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"Perchè non sentiamo il vento di guerra?" di Boris Norman

Laura Tussi5 novembre 2015

Vignetta di Mauro Biani

PERCHÉ NON SENTIAMO IL VENTO DI GUERRA?

A proposito di «L’arte della guerra» (di Manlio Dinucci) e della Nato che moltiplica le sue guerre ma anche di novità, di censure e auto-censure

di BORIS NORMAN (*)

 

 

Siamo o non siamo a un passo dalla III guerra mondiale, come vuole avvertirci Manilo Dinucci nell’ultima sua opera L’arte della guerra? Secondo Jean Toschi c’è una «impressionante accelerazione negli ultimi 5 anni», oppure detto con le parole di Alex Zanotelli, «siamo sull’orlo dell’abisso». Ma allora perché il movimento pacifista e la sinistra radicale sono così silenti? Perché la manifestazione a Napoli così sottotono? Dove sono finiti quei 110 milioni che manifestarono contro la guerra nel febbraio 2003, la più grande contestazione mondiale mai organizzata? Perché oggi questo silenzio del pacifismo?

Certo non è un breve post che può rispondere: le cause sono numerose. Ma ho bisogno di confrontarmi e mettere in chiaro il tema. Perché da tempo questa assenza del movimento pacifista mi sta angosciando quasi più dei dati accertati sul riarmo mondiale. Vorrei che su questo tema – “strategie di rianimazione del movimento pacifista” – il dibattito si infittisse.

 

Proverò a tracciare in modo estensivo i confini del discorso, per dare infine una delle risposte che più mi hanno convinto.

(I)

Partiamo quindi da una contro-analisi:

  1. Non siamo in pochi ad avvertire il rischio imminente, ma invece quel pericolo è poco probabile; chi teme la III Guerra Mondiale è fisiologicamente una minoranza di catastrofisti “politici”; normale che ognuno dia forma alla paura a modo suo;
  2. Sebbene gli assetti geo-politici siano effettivamente in radicale mutazione, ciò non significa che il riarmo globale esca dal gioco delle minacce politiche, per passare sul terreno militare ad alta intensità (al massimo si continuerà con scontri locali);
  3. La supremazia militare occidentale è ancora e per molto – una salda garanzia di pace mondiale, o perlomeno nel “nostro” mondo;
  4. Per quanto il capitalismo sia in crisi, oggi non si propongono sistemi concorrenziali così destabilizzanti, come il socialismo e il nazi-fascismo: la paura verso il fondamentalismo religioso è un alibi per il controllo sociale, non realisticamente destrutturante;
  5. Le guerre sono un lato permanente dell’uomo ed è tutto da dimostrare che mai un movimento pacifista abbia fermato un conflitto esteso: a ogni Belle Epoque necessariamente segue la notte, dobbiamo rassegnarci;
  6. I rischi bellici sono molto attuali ma il movimento pacifista c’è però nell’Era del Web sta cambiando pelle: insomma siamo sempre meno a scendere in piazza, a fare massa, ma questo non significa oggi necessariamente mancanza di consenso;
  7. eccetera…

La prima obiezione – vera dalla metà del secolo scorso, per molta parte della popolazione mondiale – oggi mi pare la meno interessante da discutere. E dobbiamo semplicemente smontarla, rigirarla, liberando le paure collettive, a partire dall’aggregare i “catastrofisti”. Diversa attenzione invece meriterebbero gli altri punti, perché non altrettanto scontati. Se li prendiamo uno a uno e li piazziamo su un terreno di gioco disegnano forse una sorta di confine tematico, a quello che ora mi preme di più.

(II)

Assumiamo che il rischio imminente di una III Guerra Mondiale sia effettivo e che allo stesso tempo l’opinione pubblica mondiale (o perlomeno europea) sia al contempo distratta o peggio, attratta da una soluzione bellica. Cosa fare allora… gridare più forte? Certamente dobbiamo farlo. Eppure temo che non sia solo una questione di volume o di censura mediatica su quel che si fa. Se a Napoli la manifestazione contro la guerra e le manovre della Nato non ha visto più di 5000 persone, non è solo perché Dinucci o Zanotelli sono opinionisti “di nicchia”. Anche perché, a ben vedere, di un rischio serio di guerra mondiale ne stanno parlando ripetutamente, Romano Prodi, papa Francesco e sistematicamente il settimanale «Internazionale». La guerra che si sta preparando viene presentata in Europa occidentale quale minaccia esterna (come al solito) indipendente da noi e alla quale non abbiamo altre soluzioni che … difenderci militarmente.

Nelle ultime settimane, dopo l’intervento russo in Siria, la narrazione della guerra sta infatti mutando: l’Occidente toglie la censura mediatica sul rischio di un conflitto globale, in risposta all’intraprendenza russa. In modo più minaccioso che allarmistico, persino Obama in sede Onu davanti alla stampa internazionale, parla del «rischio di una nuova guerra mondiale». A breve giro risponde, dopo una settimana, la diplomazia cinese, che avverte l’Occidente di esser pronta a un intervento armato per difendere la sua sovranità nel Mar Cinese Meridionale. A questo proposito interessante l’articolo appena uscito su «Der Spiegel» e posto in copertina (il 30 ottobre) da «Internazionale» con il titolo: «Siria: una guerra mondiale». Tutto incentrato nella costruzione demoniaca di Putin, quale responsabile della pericolosa instabilità mondiale. In effetti dopo la crisi Ucraina, l’opera di delegittimazione del presidente russo lavora instancabilmente a costruirne la classica figura di tiranno a capo di un Paese canaglia, tale e quale si era fatto prima con Saddam e poi con Assad, nel momento precedente l’aggressione Nato.

Nel 2003 il movimento pacifista aveva raggiunto il suo massimo livello di manifestazione, perché gli Usa di G. W. Bush incarnavano apertamente l’autorità violenta del potere globale. L’inversione a 180° della strategia comunicativa del «premio Nobel per la pace» Obama ha effettivamente prodotto il risultato di sdoganare un’immagine americana “temperata e prudente”. Parallelamente dal 2008, la crisi economica globale e le politiche di austerità in Europa hanno punito soprattutto i partiti social-democratici e la sinistra in generale, alimentando i peggiori spiriti qualunquisti e sciovinisti. Ma c’è un livello psicologico/emotivo ancora più rilevante che muta le dinamiche rispetto a un decennio fa. Allora nessuno di quei 110 milioni di pacifisti temeva in prima persona. Oggi è evidente che non stiamo rischiando solo un coinvolgimento militare in un “altrove”. Perché oggi l’antagonista della Nato non sarebbe un Saddam con false armi di distruzione di massa, ma una Russia nucleare, se non addirittura buona parte dei Brics. Il Mediterraneo e l’Europa si troverebbero pienamente nel campo di battaglia (e in Ucraina già ci siamo). Oggi non dovremmo essere pacifisti per spirito umanitario quanto per risposta “matura” a un senso di minaccia che arriva direttamente verso di noi (e questo sentire non cambia, anche se si pongono dati evidenti che dimostrino quanto l’Occidente sia in fondo il vero aggressore). Tanto più le persone percepiscono questo rischio bellico imminente, tanto più tentano di fare massa con chi propone una via di salvezza. Il buon Elias Canetti, che di guerre ne sapeva a pacchi, in «Massa e potere» cercava di cogliere il lato biologico (animale) del comportamento sociale: «La massa è tale soprattutto nella direzione comune della sua fuga. Un animale che ne balza fuori e si avvia per una sua direzione è più in pericolo degli altri… Essi non cadono nel panico fin tanto che non sono abbandonati, fin tanto che ciascuno fa vicino agli altri ciò che fanno gli altri e compie esattamente gli stessi movimenti… Ma non appena gli animali sono circondati, il quadro cambia. Non è più possibile una direzione comune di fuga. La fuga di massa si trasforma in “panico”: ogni animale cerca la salvezza per sé solo, e ognuno è di ostacolo agli altri. Il cerchio intorno a essi li stringe l’uno addosso all’altro. Nel massacro che ora principia, ogni animale è nemico dell’altro, poiché ognuno ostacola all’altro la via della salvezza».

Insomma, a mio avviso, oggi i movimenti pacifisti non possono parlare facendo leva sull’indignazione e la responsabilità etica. Oggi un movimento contro la guerra deve indicare una “via di fuga” dall’angoscia di morte (economica o militare, poco importa). Tutti noi non vogliamo ammettere il pericolo perché non sappiamo che fare. Siamo noi che censuriamo la guerra attuale, perché troppo angosciante da sostenere, ma allo stesso tempo sappiamo tutti che sta arrivando.

L’arcipelago pacifista deve velocemente trasformarsi in movimento globale di mediazione. Deve, in altri termini, costruire una alternativa politica globale al conflitto fra Occidente e Brics. Dobbiamo riprendere in mano un orizzonte capace di superare nazionalismi e riformare le istituzioni internazionali verso la costruzione di una società globale democratica e redistributiva. Insomma i popoli devono “mettere le mani” velocemente sul Consiglio di Sicurezza dell’Onu. Più che sensibilizzare l’opinione pubblica, dobbiamo animare e costruire un soggetto politico globale, consapevole del proprio ruolo “guida” e di governo mondiale prima che i poteri continentali attuali si scontrino mortalmente, pur di salvare il loro galoppante calo di consenso. Un segnale nella giusta direzione arriva dal dibattito nel recente Convegno del 26 ottobre scorso, promosso dal Comitato romano No Guerra No Nato, come anche dalle riflessioni del movimento europeo no-borders.

(*) Boris Norman è il “nome d’arte” di un compagno che proverà qui in “bottega” ad assemblare – con scadenza irregolare ma costante – informazioni, analisi, proposte sulle nuove guerre e su quel che possiamo/dobbiamo fare per disertarle e sabotarle ma… se possibile fermarle. Questo suo primo post è stato illustrato con due celebri immagini di Bansky. (db).

 

sul Sito di Daniele Barbieri:

http://www.labottegadelbarbieri.org/perche-non-sentiamo-il-vento-di-guerra/

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