Oggi il fronte del "no alla guerra" comprende il 63% della popolazione
Una guerra sbagliata, il cui esito appare tutt'oggi incerto, la via d'uscita sempre più lunga e irta di ostacoli. Sono questi i sentimenti degli italiani circa l'intervento militare in Iraq, a quasi un anno dalla chiusura "ufficiale" del conflitto. Sentimenti cui s'accompagna la percezione di un futuro sempre più grigio, il timore, crescente, di azioni terroristiche sul suolo italiano; ma anche, per certi versi, una sorta di assuefazione al rischio. E' questo il quadro disegnato da un sondaggio realizzato, nei giorni scorsi, da DemosEurisko per La Repubblica.
"L'opinione pubblica cambierà". Con queste parole (secondo le indiscrezioni riportate nel nuovo libro del giornalista americano Woodward) il presidente Bush rassicurò, a poche settimane dall'avvio delle operazioni belliche, il premier italiano, Berlusconi. Da allora, l'opinione pubblica - quella italiana, almeno - non sembra avere modificato, nella sostanza, i propri orientamenti: la maggior parte delle persone continua a ritenere un errore l'azione militare contro il regime di Saddam.
Il fronte del "no alla guerra" comprende, oggi, il 63% della popolazione: una porzione più ridotta rispetto a quella osservata alla vigilia del conflitto (quando superava l'80%), ma comunque maggioritaria (e in espansione rispetto ad un anno fa, quando, dopo la caduta di Bagdad, era scesa al 60%).
L'opposizione all'intervento si alimenta, oggi, della persistente situazione d'instabilità riscontrata, giorno dopo giorno, nel Paese mediorientale. Tale da rendere difficile ipotizzare una soluzione, nel breve periodo, ai disordini in terra irachena. La maggioranza degli intervistati (58%) pensa che gli scontri armati si protrarranno (ancora) per più di un anno. Un risultato che contrasta, in modo evidente, con le aspettative rilevate dopo i primi bombardamenti su Bagdad: quasi tre cittadini su quattro, in quei giorni, si attendevano un rapido epilogo della guerra.
Oltre alla conclusione del conflitto, tuttavia, ad allontanarsi, oggi, è il raggiungimento di quegli obiettivi proposti come giustificazione dell'intervento. Meno di tre persone su dieci giudicano la scelta militare utile a contrastare la minaccia terrorista nel mondo (29%). Appena un terzo degli intervistati immagina, nell'immediato futuro, una pacificazione del Medio Oriente (35%). Le stesse speranze di costruire un regime democratico paiono oggi meno realistiche: a ritenere che la guerra abbia giovato a tale causa è circa il 37% delle persone interpellate, contro il 60% del marzo 2003.
Un primo effetto, diretto, dei sentimenti appena descritti riguarda le posizioni sulla missione italiana. Stanti le attuali geometrie della coalizione internazionale, la maggioranza dei cittadini si dichiara contraria alla presenza tricolore a Nassiriya, mentre declina, parallelamente, la fiducia nel governo. Il 29%, seguendo il percorso tracciato dalla Spagna, chiede il rientro immediato del nostro contingente militare. Il 42% propone, invece, di attendere la scadenza del 30 giugno e di ritirare le truppe italiane nel caso, entro quella data, la missione non venga ricondotta sotto l'egida dell'Onu.
Ma le ombre proiettate dalla situazione irachena si allungano dentro i confini nazionali. Sale, innanzitutto, il timore di atti terroristici. A ritenerli molto o abbastanza probabili, nel corso dei prossimi mesi, è il 55% della popolazione (un percentuale lievitata di circa dieci punti nell'ultimo anno e mezzo). Allo stesso tempo, i cittadini sembrano aver sviluppato una sorta di "abitudine" al rischio, almeno per certi aspetti della loro vita. Per cui, se più di una persona su due, un anno fa, riteneva opportuno evitare i viaggi all'estero (55%), oppure quelli in aeroplano (53%), il numero di chi fa proprie queste avvertenze è sceso considerevolmente, attestandosi al 40%.
A tali preoccupazioni si sommano quelle legate alla difficile congiuntura economica, determinando una maggiore attenzione al risparmio. Ad esempio, il 65% delle persone (contro il 53% di un anno fa) prevede di diminuire il proprio volume di spesa, anche nei piccoli acquisti di tutti giorni.
Questo mix di fattori tende a produrre un clima di disagio, quando non di esplicito pessimismo sulle prospettive future. Tanto che quote non marginali di intervistati immaginano, per i giovani d'oggi, un avvenire meno roseo rispetto a quello dei genitori. La maggioranza della popolazione prevede condizioni peggiori per quanto riguarda sia il rischio di guerre (66%) che la sicurezza personale (57%). Ma circa una persona su due si spinge oltre e vede profilarsi una situazione meno positiva anche sotto il profilo del benessere economico.
(25 aprile 2004)
http://www.repubblica.it/online/politica/italiairaqsette/diamanti/diamanti.html
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