Furor di patria
Temo che ci siano ben poche ragioni, in questi giorni, di sentirsi fieri di essere italiani, come molto volonterosamente ci viene raccomandato da tutte le parti - talvolta per legittimo dovere istituzionale dalle alte cariche dello stato, talvolta per improvvisi attacchi di nazionalismo eroico (Riotta sul Corriere della sera). No, ci sentiamo anzi singolarmente estranei all'orgia di retorica militar-patriottarda in cui sguazzano soprattutto fascisti e affini; e, con loro, la maggior parte dei giornali che mai come oggi appaiono tutti rigorosamente «di regime». La Repubblica del 16 aprile, salvo errori da parte nostra, non aveva neanche un minimo cenno alle posizioni della sinistra non triciclica sui sequestri iracheni. Fortunatamente ne abbiamo letto qualcosa sul Corriere della sera e sulla Stampa. In compenso, una lunga intervista a Rutelli, che non ha perso l'occasione di paragonare il «gruppo di assassini» che hanno rapito i nostri connazionali alle Brigate Rosse degli anni di piombo italiani. Come là non abbiamo ceduto al ricatto accettando le trattative, così non lo faremo qui. Non su Repubblica, ma sul Corriere sempre del 16, Rutelli avrebbe potuto leggere del sondaggio condotto da una emittente araba, secondo cui, su 83.839 persone interpellate in Iraq, il 79% ha dichiarato di approvare, come utile, la «cattura di ostaggi stranieri da parte della resistenza irachena». Non sarà questa una differenza rilevante tra le BR e la resistenza irachena? Ma anche chiamarla resistenza - senza per questo approvare gli assassini - è qualcosa che il regime non tollera, se è vero che anche Lilli Gruber ha dovuto rinunciare a questa espressione parlando alla Tv italo-berlusconiana.
Come sempre per noi è tutto questione di parole. Che altro sono, anche a sinistra, se non parole consapevolmente (salvo imbecillità conclamata) ipocrite le chiacchiere sul 30 giugno? Nel migliore dei casi, si tratterebbe semplicemente di un cambio di etichette, con i soldati americani, inglesi e anche i nostri, che cambierebbero la targa dei loro veicoli e magari il colore dei loro caschi. Ma neanche questo gioco di etichette molto probabilmente si verificherà, il governo non passerà in mani irachene perché non saranno nemmeno state avviate le pratiche, complicatissime, che il povero inviato dell'Onu sta faticosamente immaginando. E il Triciclo, da parte sua, ci dice che sarebbe irresponsabile lasciare l'Iraq subito; anche qui, fingendo di ignorare che solo annunciando subito il ritiro lo si potrebbe organizzare in tempi ragionevoli, per giunta contribuendo anche solo con questo annuncio a un allentamento della tensione, e magari a salvare qualche vita.
Infine: non si tratta con i terroristi. Ma con chi, se no? Liquidare l'offerta di tregua di Bin Laden come un «ricatto» a cui non si deve cedere è davvero la posizione più saggia? Visto che non c'è un governo legittimo con cui trattare una qualche limitazione del conflitto, perché continuiamo a rifiutare ogni trattativa, con la falsa idea che il nemico sia solo un vile e abominevole bandito? Tutti i governi lo sono sempre stati, e solo in considerazione del loro potere sono passati molto spesso dal ruolo di banditi al ruolo di interlocutori credibili. Se, come del resto pensano gli americani, Bin Laden ha davvero l'autorità di ordinare stragi e eventualmente di farle cessare, non vediamo in che cosa differisca da Bush (e non ci si citino le sue patenti «democratiche»). Prenderne atto sarebbe infine un atto di realismo, per uscire dalle chiacchiere e dalle «nette prese di posizione» astensioniste.
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