviato il processo. La nuova data è fissata per il 4 marzo.

Mohamed Fadel Leili è avvocato del Foro d’Agadir. Ci riceve nello studio in rue Sarou. All’ultimo piano di una palazzina nel centro di Laayoune. Per le scale, incrociamo gli studenti del sottostante Centro di Lingue. La stanza è arredata in modo spartano. La libreria trabocca di testi giuridici in arabo e francese. Una lampadina illumina fiocamente la stanza. Mohamed parla  a voce bassa. Una voce calda e tranquilla che trasmette sicurezza. L’avvocato dà il proprio patrocinio gratuito nella difesa dei prigionieri politici. Sono in tutto sei gli avvocati a fianco dei saharawi: quattro a Laayoune,  uno a Casablanca e a Rabat. Subiscono costanti pressioni perché desistano da questa scelta professionale. Lui stesso è stato in prigione per motivi politici dall’età di sedici anni, dal 1976 al 1991. Ci spiega la difficoltà di accedere alle carte processuali, dei giudici che rifiutano le perizie richieste dalla difesa, i continui vizi di forma che si trovano a fronteggiare. Di come l’obbligo delle quarantott’ore di custodia cautelare prescritte dalla legge, è bypassato dando notizia dell’arresto anche molti giorni dopo. Di come nessun procuratore perseguita i poliziotti denunciati. Per uno svolgimento corretto dei processi – aggiunge - è fondamentale la pressione internazionale della stampa e delle organizzazioni umanitarie, oltre che degli Stati. Nel salutarci, l’avvocato ci spiega: “A noi saharawi, se qualcuno ci dà il buongiorno, siamo felici. Con voi, arrivati fin qui per sapere, abbiamo un debito di riconoscenza”. Usciamo dall’incontro turbati. Una folla di pensieri ed emozioni attraversa i nostri ragionamenti. In questi giorni stiamo scoprendo come il Governo locale si ribella e rifiuta la forza morale della controparte colpendola con strumenti repressivi. Perché l’azione non violenta ha un valore in sé superiore alle conseguenze. Una sofferenza costante non subita passivamente ma elaborata come forma morale di reazione. Una forza collettiva. Disarmante. E tale appare ai rappresentanti del potere.

Nel frattempo, il 2013 è iniziato con avvenimenti che, su piani diversi, rendono sempre più  urgente una soluzione del dossier Sahara Occidentale. L’intervento della Francia nel vicino Mali, che segue un cambio di passo della politica estera del nuovo governo di Hollande verso Algeri, porta con sé la necessità di una stabilizzazione dell’intera area del Maghreb, attualmente controllata dai signori della guerra, tra cellule terroristiche e contrabbandieri di droga ed armi. Che questa sia la strada giusta, lo conferma l’accelerazione costruttiva che l’inviato dell’Onu Christopher Ross ha dato alla propria missione negli ultimi mesi. Profondo conoscitore del Medio Oriente, già ambasciatore in Algeria e Siria, di recente il diplomatico americano si è recato per la prima volta a Laayoune. Ha scelto di alloggiare nell’edificio assegnato alla Minurso, la missione delle Nazioni Unite per il referendum nel Sahara Occidentale, anziché presso il Governatorato. Lì ha incontrato Aminatou Haidar e i rappresentanti del popolo saharawi. Un gesto che conta assai più di tante parole.

Con Aminatou Haidar

Ma in questi giorni arrivano notizie di segno opposto. Rinvio dopo rinvio, l’1 febbraio è iniziato a Rabat il processo agli imputati di Gdeim Izik. Il Tribunale Militare l’ha subito rinviato all’8 febbraio. Da quel momento, a tappe forzate, le udienze si sono succedute senza sosta. Presenti oltre 50 osservatori internazionali, i giudici hanno cercato di dare loro un apparente segnale di apertura. Dato che il processo si svolge in hassaniyya, l’arabo parlato nella Regione, per gli osservatori hanno autorizzato la presenza di interpreti in lingua inglese, francese e spagnola. Numerosa la presenza italiana. Ne incontriamo alcuni componenti. Siamo a Roma, nella Sala del Mappamondo della Camera dei Deputati, per le “Osservazioni Preliminari sul Sahara Occidentale” presentate da Santiago A. Canton direttore Robert Fitzgerald Kennedy Partners for Human Rights e Federico Moro direttore Esecutivo RFK Center. La preoccupazione di Andrea Ceccardi, 23 anni, studente di giurisprudenza appena rientrato dall’aver assistito alla prima giornata del processo, traspare dal tono grave delle sue parole: “Lo Stato marocchino sta violando le sue stesse leggi. Gli imputati sono in carcere da oltre due anni, mentre il termine massimo per la custodia preventiva è di un anno anche per i reati più gravi”. Timori confermati dall’avvocato Roberta Bussolari di Modena: “Essere giudicati da un Tribunale Militare comporta la possibile applicazione di pene gravissime. In questo tipo di giudizio non sono garantiti i diritti di difesa degli imputati. E’ importante – aggiunge appassionatamente – coinvolgere il maggior numero possibile di giuristi per garantire una presenza costante di osservatori ai processi”.

Parole che a distanza di pochi giorni troveranno conferma nelle decisioni dei giudici. Alle tre della notte tra il 16 e il 17 febbraio sono state emesse le condanne, al termine di un processo-lampo mai entrato nel merito delle prove prefabbricate e delle confessioni estorte con le torture. Sentenze a senso unico: 9 ergastoli (tra loro Bani Mohamed), 4 condanne a 30 anni di reclusione (compreso il giornalista Hassan Dah), 7 a 25 anni e 3 a 20 anni. L’Osservatorio per i diritti umani (Ossin) di Napoli è tra i primi a denunciare le decisioni del Tribunale Militare (5). Poche ore dopo, quello stesso 17 febbraio, a Madrid è avvenuta la consegna dei premi Goya, gli Oscar spagnoli. Nella categoria del miglior documentario, il premio è stato assegnato a Hijos de las Nubes, la ultima colonia (Figli delle Nuvole, l’ultima colonia), che racconta l’odissea del popolo saharawi. Sul palco, l’attore spagnolo Javier Bardem, nel ruolo di produttore, ha ritirato la statuetta con parole durissime per le pene appena comminate e i diritti negati nel Sahara Occidentale. Un segnale, piccolo quanto si vuole, che qualcosa si sta muovendo nell’opinione pubblica democratica. Un impegno civile che ciascuno può raccogliere e rilanciare sulla nuvola che compone la Rete. Perché i Figli delle Nuvole hanno il diritto di scrollarsi di dosso l’ultima colonia che impedisce loro di vivere in un Saharawi libero.

 

Con coraggio, determinazione e un po' di fortuna. In sordina ma con la meta precisa verso un popolo che non si rassegna alle discriminazioni e alle persecuzioni, e che lotta nel modo più valido, per noi che vediamo nella nonviolenza il mezzo difficile ma risolutivo per risolvere i conflitti.

Storie come questa, nella sua crudezza e verità, come fanno a incunearsi tra le notizie "standard" che popolano i media? Quando è il potere economico globale che sembra comandare su tutto e su tutti, e manipolando mezzi di comunicazione e coscienze, indifferenza e false necessità?

Ma anche su questo abbiamo da loro, dagli oppressi del Sahara Occidentale, un insegnamento: quel far sapere, quel comunicare dal basso, quella radio artigianale e solitaria che affida a deboli onde la speranza di un popolo. Quasi uno sperimentare con poveri mezzi il passaparola multimediale tra la nostra "base" che discute in modo critico e propositivo le storture del mondo industrializzato.

La missione degli amici fiorentini anch'essa ha da scalfire l'atmosfera uniforme e banale della nostra vita solita; adesso una volta letto tutto questo si aprano gli occhi e si scuotano le coscienze. Qualcosa - leggo nella parte finale del lungo articolo - già forse si muove nell'opinione pubblica. Rivedo nelle parole di Andrea quanto già da tempo il "popolo di Internet" sta cercando di fare: un'informazione libera e non soggiogata, un passaparola di bit e di consapevolezze che si estendono: "Un impegno civile che ciascuno può raccogliere e rilanciare sulla nuvola che compone la Rete. Perché i Figli delle Nuvole hanno il diritto di scrollarsi di dosso l’ultima colonia che impedisce loro di vivere in un Saharawi libero."

 

Roberto Del Bianco

Note: (1): http://www.rasd.tv/
(2):http://equipe-media.blogspot.it/
(3): http://www.facebook.com/equipemedia?fref=ts
(4): http://poemariosaharalibre.blogspot.it/
(5): http://www.ossin.org/sahara-occidentale/tribunale-militare-rabat-processo-25-saharawi-gdeim-izik.html

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