Il Parlamento non conosce le regole d'ingaggio per i soldati italiani in Iraq
Un buco nero come il lutto delle famiglie delle decine di carabinieri e soldati uccisi da un'autobomba, o come il petrolio che un giorno chissà l'Eni pomperà dalle viscere della terra irakena? Il capitolo italiano della storia di Nassirya racchiude in sé tutte le contraddizioni, i misteri, gli slanci di retorica patriottica ed il dolore enorme delle famiglie delle vittime, irachene, ed italiane, l'inganno costruito ad arte per giustificare l'ingresso in guerra del nostro paese. E ieri il ministro Giovanardi in Parlamento, dichiarando che «gli italiani si sono difesi, reagendo secondo le regole d'ingaggio», non ha certo contribuito a fare chiarezza. «Vanno a fare la scorta a convogli umanitari» ci aveva detto in Parlamento il Ministro Frattini, ed invece gli italiani, militari e civili, a Nassiriya ed altrove in Iraq sono, volenti o nolenti, nel bel mezzo della seconda fase di una guerra mai conclusa dopo la caduta del dittatore Saddam. Così, come ha scritto il Corriere della Sera del 19 aprile scorso a Nassirya «...sono state ore di fuoco feroce. Chi è rimasto in Iraq continua a sentire sotto le dita il grilletto premuto tante e tante volte" (...) Non li abbiamo potuti contare", dice il Generale Gianmarco Chiarini. E intende i morti iracheni». Quel giorno, il 6 aprile 2004, sui tre ponti di Nassiriya vennero uccise decine di iracheni, chissà quanti civili, chissà quanti in armi, caduti sotto il fuoco dei soldati italiani, mandati lì, sotto ordine degli americani, a riprendere tre ponti. Il ministro Martino il giorno dopo alle Commissioni Difesa di Camera e Senato lesse una fredda nota informativa secondo la quale tre compagnie con mezzi blindati Centauro vennero inviate ai ponti per il «ripristino delle condizioni generali di sicurezza», e che «la reazione, condotta dai militari del contingente italiano, ha consentito la neutralizzazione degli assalitori (...) anche sul terzo ponte tenuto dagli iracheni, i manifestanti avevano equipaggiamento di armi pesanti, viste dalle nostre forze prima dell'inizio dell'azione, e neutralizzate con un contrasto mirato e tempestivo. Si registravano, purtroppo vittime fra i civili iracheni: il numero è ancora imprecisato, ma potrebbe essere di circa 15 unità». Più o meno. Liquidati, neutralizzati, uccisi. Qualcuno lì a Nassiriya si è premurato di accertarsi quante fossero le vittime? Di quel maledetto 6 aprile, nulla più si è saputo, solo un laconico comunicato di Paola della Casa, spin-doctor di Barbara Contini, governatore di Nassirya, che minacciava, qualora le milizie di Al Sadr non avessero deposto le armi, un'offensiva ancor più dura, delle forze italiane, chissà da chi autorizzata a disporre dei nostri soldati, o a deciderne in corso d'opera le regole d'ingaggio. Lo stesso ministro Martino davanti alle Commissioni Esteri e Difesa del Senato ha ammesso di non conoscere la signora Della Casa, né è stato in grado di spiegare quali fossero le regole d'ingaggio per i nostri soldati in Iraq, mai pubblicate sulla Gazzetta Ufficiale né comunicate ai parlamentari. La Procura Militare ha proceduto ad aprire un fascicolo per indagare sui fatti,- un atto dovuto ci si affrettò a dire da più parti, l'inizio di un'indagine ci ha confermato invece di persona il Procuratore della Repubblica del Tribunale Militare di Roma, Intelisano - alla vigilia della visita a Nassiriya del presidente del Consiglio in libera uscita. La guerra, come dice in un suo splendido libro «War is a force that gives us meaning» l'inviato di guerra Chris Hedges, «rende il mondo comprensibile, una tavolozza in bianco e nero, tra noi e loro. Sospende il pensiero, soprattutto il pensiero autocritico. Tutti si inchinano allo sforzo supremo...la tensione tra chi conosce il combattimento, e quindi sa bene quale sia la menzogna data in pasto al pubblico, e chi propaga il mito, usualmente termina con i fabbricanti di miti all'opera per azzittire i testimoni della guerra». Il senso dell'esposto che abbiamo presentato - insieme a Elettra Deiana del Prc e Silvana Pisa, Ds e ad alcuni giuristi democratici - non è quello di muovere accuse, ma di chiedere verità sui fatti, la stessa verità negata con le menzogne delle armi di distruzione di massa, della missione a scopo umanitario, o dell'imminente transizione verso un governo iracheno rappresentativo del popolo. Serve a capire quale sia la legge applicabile per sanzionare comportamenti illeciti o illegali delle forze di occupazione, in situazioni simili, e sanzionarli se così dovrà essere, soprattutto per il rispetto del diritto umanitario ed internazionale, che non può e non deve essere affidato alla buona volontà o allo «stile italiano». Né portato a casa solo nei ricordi dei militari o nel segreto dei «file», o delle documentazioni audiovisive eventualmente prese durante l'operazione, a prescindere dal fatto che l'Italia - come noi chiediamo a gran voce - decida o meno per il ritiro immediato delle truppe. Fare chiarezza sui fatti di Nassirya, rimossi così rapidamente, scalzati dall'escalation dell'orrore, dal dramma degli ostaggi italiani e delle loro famiglie, e dall'accavallarsi di messaggi mediatici sugli «sforzi» per la loro salvezza, significa riconoscere che il dolore e l'abbandono sofferto dai familiari delle vittime irachene dei ponti, merita lo stesso rispetto e la stessa esigenza di verità e giustizia del dolore dei familiari di ogni altra persona che ha perso la vita in Iraq. E servirà forse ad evitare che nel nostro paese - come aggiunge Hedges - si finisca per dare per scontato che «la maggior parte di noi accetta la guerra volontariamente nella misura in cui rientra in un sistema di convinzioni che descrive le sofferenze che ne conseguono, come necessarie per un bene più alto».
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