L’Italia ha la sua ricchezza ineguagliabile nella pluralità dei suoi centri urbani. E’ stata la prima grande realtà comunale della modernità. La Francia è stata invece una nazione statocentrica. Derrida ha riflettuto sull’idea di capitale, di caput, di centro, di punto di riferimento. L’Italia è il paese che ha più di ogni altro anticipato questa realtà di esperienze comunali, di policentrismo urbano, e da questo punto di vista l’Italia potrebbe essere un laboratorio importante per l’Europa, perché quest’ultima trova il suo Ethos esattamente nell’essere uno spazio di differenze, di esperienze tra loro diversificate, ossia l’Europa è un ambito al cui interno le differenze che passavano attraverso le grandi esperienze delle città, non hanno mai dato luogo a politiche dell’identità, a strategie identitarie, rigide, tipiche degli stati nazionali. Le città in Europa sono sempre state luoghi nei quali le differenze specifiche non hanno mai avviato politiche dell’identità. A partire dall’epoca medievale e immediatamente successiva all’anno 1000, quando l’aria delle città rendeva liberi, le città sono sempre state luoghi d’incontro, d’incrocio, crogiolo e crocevia tra identità diverse in Europa. Invece, gli stati hanno neutralizzato queste esperienze di meticciamento. Quanto più le città si ibridavano, divenivano luoghi di incrocio e d’incontro tra esperienze culturali, tanto più gli stati nazionali tendevano a neutralizzare il peso di tali esperienze e determinavano una politica univoca dell’identità nazionale. La storia d’Italia andrebbe tutta riletta in questa chiave.
L’identità verticalistica e monolitica dello Stato Nazionale in Europa
Con quello che è accaduto nelle città più importanti si può ricostruire l’Ethos europeo, composto di differenze che nelle esperienze comunali non hanno mai dato luogo a politiche identitarie, mentre nella logica degli stati nazionali hanno determinato conflitti tra identità statali molto forti. Lo spazio d’incrocio e di incontro tra esperienze differenti nei diversi luoghi urbani d’Europa, crogioli e crocevia di culture, ha determinato sempre un livello di crescita della cultura dei grandi movimenti e delle rivoluzioni di costume e di cultura che in seguito hanno preceduto le rivoluzioni politiche e sociali. I collegamenti tra centri urbani erano trasversali e orizzontali, ossia non gerarchici. La logica identitaria nazionale e statale italiana o degli altri paesi europei è, in qualche modo, una logica che nell’affermare una politica dell’identità ha mortificato le spinte innovative che si davano all’interno e in cui la logica identitaria procede per aggregati di tipo verticalistico, strutturando l’identità in maniera rigida e monolitica, autoreferenziale, centrata su se stessa, opponendosi e svincolandosi dalla prospettiva di un’alterità culturale che però non sta ferma nel sito, nel luogo d’origine, ma che viaggia, compiendo il passaggio a Occidente, modificando se stessa e lo stesso Occidente.
Il concetto di ibridazione e meticciamento delle identità culturali
Gli intellettuali postcoloniali hanno sottolineato soprattutto l’esigenza di concepire identità come sempre contaminate ed ibridate, senza neanche compiere l’apologia postmoderna dell’ibridazione. Questi intellettuali sostengono che la realtà di tutte le culture, delle ibridazioni e del “meticciato”, come dice Umberto Eco, è poco attinente non perché questi fenomeni siano negativi, ma perché, storicamente, sempre , esiste il fenomeno dell’ibridazione, fattore molto più rilevante del pluralismo che assume le culture come delle datità, interpretando la società multiculturale come insieme di “ghetti contigui”, quindi è in realtà un pluralismo statico, che non va oltre un rifacimento della versione della tolleranza, la quale però non ammette nessun tipo di interazione e contaminazione reciproca. Invece, i teorici postcoloniali non partono dal pluralismo, ma dall’ibridazione e dunque il problema del rapporto tra le culture non è quello della tolleranza reciproca e del riconoscimento, ma il problema vero della nostra nuova realtà sociale è quello della traduzione e transizione tra le culture e le diverse esperienze culturali. Quindi non è più sufficiente la vecchia teoria della storia Hegeliana che pone l’Europa e l’Occidente come centri di irradiazione del mondo e non basta più la concezione, non imperialistica, ma Kantiana dell’Europa come culla dell’universale. Le categorie universalistiche della modernità politica europea sono simultaneamente indispensabili e inadeguate. L’Europa deve rendersi conto di questo doppio statuto delle categorie del proprio universalismo che per un verso hanno lo statuto dell’indispensabilità, per l’altro dell’inadeguatezza a fronteggiare il mondo contemporaneo. L’identità o meglio la comunità può nascere non da una pura comparazione tra le culture, ma esistono legami trasversali anche tra diversi orienti e diversi occidenti. La relazione fra le identità non deve essere di tipo verticale come il federalismo leghista attuale, ma le solidarietà sono orizzontali, solidarietà chiasmatiche, come quelle che Habermas chiama solidarietà fra estranei, o solidarietà fra stranieri morali, mentre nella identità nazionale non sono concepite queste tipologie di incontro.
La costituzione europea, che è un ibrido molto insoddisfacente tra la forma trattato che segue la logica di tipo interstatale e intergovernativa, la forma costituzionale, e la costituzione dell’Unione Europea di Nizza, enuncia l’Ethos identitario europeo declinandolo al plurale. E’ questa la ragione per cui non si è ritenuto di includere nessun riferimento a un’unica religione. Vi è un’innovazione terminologica: infatti la carta dei diritti di Nizza cita “i popoli europei” al plurale, non al singolare, sottolineando che l’identità europea nasce dai tracciati e dai percorsi delle diverse differenze e dove più popoli si intendono, non necessariamente le nazioni, ma anche tutte le esperienze culturali, rilevanti, di lunga durata. Hanno il nome legittimo di cultura tutte quelle esperienze con una rilevante durata nel corso del tempo, producendo risultati rilevanti per la comunità da loro organizzata. I popoli europei non sono solo tenuti insieme dal collante degli stati nazionali, ma sono svincolati da essi.
Laura Tussi
Docente, giornalista e scrittrice, si occupa di pedagogia nonviolenta e interculturale. Ha conseguito cinque lauree specialistiche in formazione degli adulti e consulenza pedagogica nell'ambito delle scienze della formazione e dell'educazione. Collabora con diverse riviste telematiche tra cui Pressenza, Peacelink, Ildialogo ed ha ricevuto il premio per l'impegno civile nel 70esimo Anniversario della Liberazione M.E.I. - Meeting Etichette Indipendenti, Associazione Arci Ponti di Memoria e Comune di Milano. Autrice dei libri: Sacro (EMI 2009), Memorie e Olocausto (Aracne 2009), Il dovere di ricordare (Aracne 2009), Il pensiero delle differenze(Aracne 2011), Educazione e pace (Mimesis 2012), Un racconto di vita partigiana - con Fabrizio Cracolici, presidente ANPI Nova Milanese (Mimesis 2012), Dare senso al tempo-Il Decalogo oggi. Un cammino di libertà (Paoline 2012), Il dialogo per la pace. Pedagogia della Resistenza contro ogni razzismo (Mimesis 2014), Giovanni Pesce. Per non dimenticare (Mimesis 2015) con i contributi di Vittorio Agnoletto, Daniele Biacchessi, Moni Ovadia, Tiziana Pesce, Ketty Carraffa. Collabora con diverse riviste di settore, tra cui: "Scuola e didattica", Editrice La Scuola e "Rivista Anarchica". Promotrice del progetto per non dimenticare delle Città di Nova Milanese e Bolzano www.lageredeportazione.org e del progetto Arci Ponti di memoria www.pontidimemoria.it. Qui il suo canale video.
http://www.wandamontanelli.it/CdD/opi/2016/eti.htm
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