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Violenza, aggressività e cooperazione, altruismo nel pensiero pacifista

Dal pacifismo alla nonviolenza - Antidoti alle varie violenze - Differenza tra forza e violenza - Resistenza alla violenza finanziaria
29 luglio 2013

Gandhi confrontation; protester Tienanmien

 

Pacifismo  
Il pensiero pacifista è quello antico, come ideale e profezia; quello moderno, come modello utopico negli umanisti; quello contemporaneo, come costruzione etico-culturale e politica. Esso poggia sull'opposizione di due realtà storiche: la guerra e la pace. Il pacifismo analizza e denuncia i mali e i danni della guerra, per condannarla, evitarla, e per costruire pensieri e azioni che fondino la pace coi mezzi della pace. In passato il pensiero della pace lavorava prevalentemente sulle virtù personali, magari sulle virtù del principe, nelle cui mani era la guerra e la pace, la vita e la morte dei popoli sudditi. Buono o cattivo il re, la vita della gente era meno infelice o più infelice. La pace pubblica, fino ai nostri tempi, era l'auspicata e sospirata tregua tra una guerra e l'altra, occupazione principale dei principi. Norberto Bobbio (Il problema della guerra e le vie della pace, Il Mulino, 1a edizione 1979, 4a 1997) nota che in prevalenza la guerra viene definita positivamente, con connotati caratterizzanti, e la pace viene definita come assenza di guerra, come non-guerra. È percepita con un termine debole, pur essendo una condizione preferita, di minor sofferenza. Lo stato di natura, per Hobbes, è stato di guerra. Bobbio arriva ad affermare che, nella storia della filosofia politica, «esiste una grande filosofia della guerra (...), non esiste una grande filosofia della pace» (p. 163 e 122 nella due edizioni). Forse non è cosi nel pensiero umano generale, della vita, e neppure in tutta la filosofia della politica. Ma resta vero che il concetto di pace, fino al nostro tempo, riguarda prevalentemente l'atteggiamento personale, privato, mentre sul piano politico è solo la pace negativa, la non-guerra.

Quali violenze
Il movimento di pensiero e di azione che, dal Novecento, ha in Gandhi (ma non solo) il maggiore maestro e promotore, cambia anzitutto l'immagine mentale della guerra e della pace. Lo stesso Gandhi, e il successivo movimento gandhiano, riconoscono, insieme al socialismo, che la violenza offensiva non è solo nella guerra, ma forse ancor più è nelle strutture sociali impregnate di ingiustizia, di grandi diseguaglianze privative, dolorose, offensive della dignità umana. Questa violenza strutturale è più profonda, meno visibile e ripugnante, della violenza diretta, armata, fisica. Gandhi ha lottato col colonialismo, col razzismo, ma più ancora (ed è l'aspetto meno conosciuto) con l'ingiustizia sociale e i difetti culturali della stessa società indiana.
Un livello di violenza ancora sottostante, più facilmente e passivamente accettato e tramandato, è la violenza culturale: una concezione dell'umanità e specialmente dei conflitti (differenze e tensioni tra gli umani), per la quale il criterio decisivo sarebbe la forza violenta. Questo criterio è pensato come un dato di natura, una necessità storica. Rotto il dialogo razionale e la trattativa, tra i contendenti regna e decide la violenza. È la cultura che conviene ai potenti, è da loro diffusa, perché giustifica la loro vittoria e il loro dominio sociale, assolve le violenze dirette e strutturali. La nonviolenza non si oppone solo alla guerra, ma alle sue radici. È molto di più del pacifismo. La pace positiva è l'assenza di violenze strutturali e culturali.

Nonviolenza
Gandhi, detto “il Galileo del conflitto”, ne ha rivoluzionato la concezione violenta. Raccogliendo sapienze antiche, dalla sua tradizione religiosa e dalle grandi spiritualità, ha pensato, sperimentato, proposto modi nonviolenti di vivere i conflitti umani. Accettare e affrontare il conflitto, smascherarlo quando è nascosto sotto realtà legittimate, non costringe alla violenza e alla guerra chi lotta per la giustizia. Conflitto non è sinonimo di guerra, anche se tuttora il linguaggio corrente confonde (per insufficiente analisi, utile al giustificazionismo della guerra) le due differenti realtà. Il conflitto può essere trasformato e gestito con i mezzi della forza nonviolenta.
Questo positivo lascito del Novecento, in mezzo alle grandi violenze di quel secolo, è la nonviolenza positiva, che dobbiamo distinguere dal generico pacifismo. Il pacifismo è l'impegno ad evitare o fermare la guerra, la nonviolenza attiva è l'impegno ad individuare e superare, oltre la violenza delle armi, soprattutto la violenza incarnata nelle strutture, e ancor più quella consacrata in culture che la giustificano. La guerra è soltanto un effetto o una reazione alla violenza strutturale, e la violenza culturale è quell'elemento che motiva e sostiene dall'interno, come naturale, inevitabile, anche giusta, la violenza nelle sue varie forme.

A che punto siamo?
Oggi, a che punto siamo? Violenza ce n'è tanta, sociale o statale. Soffriamo, in quanto esseri umani, anche quella che non ci colpisce direttamente. Il solo spettacolo della violenza è già violenza patita, e oggi, nelle notizie e nelle immagini, esso è continuo e intenso, a rischio di assuefarci. Secondo qualche statistica sono diminuite in quantità le guerre vere e proprie, ci sono vari "conflitti locali", o guerre interne, è aumentata la produzione e il traffico di armi sempre più terribilmente raffinate, ma la guerra più diffusa è la guerra economica, predatoria, da parte di alcuni nuclei e strumenti di grande ricchezza, a danno delle economie produttive e vitali di una quantità di popoli.
L'impegno odierno della nonviolenza come cultura e come azione rimane certamente la trasformazione nonviolenta dei conflitti armati, ma riguarda in gran parte quei conflitti economico-sociali-culturali che sono una vera e propria guerra di pochi ricchi contro il resto del mondo. Questa guerra è combattuta con gli strumenti di una finanza sconfinata e assolutamente spregiudicata, e anche con politiche statali assoggettate a centri incontrollati di potere. Una grave conseguenza, una prima vittima, è lo svuotamento di preziosi sistemi democratici ridotti a larve, e la creazione di finte nuove democrazie, tutte tese, le vecchie e le nuove, a legittimare il dominio reale sulla vita dei popoli, vita materiale e riflesso culturale. Dove i ricchi sono troppo ricchi e i poveri troppo poveri, la legge non è più uguale per tutti. Potenze finanziarie e mediatiche pervasive spacciano come droga mortale l'ideologia violenta per cui si può fare tutto ciò che materialmente si può fare: un'etica che annulla la qualità umana dell'umanità.

Antidoti alla violenza bellica
Davanti a questa nuova violenza, che si aggiunge alle guerre, cosa può fare il movimento utopico-realista della nonviolenza?
L'obiezione di coscienza alle armi (addestramento e uso) oggi non serve più, con gli eserciti volontari e professionali, mercenari. Si va soldato per disperazione sociale, disponibili all'organizzazione dell'omicidio scientifico: le giustificazioni si trovano.
Le manifestazioni popolari contro la guerra (quando ci sono, anche di decine di milioni nel mondo, come nel 2003) non fermano le azioni armate camuffate da azioni di pace, professionali, ultra-tecnologiche, come i droni degli omicidi mirati, non solo extra-giudiziali ma anche extra-combattimenti. C'è da disperare, ma disperare non si deve mai.
La condanna della guerra nel nostro tempo, sempre minacciato dal terrorismo delle vecchie e nuove potenze atomiche, deve essere totale. Giovanni XXIII nella Pacem in terris dichiarava «impossibile pensare (alienum a ratione) che la guerra nell'era atomica possa servire a risarcire i diritti violati». Cioè, non c'è più guerra giustificabile, né per la ragione né per l'etica religiosa e umana.
Questo giudizio per l'oggi e il domani non colpisce allo stesso modo tutte le guerre del passato. Per esempio, sulla guerra di Liberazione contro il nazifascismo, si deve dire che la conoscenza di metodi di nonviolenza attiva era rara, eppure la storiografia più attenta e accurata scopre, oltre la Resistenza armata, una quantità di forme di resistenza non armata e nonviolenta (si vedano autori come Anna Bravo, Annamaria Bruzzone, Rachele Farina, Antonio Parisella, Giorgio Giannini, Ercole Ongaro, per citare solo alcuni). Questi lavori dimostrano che la forza nonviolenta può lottare contro l'ingiustizia violenta, e potrebbe assai meglio se la cultura della difesa, anche statale, imparasse e organizzasse la difesa civile, i corpi civili di pace.
«La guerra è un mezzo tanto potente da far dimenticare il proprio obiettivo» (Todorov, La Repubblica, 23 marzo 2011). Per gli scopi dichiarati, la guerra è inutile, se non per i venditori di armi, ben incorporati nel complesso militar-industriale-scientifico-politico-mediatico. Oggi potrebbe entrare nella cultura comune la convinzione che la guerra è uno strumento fallace, sfugge di mano, è solo micidiale. L'incertezza e pericolosità degli effetti seguiti alle primavere arabe dimostrano che i sollevamenti nonviolenti di popoli per la dignità e i diritti sono traditi e frustrati se si affidano alle armi.
L'osservazione dei tempi lunghi permette di vedere il realismo e l'efficacia della nonviolenza come mezzo delle lotte giuste. Si può registrare un notevole successo delle rivoluzioni nonviolente. Su 323 rivoluzioni del secolo XX, quelle nonviolente sono state un centinaio, e hanno avuto successo al 53%; quelle violente, invece, al 26%. Nel periodo 1975-2002, sono state 47 le rivoluzioni nonviolente, o per lo più non-violente; su 18 condotte da forze nonviolente e coese, 17 hanno vinto e una sola ha avuto un successo parziale. (Antonino Drago, Le rivoluzioni nonviolente dell'ultimo secolo. Nuova Cultura, Roma 2010. I dati provengono da fonti statunitensi).

Stato e guerra
Le culture politiche intra-sistema sono sorde alla proposta di corpi civili di pace, di metodi nonviolenti. Gli stati, anche quelli democratici, si identificano con le armi e celebrano la festa nazionale, - in Italia il 2 giugno, anniversario del più disarmato gesto politico, il voto nel referendum istituzionale - con l'esibizione dell'esercito, preso come immagine e simbolo massimo della res-publica, dell'unità popolare. Si tratta di una distorsione mentale, una brutta cisti incastrata nella concezione dello stato. Come ha dimostrato Ekkehart Krippendorff, in un lavoro ormai classico (Lo stato e la guerra. L'insensatezza delle politiche di potenza, trad. ital. Gandhiedizioni, Pisa 2008), gli stati moderni sono nati intimamente legati all'apparato militare. La guerra, più che strumento dello stato, è stata la matrice dello stato. Anche quando una costituzione, come la nostra, ripudia la guerra, la costituzione materiale statale dipende da quell'origine e ancora non la supera culturalmente con un altro modello più umano di difesa, di sviluppo civile, di valori politici. I corpi civili di pace oggi esistenti sono coraggiose iniziative che nascono dalla società civile, ignorate dalle istituzioni.1 Nel discorso di re-insediamento del Presidente Napolitano, il 22 aprile 2013, il riferimento più applaudito, anche da Napolitano stesso, è stato quello alle missioni militari dette “di pace”.

Forza e violenza, polizia e guerra
Il primo antidoto alla guerra come alle violenze sociali dell'ingiustizia, è culturale, morale: consiste nel modo in cui pensiamo noi stessi come persone umane e i nostri rapporti di convivenza. Il punto è se riconosciamo la dignità umana in ogni persona e popolo, al di là anche di eventuali malefatte, e dunque se regoliamo noi stessi secondo quella stessa dignità che ci unisce, anche nei conflitti, e che è sempre inviolabile.
A me sembra di primaria importanza la distinzione tra forza e violenza. C'è una confusione nefasta tra le due realtà e i due concetti, due chiari poli tra cui corrono zone sfumate. La forza è un carattere della vita, la violenza è distruzione e offesa della vita. La forza è vitale, la violenza è mortale. La forza fisica può essere usata, come arma impropria, per infliggere violenza, violando dignità e diritto. Ma in sé la forza non è violenza. La forza morale e organizzativa è sostanza della lotta nonviolenta: resistenza all'offesa, forza della volontà e dell'unità, chiarezza costruttiva, convinzione sui valori da difendere e rafforzare.
La confusione tra i due concetti e le due realtà serve a legittimare violenze: vedi l'espressione "forze armate" per dire l'esercito.
Nella comunità politica (anche per Gandhi quando immagina lo stato nonviolento) è necessaria la forza pubblica, per contenere, ridurre, impedire la violenza. Ma quando quella forza passa alla violenza contro azioni legittime dei cittadini, come fu in gran parte a Genova nel 2001, allora non è più forza pubblica legale a difesa della convivenza, ma guerra dello stato ai cittadini, massimo tradimento del patto civile. Non è più polizia civile, ma esercito di guerra civile. Lo stato moderno è ancora così legato allo strumento della violenza legittimata, che tenta sempre di manipolare il giudizio sulle proprie illegittimità violente. Politica e guerra sono ancora sposate. Ricordo che per D'Alema, presidente del consiglio della guerra alla Serbia nel 1999, saper fare politica implicava saper fare la guerra.
Se ci ricordiamo la distinzione di Erich Fromm tra aggressività maligna e benigna (Anatomia della distruttività umana, Mondadori, Milano 1979), possiamo distinguere bene una aggressione violenta da una forza nonviolenta che, senza offendere vita e dignità, preme sul potere ingiusto con la disobbedienza e la non-collaborazione massiccia, gli impone condizioni che rendano più conveniente trattare che dominare. Tipica azione forte nonviolenta, caratteristica del movimento operaio nella sua storia, è lo sciopero, che sottrae temporaneamente la collaborazione al profitto ingiusto, per piegare il capitalista a trattare condizioni più giuste.
La distinzione reale, non verbale, tra polizia ed esercito, tra ordine pubblico e guerra (distinzione carente nell'educazione degli agenti dell'ordine), orienta a chiarire responsabilità e azioni della comunità internazionale verso le violenze nel mondo. L'Onu, nata per eliminare la guerra, dovrebbe sviluppare, coi mezzi tolti alle industrie di armi, una vera polizia internazionale, rappresentativa del bene comune e non di interessi coalizzati, numerosa e attiva, preventiva e contenitiva, che non riproduca la guerra alla guerra.
  Guardando anche alle recenti rivoluzioni arabe, nonostante le complessità dei singoli casi, si può dire che probabilmente, nei movimenti popolari autentici, sta crollando il mito della violenza rivoluzionaria risolutiva. La violenza, militare e strutturale, rimarrebbe prerogativa dei poteri oppressivi.

Resistenza alla violenza finanziaria
Come opporre resistenza alla violenza finanziaria globale è un problema immane e relativamente nuovo in queste dimensioni. La cultura nonviolenta sta cercando e costruendo modi e strumenti, ai due livelli, personale e collettivo. Anche qui il primo punto è di cultura, di coscienza, dal quale germinano ricerche ed esperienze di economia solidale.
L'economia violenta è frutto di una antropologia separatista, oppositiva, dove l'individuo è un frammento sostanzialmente irrelato: diceva la Thatcher che esistono gli individui, non la società. Ogni frammento umano agisce sulla realtà naturale, sul commercio dei prodotti, come un pirata accaparratore, come se l'economia fosse un campo di caccia, e non invece il campo della vita sufficiente e decente per tutti gli umani e i viventi.
 La prima lotta alla finanza predatoria è la lotta morale e culturale al diritto di preda. Qui sta il discrimine tra un'antropologia della potenza manesca e un'antropologia delle mani tese e intrecciate; il discrimine tra la competizione e la collaborazione. Che è poi il discrimine tra la guerra e la pace, semplicemente. Il futuro dell'umanità, e del suo ambiente vitale, passerà, oppure non passerà, attraverso questa «mutazione antropologica», dall'uomo rivale all'uomo sociale. Sulla zattera del nostro pianeta vagante negli spazi infiniti, ci salveremo insieme o non ci salveremo. Quella mutazione, nel linguaggio di Ernesto Balducci (La terra del tramonto. Saggio sulla transizione, Ed. Cultura della Pace, Fiesole 1992) e delle sapienze a cui egli attingeva, richiede di far nascere dall'uomo finora edito un «uomo inedito». Il quale non è solo profezia di una speranza religiosa ultrastorica (che pure ci sostiene), ma è anche fede nella presenza storica e attiva di un Spirito, fonte massima di vita spirituale e di continuo alimento e rinnovamento del cammino di umanizzazione.

 

Note: Pubblicato col titolo "Violenza e cooperazione nel pensiero pacifista", in "Esodo" (Il pugno e la carezza. Riflessioni sulla pace), n. 2 aprile-giugno 2013, pp. 26-31, associazionesodo@alice.it ; www.esodo.net

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