Perché ha un senso ancora dirsi pacifisti
Sono ormai quindici anni che la parola pacifismo è in pratica scomparsa dal vocabolario della comunicazione, sconfitta dalla guerra globale e da un senso di impotenza di cui non riesce a scrollarsi il peso. L'origine di questa afonia è da ritrovare in quello che è seguito alle grandi manifestazioni per la pace e contro la guerra in Iraq che si svolsero il 15 febbraio 2003 in tutte le grandi città del mondo e alle quali parteciparono almeno 110 milioni di persone. Io ero a Roma e il sentimento che si respirava era di un grande entusiasmo, la sensazione che si fosse finalmente formata un'importante "opinione pubblica mondiale" con la quale tutti i potenti della Terra avrebbero dovuto fare i conti prima di lanciare le loro macchine belliche e i loro scellerati ordigni di morte. Purtroppo, dopo pochi giorni gli Stati Uniti di Bush attaccarono l'Iraq, sulla base di prove farlocche, iniziando quel processo di destabilizzazione del medio oriente di cui milioni di persone inermi hanno pagato e continuano pagarne le conseguenze in termini vite umane, di sofferenza, di distruzione e lo stesso occidente ne sta facendo i conti per l'arrivo di milioni di rifugiati e di profughi che scappano da quelle terribili zone di devastazione.
Da quel giorno è seguita una grande delusione e il movimento si è via via spento, tranne che per alcune flebili voci che sono rimaste a presidiare un campo che ormai si era svuotato. C'è anche una personale difficoltà a dichiararsi "pacifisti", come se fosse quasi una parolaccia, un cosa da ingenui, neanche più da sognatori.
Si dice che dobbiamo essere per la pace ma non pacifisti, nel senso che alla pace si può anche arrivare attraverso l'ineluttabilità della guerra, che è guerra "umanitaria", missione di "protezione internazionale" e così via. Ci siamo "abituati" a rimanere inermi, a non alzare più la voce, ad assistere alla violenza di capi di stato e di governo che perseguono scopi il più delle volte incoffessabili. Forse è il momento di rispolverare il "pacifismo", di tornare a dichiarasi "pacifisti" come persone che praticano la nonviolenza, che pensano, che non allontanano il conflitto girandosi dall'altra parte, ma che lo vivono credendo di poterlo risolvere con i mezzi del confronto e del dialogo internazionale. Un pacifismo che sappia mettere al centro i problemi che sono causa e potenziale di conflitti violenti: la disuguaglianza crescente, i nuovi rigurgiti nazionalisti e razzisti, il problema dell'accaparramento delle risorse naturali, i nuovi egoismi, una tecnologia esasperata che rischia, attraverso forme pervasive, esasperate e spericolate di intelligenza artificiale, di schiacciare le persone in carne e ossa in nuove forme di totalitarismo. E' il momento di tornare a esserci, di riorganizzarsi, di sventolare in alto la bandiera del pacifismo e di promuoverne le pratiche nonviolente perchè abbiamo solo questa terra e questa umanità.
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