Il senso del limite, la lugubre attesa dell'orda e la lezione di Eugenio Montale
C'è un senso del limite nell'umano che non è possibile varcare. Chi frequenta il testo biblico lo conosce bene. Adamo ed Eva persero l'innocenza perchè oltrepassarono un limite, perchè desideravano divenire Dio. Quando il limite è oltrepassato il male può diventare incontrollabile e l'onnipotenza di Dio, come afferma qualcuno, diventa "onnidebolezza". Il primo limite da non oltrepassare è quello delle parole. Lo notiamo nelle nostre vite quotidiane, quando le parole vanno oltre si crea una rottura che può trasformarsi anche in violenza e morte. Purtroppo, la nostra attuale vita sociale, civile e politica sta vivendo di un continuo "sconfinamento" e "scivolamento" del limite del linguaggio. Si può anche essere accusati di essere "politicamente corretti" o "buonisti", ma quando si sdoganano parole d'ordine e slogan contro altri esseri umani e tanti altri esseri umani applaudono seguendo acriticamente, come moltitudini e come un sol uomo, il "capo", significa che abbiamo un grande problema che ci obbliga a fare una riflessione, ma anche ad agire, a fare la nostra parte per sensibilizzare le coscienze evitando di rimanare spettatori passivi. Quando, per accrescere il proprio egoistico potere, si crea ogni giorno un nemico, significa che abbiamo preso una deriva pericolosa le cui conseguenze non siamo in grado di prevedere, ma che possiamo ancora prevenire. Ci è di monito la poesia "la primavera hitleriana" che Eugenio Montale compose in occasione dell'incontro tra Mussolini e Hitler a Firenze il 9 maggio 1938.
Folta la nuvola bianca delle falene impazzite
turbina intorno agli scialbi fanali e sulle spallette,
stende a terra una coltre su cui scricchia
come su zucchero il piede; l'estate imminente sprigiona
ora il gelo notturno che capiva
nelle cave segrete della stagione morta,
negli orti che da Maiano scavalcano a questi renai.
Da poco sul corso è passato a volo un messo infernale
tra un alalà di scherani, un golfo mistico acceso
e pavesato di croci a uncino l'ha preso e inghiottito,
si sono chiuse le vetrine, povere
e inoffensive benché armate anch'esse
di cannoni e giocattoli di guerra,
ha sprangato il beccaio che infiorava
di bacche il muso dei capretti uccisi,
la sagra dei miti carnefici che ancora ignorano il sangue
s'è tramutata in un sozzo trescone d'ali schiantate,
di larve sulle golene, e l'acqua séguita a rodere
le sponde e più nessuno è incolpevole.
Tutto per nulla, dunque? – e le candele
romane, a San Giovanni, che sbiancavano lente
l'orizzonte, ed i pegni e i lunghi addii
forti come un battesimo nella lugubre attesa
dell'orda (ma una gemma rigò l'aria stillando
sui ghiacci e le riviere dei tuoi lidi
gli angeli di Tobia, i sette, la semina
dell'avvenire) e gli eliotropi nati
dalle tue mani – tutto arso e succhiato
da un polline che stride come il fuoco
e ha punte di sinibbio....
Oh la piagata
primavera è pur festa se raggela
in morte questa morte! Guarda ancora
in alto, Clizia, è la tua sorte, tu
che il non mutato amor mutata serbi,
fino a che il cieco sole che in te porti
si abbàcini nell'Altro e si distrugga
in Lui, per tutti. Forse le sirene, i rintocchi
che salutano i mostri nella sera
della loro tregenda, si confondono già
col suono che slegato dal cielo, scende, vince -
col respiro di un'alba che domani per tutti
si riaffacci, bianca ma senz'ali
di raccapriccio, ai greti arsi del sud...
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