Giornalismo di pace
Giornalismo di pace
Testo dell'intervento di Enrico Peyretti, del Centro Studi Sereno Regis, e direttore del mensile "il foglio", che esce dal 1971, nel convegno "Cultura, scienza e informazione di fronte alle nuove guerre", Politecnico di Torino, 22-23 giugno 2000. L'intervento, tra l'altro, raccoglie, rimedita, rielabora in proprio alcuni spunti tratti da un seminario condotto da Johan Galtung a Torino lo scorso febbraio, sul medesimo tema.
Pubblicato nel volume Contro le nuove guerre, Scienziate e scienziati contro la guerra, a cura di Massimo Zucchetti, ed. Odradek, via delle Campiglie 112, 00169 Roma.
Un proverbio piemontese (che si ritrova dappertutto) dice: «Gnuñe neuve, boñe neuve» (mi si perdoni l'incerta grafia): nessuna notizia, buone notizie. Ero bambino nel 1945: finiva la guerra e io mi chiedevo: «Che cosa scriveranno i giornali ora che non c'è più la guerra? Usciranno con poche colonne e grandi spazi bianchi?». Ero anch'io prigioniero dell'idea che la vita normale non fa notizia! Si sa bene: solo se il padrone morde il cane, è una notizia. La vita tranquilla, cioè in pace, non interessa come notizia? Notizia è solo lo strappo, e non il tessuto della vita, delle opere e dei giorni? Solo il terremoto e non la crescita del grano? Il giornalismo non può essere che di guerra? L'assenza di notizie sarebbe la notizia più tranquillizzante.
Qui è in gioco la concezione del tempo e delle azioni umane, della storia. La storia è mossa e promossa solo dalle guerre? E così pure la cronaca quotidiana? Questo hanno imparato a scuola molte generazioni, anche molti di noi, perché la storiografia è stata opera degli scribi delle corti, occupate nelle guerre. Poi è venuta l'attenzione degli storici alla vita dei popoli, fino alla microstoria del quotidiano, non meno seria, interessante e istruttiva. Se la storia è questa, la storia della vita, essa comprende la guerra e la pace, l'amore e l'odio, la distruzione e la costruzione. Se storia è quella della vecchia concezione, dei prìncipi, delle potenze, delle guerre, allora si deve dire di essa quello che ne scrive Gandhi, quando gli viene contestata la nonviolenza come astorica: «La storia in realtà è una registrazione di ogni interruzione della costante azione della forza dell'amore o dell'anima (...), è una registrazione di un'interruzione del corso della natura. La forza dell'anima, essendo naturale, non viene registrata dalla storia». La storia è dunque un sismografo, che dorme quando la terra vive, ma non trema? Ma Gandhi scriveva pure che «il fatto che vi sono ancora tanti uomini vivi nel mondo dimostra che questo non è fondato sulla forza delle armi ma sulla forza della verità e dell'amore», cioè dimostra che la storia reale dell'umanità non è quella delle guerre (cfr Teoria e pratica della nonviolenza, Einaudi 1996, pp. 64-65). La vera storia è il tessuto continuo della vita, nel quale crescono le cose umane, pur con i problemi che la vita sa risolvere più o meno bene, mentre violenza e guerre ne sono soltanto lo strappo. Analoga considerazione si può fare per l'informazione, che è la storiografia in formazione, giorno per giorno, salve le necessarie rimeditazioni successive. Merita informare solo sulle rotture della tela della vita? La vita non dà nulla da raccontare?
Il giornalismo corrente è per lo più giornalismo di guerra. Così come le nuove guerre sono anzitutto (purtroppo non soltanto) guerre di informazione manipolata. E' più facile confezionare e vendere la notizia-rumore (l'albero che cade; l'evento sensazionale) che la notizia-lettura-profonda dei fatti come segni di movimenti più continui e interni alle cose (la foresta che cresce; il processo insensibile ma più decisivo). Tuttavia, c'è da chiedersi se davvero l'informazione "violenta" va incontro alle richieste del pubblico. Secondo Galtung, la grande maggioranza delle donne, e degli uomini anziani (dopo i 55 anni, passata l'età "militare", «diventano quasi umani»), non chiedono notizie di violenza.
Tra le notizie-rumore primeggiano i fatti di violenza (dalla cronaca nera alla guerra), ma della sola violenza diretta, fisica. L'informazione su una manifestazione di protesta, p. es., è quasi sempre e quasi soltanto su atti di violenza, anche se riguardassero l'1% o l'1‰ dei manifestanti, e non sulle ragioni e le forme nonviolente di protesta contro una situazione o una struttura violenta. La violenza strutturale, globalmente maggiore, più continua e profonda di quella diretta, sfugge per lo più all'informazione centrata sull'evento assai più che sulla struttura e sul processo. Così, anche involontariamente, il giornalismo corrente compie a sua volta una violenza culturale, col contribuire ad occultare le violenze maggiori, ed a condannare esclusivamente, dopo averli amplificati, gli scoppi episodici di violenza diretta, ma secondaria.
La cronaca violenta ottiene anche, d'altra parte, di fare apparire inevitabili gli atti violenti quando c'è un contrasto, sicché per evitare la violenza bisognerebbe evitare la critica e l'opposizione; oppure, ottiene di rendere quegli atti persino attraenti per lo spettatore, come interruzione della normalità insignificante, drogando in lui una sensibilità assopita, incapace di sentire i movimenti lenti e profondi.
Il primato della violenza nell'informazione quotidiana costituisce una pedagogia della violenza (poiché la televisione è sempre - nel bene e nel male - educativa, come nota Karl Popper, Cattiva maestra televisione, i libri di Reset, Donzelli 1994), cioè instilla una visione della vita decisa dal conflitto eliminatorio. Che non si possa accendere un televisore senza veder uccidere una persona entro cinque minuti, sia pure in programmi di finzione (ma non solo), è segno madornale della pazzia che inficia la comunicazione di massa.
La cultura di pace, dopo l'analisi e la denuncia, che resterebbero sterili senza il lavoro costruttivo, non può evitare di confrontarsi con quella produzione di cultura, con quel potere culturale, che è l'informazione di massa, fattore determinante degli orientamenti in democrazia. Galtung individua in queste coppie contrapposte l'orientamento dei due tipi di giornalismo, di pace e di guerra: conflitto-violenza, verità-propaganda, popolazioni-élites, soluzione-vittoria (cfr Peace journalism: what, why, who, how, when, where; www.transcend.org).
Il primo atteggiamento da prendere è "informarsi anziché farsi informare", anzitutto da parte di chi ha fatto una scelta etico-politica di pace, alternativa alle tendenze dominanti in corso, ma poi anche come problema di educazione democratica di massa alla libertà: l'atteggiamento passivo regala spazio alle emittenti potenti e ne subisce l'azione; l'atteggiamento attivo, del cercarsi le fonti e le conoscenze, realizza il "potere di tutti" (Aldo Capitini), quel potere dal basso che è sostanza di democrazia e di nonviolenza.
Ma una cultura dell'auto-informazione attiva è possibile a livello di massa? Sicuramente non è facile né prossima. Però, la tendenza e la ricerca deve essere questa. Anche solo l'aumento relativo della capacità di informazione attiva (che la tecnologia può favorire) può avere effetto positivo paragonabile all'alfabetizzazione e all'igiene sulla qualità di vita di un popolo. Anche il suffragio universale sembrava impossibile. La comunicazione molecolare, immediata e multipla, su grandi reti aperte, potenziata grandemente con la telematica, realizza possibilità nuove di informazione libera e scelta, quindi di collegamento tra le iniziative democratiche di base. Se questa possibilità non verrà frustrata da forme di controllo già minacciate, sarà una reale acquisizione che si colloca, è vero, a livello degli strumenti, sempre ambivalenti, ma è tale da conferire anche una possibilità di qualità nuova.
Un secondo punto: come è possibile intervenire nell'informazione senza grandi mezzi economici? Galtung suggerisce, piuttosto che scrivere ai giornali, mendicando uno spazio sui media ricchi (ma io credo utile questa infiltrazione), di utilizzare internet e di fare piccoli giornali locali, da vendere nei supermercati. L'informazione su internet va a destinatari già abbastanza attivi, capaci di auto-informarsi. Giornali locali per destinatari condizionati dai grandi media, già vengono fatti, senza significativo successo. La massa legge poco e "guarda" molto. Noi, impegnati per la pace, per ora sappiamo comunicare-informare, anche con l'abbondante (e troppo dispersiva) produzione di media piccoli di forza e grandi di impegno, raggiungendo solo ambienti selezionati per capacità (tempo, abitudine, impegno) di lettura attiva.
Un dato interessante è che si vanno formando qua e là piccoli gruppi di giornalisti "per la pace", che si pongono i problemi a cui sto accennando (per esempio: info@nonluoghi.it ; www.nonluoghi.it ; oppure .org).
Il punto decisivo per un giornalismo di pace, come per tutta la cultura di pace, è la costruzione di una cultura del conflitto costruttivo. Il conflitto (la differenza, la tensione, il confronto dinamico) non solo è nella realtà, che l'informazione deve riflettere, ma ne è anche l'elemento propulsivo e trasformatore. In questo senso avrebbe ragione Eraclito nel dire che polemos è padre di tutte le cose, ma a condizione che il conflitto sia gestito, e prima di tutto interpretato, in modo costruttivo e non distruttivo. Se è concepito e vissuto come conflitto eliminatorio, che viene superato con l'eliminazione fisica o morale di uno dei due contendenti, il più debole, in seguito alla pura prova di forza, allora polemos non è genitore, ma affossatore di tutte le cose. Per Gandhi il conflitto è «occasione di verità», perché può allargare la visione e il campo di realtà di ciascuno dei contendenti, grazie alla stimolante diversità dell'altro. Il quale, anche per questo, è ricchezza da non offendere e distruggere.
L'errore abituale nell'informazione corrente sui conflitti consiste nel non saperli conoscere e analizzare adeguatamente. Un conflitto è fatto di molti elementi: i partecipanti principali e secondari, i diversi scopi di ognuno di essi, le contraddizioni, i possibili mediatori cointeressati alla soluzione. Ciò che avviene per lo più nell'informazione è una tremenda semplificazione, che riduce la contesa in forma binaria: Bush-Saddam, Clinton-Milosevic, tutsi-hutu. La "personaggizzazione" dei conflitti, al fine di farne spettacolo facilmente comprensibile, eccitante e vendibile, mette in evidenza i più violenti e perde di vista gli altri protagonisti e le risorse che essi portano.
In Ulster, non ci sono solo unionisti e repubblicani: l'80% della popolazione non è né l'uno né l'altro. Il merito del cammino di pace, con ascolto delle ragioni delle due parti avverse, viene da questa terza parte della società irlandese, largamente ignorata da chi ha il dovere di descrivere la realtà intera. Queste zone sociali non sono soltanto "grigie", come può giudicare la mania dello schieramento bellico assoluto, ma possono essere una riserva di soluzioni sagge e vitali, invece che mortali, di una mediazione non indifferente ai valori, di costruzione paziente e intelligente di vie d'uscita giuste.
Lo storico Antonio Parisella, nel libro di riflessioni sulla storia della Resistenza, Sopravvivere liberi (Gangemi, Roma 1997), distinguendo due fasi, la lotta per la sopravvivenza e la lotta per la liberazione, mostra come le azioni della popolazione sotto occupazione nazista per la propria sopravvivenza fisica e ideale, lungi dall'essere "attendismo", furono componente essenziale e basilare della Resistenza al nazifascismo, come di ogni resistenza. La liberazione è la forma compiuta della sopravvivenza, e la sopravvivenza è la condizione basilare della liberazione, come ben sapevano i prigionieri nei lager. L'informazione sui conflitti in corso è capace di ascoltare questi toni bassi, oppure ha i sensi ottusi, colpiti solo dai clamori acuti, in modo che chi viene così informato riceve una visione monca e drogata delle cose?
L'errore della riduzione binaria dei conflitti deriva da una cultura dualistica, da una dicotomizzazione del mondo: bene-male, amici-nemici. La semplificazione sembra favorire la comprensione, in realtà riduce il problema ad una alternativa eliminatoria: mors tua vita mea, appunto. Questa immagine riduttiva non inganna solo il destinatario dell'informazione, ma agisce sullo stesso conflitto e sulle possibilità di un esito meno violento e distruttivo, perché ignora e scarta dal gioco elementi, scopi, attori che lo compongono. Ci sono anche attori che non sanno di esserlo, ed hanno bisogno di essere informati e avvertiti, per diventare positivamente attivi. Ora, la complessità di un conflitto non è soltanto una difficoltà a risolverlo, è anche una opportunità per risolverlo costruttivamente: più parti e più obiettivi ci sono, se vengono tutti considerati e attivati, più diventa possibile cercare una soluzione non a somma zero (tutto il guadagno da una parte, tutta la perdita dall'altra), ma a somma positiva per tutte le parti, sebbene inferiore a quella dell'unico disastroso vincitore.
La mentalità che legge e fa leggere il conflitto, nel decorso e nella conclusione, in termini stretti di vittoria escludente, di vincitore-vinto, ricalca il modello dello sport-duello, teso nell'agonismo esasperato in termini di orgoglio-umiliazione (tipici certi gesti di esultanza sprezzante dopo i gol), di successo spettacolare, di fama, e - non ultimo - di rendimento economico. Ha detto Shimon Peres: «Nello sport uno vince senza uccidere, nella guerra si uccide e nessuno vince». Ma la stessa mentalità di guerra-vittoria fa degenerare lo sport: da gioco di abilità e forza, più contro le difficoltà e la fatica che contro l'avversario, da competizione svuotata dell'elemento di violenza che costituisce la guerra, quindi da sano esorcismo e parodia della guerra, si trasforma e torna ad essere guerra quando si fa tanto competitivo da includere forme accettate di scontro molto duro. Se lo sport si fa guerra, la guerra si fa sport (ed è difficile dire quale dei due fatti preceda e influenzi l'altro) perché è rappresentata alla maniera degli spettacoli sportivi, con l'accento sulle performances tecnologiche, quasi in ammirazione indifferente verso le vittime. Pare che più d'un giornalista sportivo sia passato ai reportages di guerra. Lo sport occupa grande parte (anche sproporzionata!) della comunicazione informativa, e l'ottica con cui lo si interpreta va a costituire gran parte dell'immaginario collettivo, una parte decisiva nel dare un'immagine della vita.
Per raccontare correttamente il presente non occorre solo la cultura storica ma anche la capacità di immaginazione del futuro (cfr Elise Boulding, Inventare futuri di pace, ed. Gruppo Abele, Torino 1998). Un giornalismo responsabile della pace non ha solo da descrivere, ma deve anzitutto contribuire alla prevenzione dei conflitti distruttivi, facendo monitoraggio e pre-allarme con inchieste sui sintomi, sui movimenti invisibili, sulle radici pericolose di violenza. Su questo piano l'informazione corrente ha gravemente mancato nel caso del Kossovo, perché ha prestato attenzione e risonanza non alla decennale resistenza nonviolenta, vista e sostenuta soltanto dai movimenti per la pace e dalla loro debole voce, ma solo alla fase ultima di trasformazione violenta e armata del lungo conflitto. Un giornalismo di pace deve, oltre che descrivere, anche informare sulle possibilità meno evidenti, e suggerire alternative. Deve conoscere bene, dice Galtung, una cinquantina di casi risolti senza violenza, e fare domande-suggerimento ai protagonisti. Il giornale deve oggi soprattutto commentare riflettendo, visto che i fatti si conoscono prima, per radio e tv. Invece, per vendere, continua a gridare titoli semplicistici e deformanti, scimmiottando lo schermo televisivo.
Anche la storia critica e costruttiva non registra solo i fatti, ma - contro il detto comune - anche i famosi e disprezzati "se", cioè le alternative trascurate o cadute, i sentieri abbandonati, che possono ripresentarsi in opportunità somiglianti. Nel Museo della pace in Normandia si progetta una sezione di storia alternativa: come si sarebbe potuta evitare la seconda guerra mondiale? Quali erano gli obiettivi di Hitler? Molti erano assolutamente inaccettabili ma almeno uno - la revisione del trattato di Versailles - doveva essere accettato, col probabile depotenziamento degli altri.
Per raccontare anche la guerra senza venire catturati dalla sua logica, e limitarsi a farle eco, occorre conoscere la pace: conoscere che la pace non è solo un'aspirazione irreale e una rara fortuna, ma anche una possibilità realizzata in molti casi storici di soluzione nonviolenta dei conflitti, che le storie ufficiali militarizzate per lo più ignorano (posso fornire un'ampia crescente bibliografia Difesa senza guerra sui casi storici di lotte di difesa e liberazione nonviolente o nonarmate). Occorre sapere che la pace è anche una realtà presente, quotidiana - certo non unica - sottostante ai conflitti di gruppo, in tanti aspetti privati e umili dell'arte della vita. Bisogna saper vedere la pace, fare inchieste su realtà di pace, non per buonismo illusorio o consolatorio, ma per realismo migliorativo, non per ottimismo, ma per ottimizzazione. Per esempio, l'opinione pubblica ha saputo pochissimo sulla soluzione originale e saggia con cui il Sudafrica ha superato l'apartheid e la violenza che compiva e provocava, mediante la Truth and Reconciliation Commission (cfr Marcello Flores, [a c. di], Verità senza vendetta. L'esperienza della Commissione sudafricana per la verità e la riconciliazione, manifestolibri, Roma 1999; Antonello Nociti, Guarire dall'odio, ed. Franco Angeli, Milano 2000); l'informazione ha detto pochissimo perché ha capito pochissimo sulla caduta dei regimi comunisti dell'Europa dell'est anche per mezzo della determinante lotta nonviolenta dei popoli nel 1989 (cfr Giovanni Salio, Il potere della nonviolenza, ed. Gruppo Abele, Torino 1995). I giornali non sanno e non dicono. Oppure sanno e non dicono. Comunque, non dicono che oltre la violenza c'è l'azione nonviolenta di vicinanza esistenziale alle vittime, di soccorso e solidarietà, di riconciliazione e prevenzione. Ci sono le guerre dimenticate, e anche le paci taciute: ultimo esempio, il 17 giugno solo l'Osservatore Romano titolava sulla pace tra Eritrea ed Etiopia, tutti gli altri giornali sulle nomine Rai…
L'informazione visiva - osserva Umberto Galimberti - modifica l'intelligenza sequenziale, consona all'alfabeto e alla lettura, adatta a costruire "discorsi" e seguire processi, in intelligenza simultanea, più consona all'immagine. L'intelligenza regredisce da una forma più evoluta ad una più elementare. Il ritmo mentale che nella lettura è autotrainato, e decide i propri tempi, nella visione è eterotrainato dall'emittente, senza avere il tempo per la rielaborazione. Una moltitudine che "non capisce" tempi e processi è preziosa per chi ha interesse a manipolare le folle. Quel ritmo dispone all'accettazione passiva del messaggio, perciò all'obbedienza richiesta dal semplicismo autoritario della guerra, più che alla presa di coscienza necessaria alla responsabilità e inventiva richieste dalla conduzione costruttiva dei conflitti. Delle guerre recenti, abbiamo visto le orde di profughi in fuga, o ammassate nei campi, per una breve pietà, al riparo dallo schermo, ma nell'istante successivo sentivamo le versioni ufficiali e spesso menzognere delle operazioni belliche fornite dai portavoce militari. Un istante caccia l'altro. La "dittatura dell'istante" (Alain Caillé, Trenta tesi per la sinistra, Donzelli 1997, p. 11) non permette di capire i processi nel tempo. I giovani, più degli anziani plasmati in questo linguaggio, faticano di più ad avere una intelligenza sequenziale, discorsiva, adatta alla conoscenza e alla padronanza dei processi complessi.
Notava Le Monde diplomatique questa tragica realtà: il giornalismo, nato come resistenza al potere mediante la parola libera e vera, è stato ridotto e si è ridotto a strumento del potere! Quel mensile è l'esempio della eccezione preziosa.
Le donne (eccetto le donne di potere - a volte peggiori degli uomini! - e quelle troppo intellettualizzate ad imitazione degli uomini) hanno una logica e un discorso più olistico, meno dualistico e conflittuale, nel vedere e raccontare i conflitti. Non si può fare l'equazione donne = pace, ma, in questa fase lunga di patriarcato bellicoso, esse sono un elemento di pace, possono informare ed educare alla pace: le patrie e non le madri hanno educato i figli alla guerra.
Davanti a queste nuove guerre contro le popolazioni, l'informazione deve saper dare voce a tutte le parti, più alle realtà popolari colpite che ai signori della guerra, e principalmente alle vittime, che sono le signore del giudizio sulla guerra. Esse non devono essere usate come strumento per suscitare emozioni primordiali che agganciano il lettore-spettatore al mezzo che gliele comunica, senza accompagnare le loro immagini e voci con la ricerca attiva e creativa delle soluzioni di quella violenza che non creino violenze nuove.
Nel rappresentare la violenza allo scopo di liberarne le vittime, e ridurne le conseguenze, l'informazione deve saper guardare anche la violenza invisibile, quell'onda di dolore che arriva fin dentro di noi, riducendoci a vergognarci di vivere in un tale mondo, come abbiamo provato specialmente nell'ultima guerra, in cui il nostro paese si è coinvolto, o si è lasciato coinvolgere, facendoci tutti colpevoli. Il conto dei morti e dei feriti, spesso occultato anch'esso, e delle distruzioni materiali e ambientali proiettate su un lunghissimo futuro, non basta. Galtung enumera così le vittime invisibili della violenza: un livello di lutto, nel cuore, colpisce circa dieci persone per ogni ucciso; una tristezza più breve, meno di cuore, è il lutto dei vicini e colleghi; infine, il lutto nazionale, che è di cervello, trauma storico che scende e si annida nella cultura profonda di un popolo, il quale vede i colpevoli come disumani: ciò trasmette germi potenti di vendetta e di guerra nel futuro.
Ho provato, in passato, a chiedere ad alcuni giornali nazionali (il manifesto, Avvenimenti, Rinascita) che appaiono impegnati per la pace, di istituire una rubrica fissa sulla peace research: segnalazioni di studi e pubblicazioni, convegni, istituzioni, conferenze, manifestazioni. Ero consapevole della nessuna autorevolezza del richiedente e dei limiti di una tale richiesta: la pace dovrebbe impregnare tutta una cultura dell'informazione, non un settore soltanto. Eppure, mi pareva un modo per comunicare un'attenzione continua e regolare al lavoro autonomo e specifico di costruzione della pace. Niente. La pace interessa occasionalmente come denuncia e protesta contro la guerra, come orizzonte bello e vago, come pacifismo generico, non come lavoro continuo costruttivo di nonviolenza positiva e attiva, sostanza della politica.
La pace è comunicazione. La sola trasmissione serve anche alla guerra. Ciò che accomuna nella differenza è base della pace, ciò che divide è causa di guerra. L'informazione è comunicazione se trasmette valori, conoscenze, esperienze, anche emozioni, in cui gli esseri umani si riconoscano a vicenda come umani, come differenti nel secondario e uguali in quanto umani. Le nuove possibilità tecniche devono poter produrre vera comunicazione e non solo trasmissione. Prima della guerra, possono evitare la degenerazione del conflitto in guerra. Ma persino durante e dentro la guerra, la comunicazione col "nemico", oggi sempre più possibile e frequente, deve violare intensamente la separazione bellica disumanizzante e ritrovare nell'avversario l'uomo, le persone comuni non deformate dal potere, che aspirano e soffrono come noi, ed hanno lo stesso interesse e bisogno di pace (mi permetto un rinvio al capitolo Invece della guerra, nel mio Per perdere la guerra, Beppe Grande editore, Torino 1999, pp. 89-94). La giovane ebrea olandese Etty Hillesum, andata liberamente a morire ad Auschwitz per solidarietà col suo popolo, cronista di quella tragica condizione, è grande testimone della ricerca di umanità nel nemico, in quel nemico (Adelphi ha pubblicato i suoi libri).
Con gli avversari nel conflitto c'è da discutere, ma sugli oggetti del conflitto e non sui soggetti, se debbano vivere o morire, come decide, senza discutere, il roboante mutismo della guerra.
Enrico Peyretti, 20-6-2000
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