Le chiese e la pace
1. Confessione 2. Fede nella pace 3. La pace è non-dominio 4. La fede in Dio
nonviolento 5. Sacrificio e violenza 6. Il Vangelo è rivoluzione politica 7. Con le altre religioni
11 02 18 Chiese e pace
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(pubblicato in parte su Missioni oggi, www.saverianibrescia.com aprile 2011, pp. 29-31)
Le chiese per la pace
1. Confessione 2. Fede nella pace 3. La pace è non-dominio 4. La fede in Dio
nonviolento 5. Sacrificio e violenza 6. Il Vangelo è rivoluzione politica 7. Con le altre religioni
Qual è il pensiero e la prassi dei cristiani riguardo alla pace? Le nostre chiese sono strumenti del vangelo di pace che abbiamo ricevuto? Senza pretesa di un bilancio, indico solo alcune delle risorse e delle difficoltà profonde in questo compito: frammenti di una realtà varia, non tutta visibile e verificabile.
1 – Confessione
Confessiamo anzitutto il nostro peccato verso la pace. Utilizziamo un sistema di consumi che fa violenza al mondo, unica casa comune a noi che ne godiamo, a chi ne è defraudato, ai posteri. Una cultura corrente considera inevitabili molte forme di violenza. La violenza è persino nel racconto biblico, è stata anche giustificata dalle Chiese, ed è dentro le Chiese stesse.
Non abbiamo formule risolutive, ma ci sono ricerche ed esperienze che come cristiani abbiamo il dovere di conoscere, seguire, favorire con la partecipazione e il contributo. Non avremo pace in coscienza, fin quando le nostre chiese non saranno segnali chiari di libertà della voracità possessiva che sfrutta il mondo e i viventi, e non incarneranno esperienze di fraternità e parità.
Fede nella pace
Il punto radicale mi sembra questo: se abbiamo fede, è fede nella pace. Se crediamo nel Dio mostratoci da Gesù, allora crediamo che il bene c’è, e dunque può venire, anche nelle situazioni più dolorose, ingiuste, disperate. Il Regno che Gesù annuncia e rivela, è la vita buona e compiuta, e infine felice, attraverso un travaglio di nuova nascita.
Dio è pace, perché è bene, perché è vita affermata sul nulla. Si è fatto carico della non-pace del nostro mondo, provando con noi la morte e l’inferno, per riempire di vita risorta la nostra mortalità. Col suo totale donarsi ci ha dato una legge di vita, che è l’opposto di violenza e dominio: «I dominatori dei popoli li signoreggiano, e si fanno chiamare benefattori. Ma voi non così ». Luca (22, 25-26) si distingue col mettere queste parole nella Cena, culmine della vita di Gesù e convocazione della Chiesa.
La fraternità è il non-dominio, è riconoscerci uguali nella dignità essenziale, nonostante il male, l’avversione, l’inimicizia, che la sfregiano. Sopra Caino Dio pone il suo segno. Anche nelle funzioni e ruoli nelle chiese la prima regola è la fraternità, l’uguale dignità e rispetto, senza superiorità sacre da omaggiare, che sarebbe imitare i dominatori dei popoli.
3. La pace è non-dominio
La pace è l’opposto del dominio, dell’opprimerci, offenderci, disprezzarci, usarci come strumenti. Chi decide di non odiare, non uccidere, non condannare, fa un atto di fede nel valore degli altri, della realtà. Anche se non nomina Dio e nemmeno lo pensa, costui imita Dio, il quale ha fatto alleanza con ogni carne vivente, credendo di nuovo nell’umanità condannata come malvagia..
Le nostre chiese, illuminate dalla conoscenza di Cristo, potrebbero non tanto ammaestrare quanto affiancare fraternamente queste energie dell’umanità, sostenerne la speranza e la fatica, contro gli scoraggiamenti, contro la diffusa ideologia della violenza regina del mondo.
Nonostante la malvagità, del mondo e nostra, crediamo nella pace. «Osare la pace per fede», diceva Bonhoeffer, cioè non garantirsela con la sicurezza, con l’armamento superiore all’altro, cioè con la fede nel dominio. Quando invece le nostre chiese, specialmente se si credono strutturalmente forti, fanno patti di potere coi dominatori, pensando così di influire sulla società, non credono nella verità della pace ma nel dominio, peccano di idolatria, radice di tutti i peccati.
4. La fede in Dio nonviolento
La divinità violenta, punitiva, vendicativa, è proiezione della nostra violenza in Dio, fatto supremo difensore e giustiziere. Come notava Giuseppe Barbaglio, nella Bibbia, come in generale nelle religioni, l’immagine di Dio è duplice: affascinante e tremendo. Il 90% della Bibbia riflette questo ambivalente archetipo religioso, ma lo straordinario è il 10% di immagini chiare di un Dio di amore.
La contraddizione si trova nelle scritture ebraiche e in quelle cristiane, anche se nelle seconde «al Dio che ama i buoni e punisce i cattivi subentra il Dio che ama tutti, perché tutti sono ugualmente sue creature». Gesù porta un vangelo di misericordia per i peccatori, purché non vogliano ipocritamente apparire giusti. Anche in Gesù c’è un giudizio di salvezza o condanna, ma spicca il Padre «che fa sorgere il suo sole sui cattivi e sui buoni, e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti» (Matteo 5,45): immagine che scandalizza i religiosi.
Barbaglio conclude: «Il nostro compito è togliere l’immagine di Dio dalle mani dei lettori violenti e metterla in quelle di lettori nonviolenti: l'obiettivo è il riscatto della Bibbia». «C’è un reciproco influsso tra l’immagine che ci facciamo di Dio e l’immagine che abbiamo di noi stessi e che guida la nostra esistenza e la nostra azione. L’immagine di un Dio non violento ci aiuta a camminare verso la nonviolenza: è questo il contributo che la teologia del Dio biblico offre a una cultura della pace».
A parte i fondamentalismi che giustificano la violenza con la religione, accade che le strutture religiose cerchino, concedendo appoggio, una pace vantaggiosa coi potenti, invece di annunciare francamente in faccia ai potenti la pace promessa da Dio ai poveri.
5. Sacrificio e violenza
L’idea di sacrificio, molto ambigua, incorporata nel cristianesimo storico, implica violenza teologica. “Sacrificio” significa due cose opposte: a) nella storia delle religioni, distruzione di altri (frutti, animali, umani) per la propria salvezza; b) nella vita di tutti, impegno e offerta di sé a rischio della vita, per la salvezza di altri (p. es. chi affoga per salvare un bambino). La morte di Cristo può essere detta sacrificio (azione sacra, alta) solo nel secondo senso: fu amore coraggioso “fino in fondo” (Gv 13,1), per fedeltà all’annuncio del regno, nonostante il male che lo violenta. Ma è stata intesa da molti (cristiani e non) come voluta dal Padre per ottenere l’unica adeguata espiazione dei peccati dell’umanità nel sacrificio del Figlio innocente e puro, fatto capro espiatorio e vittima della sua ira. Sarebbe un kakangelion, un annuncio di Male, contro il Bene annunciato da Cristo.
Se le chiese vogliono portare pace devono purificare dall’idea ambigua di sacrificio il loro linguaggio, perché con Cristo ogni sacrificio è finito e l’offerta di sé non è distruttiva, ma creativa di nuova vita. L’ideologia vittimaria porta tanto a farsi vittime quanto a fare vittime, immaginando una legge di equilibrio tra offesa e pena, invece di vedere in Cristo l’amore che vince il male.
La croce di Cristo è un crimine umano, che Gesù ha affrontato e patito (patire non è subire) per consapevole coraggiosa fedeltà alla sua missione, sfida di verità alla falsità, violenza, dominio e divisione. Nello scontro col potere malvagio, egli si è fatto scudo e riparo di tutti, perché non si risponda più al male con vendette e vittime espiatorie, ma con la forza dell’amore che perdona e vivifica. Il Padre conferma la morte per amore del Figlio col dargli la vita risorta. In questa vita rinasce chiunque comprende la forza dell’amore (che Gandhi chiama satyagraha).
6. Il Vangelo è rivoluzione politica
L’amore universale, fino ai nemici, annunciato e mostrato da Gesù, è una rivoluzione politica. La cultura della solidarietà per amore altrui, sempre e oggi, implica mutamenti pratici profondi nei rapporti sociali rispetto al modello individualistico e utilizzatore che si è imposto con la “rivoluzione dei ricchi”.
Se nelle nostre chiese la “vera religione” non sarà compiere osservanze per salvarsi l’anima, ma vivere il bene, ospitare gli altri nella propria vita, dedicarsi al bene dei più bisognosi, le chiese ispireranno strutture di giustizia, quindi di pace.
Il rapporto religione-politica è assai delicato, proprio perché, per lo più, la logica del potere direttivo, verticale, è l’opposto della logica fraterna evangelica. Ma deve sempre essere così? Senza affatto imporsi a dirigere la società laica e secolarizzata, le chiese possono essere lievito comunitario, di fraternità (parola che fu anche della Rivoluzione francese), di ospitalità, di giustizia effettiva, di valore irriducibile di ogni persona, di libertà interiore.
Questo fermento c’è, agisce, senza clamore. Esso è efficace e credibile quanto più è disinteressato, libero da immagini e strutture di chiesa potenti e influenti, contigue ai centri di potere, e non è credibile quando lascia sospettare ricerca di vantaggi (come avverte il Concilio Vaticano II, Gaudium et spes, 76). Solo il «dare senza attendere contraccambio», senza calcolo, è rivelazione del Regno e dei «figli dell’Altissimo» (Luca 6,35).
7. Con le altre religioni
Credo che per servire la pace, le nostre chiese debbano, come hanno cominciato a fare, sempre più colloquiare e collaborare con le altre religioni. Si può vedere il documento Religioni_e_Pace EATWOT.pdf, preparato dalla Ecumenical Association of Third World Theologians in vista del Forum Sociale Mondiale di Dakar ( sito internationaltheologicalcommission.org )
Tra i molti spunti ivi contenuti, segnalo il criterio proposto per la validità storica delle religioni, ognuna e nel loro insieme: il «punto di vista dei poveri» (pp. 28-29), cioè la giustizia da rendere ad ogni essere umano offeso nella vita, nella sussistenza, nella dignità e libertà. Già questo criterio impegna le religioni a negare qualunque appoggio a forme di violenza o dominio degli uni sugli altri, ed anzi a sostenere con intime energie spirituali le lotte nonviolente di liberazione e giustizia.
Enrico Peyretti, 18 febbraio 2011
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