“La sporca guerra contro la Siria. Washington, regime e resistenza” (Zambon Editore, 2017)
In Occidente, le prese di posizione equilibrate sulla guerra condotta contro la Siria sono state accuratamente censurate tramite l’utilizzo di un termine che Anderson ha citato più volte nel corso del suo libro: false flag. Letteralmente, significa “falsa bandiera”: tattica per cui un esercito o un gruppo armato fa apparire una sua azione militare o di altro genere come opera di un gruppo avversario. Più volte l’intervento armato in Siria viene paragonato alla guerra sporca condotta dai contras in Nicaragua negli anni ’80. In entrambi i casi, gli Stati uniti sono protagonisti di un conflitto per procura, allora tramite i contras, in Siria attraverso i gruppi dell’Islam radicale con i quali la Casa Bianca mantiene un rapporto molto ambiguo. E per restare in tema di paragoni con il continente latinoamericano, come non pensare al caso dei falsos positivos in Colombia, dove giovani delle periferie urbane di Bogotà o Medellín sono stati uccisi dall’esercito che poi è riuscito a farli passare come guerriglieri facendo trovare accanto a loro divise o armi delle Farc o dell’Eln, le due organizzazioni armate del paese andino. Alcuni esempi. Il massacro della Ghouta orientale, avvenuto nell’agosto 2013, è stato utilizzato per accusare il governo siriano di aver ucciso centinaia di civili, nonostante molte fonti indipendenti testimoniassero il contrario. Lo stesso è successo quando l’ospedale Al-Kindi di Aleppo fu distrutto da due camion bomba. La responsabilità fu attribuita di nuovo alle forze governative, ma bastava andare su internet per verificare che il massacro era stato rivendicato da al-Nusra e dall’Esercito Libero Siriano. Per non parlare del massacro di Houla (2012), uno dei casi che ha colpito di più la sensibilità dell’opinione pubblica occidentale. Anderson evidenzia che il primo gruppo di ispettori Onu inviati sul campo raccolse prove contraddittorie a proposito del massacro, mentre un secondo gruppo dell’Onu, fuori dalla Siria, ma presieduto da una diplomatica statunitense, tentò di incolpare il governo siriano, nonostante ci fossero molti testimoni pronti ad asserire che la responsabilità di quanto accaduto andava ricercata tra i militanti islamici delle Brigate Farouq dell’Esercito Libero Siriano, i quali avevano ucciso gli abitanti dei villaggi filo-governativi.
Il libro di Anderson è scomodo e sferra un vero e proprio pugno nello stomaco anche a coloro che, pur dichiarandosi pacifisti, non sono scesi in piazza per protestare contro la guerra in Siria, a differenza di quanto accadde per l’Irak. Tutto ciò si spiega con la demonizzazione del leader, Bashar al Assad. Eppure, sottolinea l’autore, in più di una circostanza, gli Stati uniti hanno ammesso che i loro alleati regionali (Turchia, Arabia saudita e Qatar) hanno sempre finanziato i cosiddetti “jihaidisti dell’impero”, Isis compreso. Con questo, Anderson non intende trasformare Assad in un santo, né negare il malcontento e la paura dei siriani verso un Stato comunque autoritario dove la polizia segreta è presente in ogni aspetto della vita civile, ma ragionare sul fatto che “il dibattito in tempo di guerra è degenerato nella caricatura – alimentata dal fervore pro-regime change e da un conflitto sanguinoso – di un <<brutale dittatore>> assetato di sangue che reprime e massacra ciecamente il suo stesso popolo. Niente di tutto ciò contribuisce alla formazione di opinioni sensate o ragionate. Fortunatamente, sono disponibili varie fonti siriane e indipendenti che permettono di tracciare un profilo più realistico”.
È proprio sulle fonti che Anderson conduce un certosino lavoro di controinformazione, a partire dalle critiche che rivolge ad alcune organizzazioni non governative paladine della guerra umanitaria, in primis a Human Rights Watch, il cui presidente Kenneth Roth ha cercato più volte di collegare foto di massacri a Gaza o Kobane (dopo i bombardamenti Usa o di Israele) a quelli di civili siriani uccisi per i quali non c’è alcuna prova certa che i responsabili siano i militari fedeli a Bashar al Assad. Molto ambiguo, secondo Anderson, è anche il ruolo dei Caschi bianchi (alias Difesa civile siriana), diretti dall’ex mercenario James Le Mesurier e che sembrerebbe godere di finanziamenti provenienti da Usaid e dal governo inglese, nonostante i tentativi dell’organizzazione di rendere segreta la provenienza dei fondi. Altra ong impegnata esclusivamente nel regime change sembra essere Avaaz, in prima fila nel denunciare le violenze sulle donne siriane senza però evidenziare che stupri e rapimenti di ragazze e donne siriane vengono rivendicati apertamente da gruppi settari dell’Islam radicale. E ancora, riporta Tim Anderson, nell’agosto 2015 Avaaz e The Syria Campaign pubblicarono foto di cadaveri di bambini tra le macerie di un edificio dichiarando che si trattava di attacchi ordinati dal governo siriano, ma quelle stesse foto erano state utilizzate un anno prima per illustrare un articolo secondo cui l’Isis aveva ucciso 700 membri di una tribù a Deir el-Zor.
In definitiva, come ha scritto Anderson nella prefazione, il libro intende dimostrare che “la cultura occidentale ha abbandonato le sue tradizioni migliori – uso della ragione, esercizio dei principi etici e ricerca di indizi indipendenti in tempo di guerra – a vantaggio delle sue tradizioni peggiori: il <<diritto imperiale>> all’intervento, nutrito di profondi pregiudizi razziali e scarsa attenzione per la storia delle sue stesse culture”.
La sporca guerra contro la Siria. Washington, regime e resistenza
di Tim Anderson
Zambon Editore, 2017
€ 16.80
Il testo è liberamente utilizzabile a scopi non commerciali citando la fonte e l'autore.
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