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I perchè di Genova 2001

Intervista a Vittorio Agnoletto
21 luglio 2019
Danilo Minisini e Laura Tussi

Intervista a Vittorio Agnoletto di Danilo Minisini e Laura Tussi - menzione su RADIO POPOLARE

1 -Sono passati quasi vent’anni da Genova 2001. Un momento che ha segnato la vita di molte persone e che ancora oggi, dopo tante analisi politiche, indagini, processi, è una ferita aperta nella storia italiana. Quali sono stati, secondo lei, gli aspetti più significativi di quell’evento?

 

Purtroppo quando si parla di Genova 2001, l’attenzione è concentrata solo su quanto accaduto venerdì 20 luglio e sabato 21 luglio, sull’attacco dei carabinieri al corteo delle tutte bianche, l’uccisione di Carlo Giuliani, la tremenda repressione, le violenze perpetrate da parte delle forze dell’ordine, poi l'assalto alla scuola Diaz e le violenze e le torture di Bolzaneto. Ci si dimentica sempre che il Forum di Genova - perché di questo si trattava di un Forum vero e proprio - è iniziato lunedì 16 luglio con una serie di incontri pubblici ai quali hanno partecipato decine di migliaia di persone per la stragrande maggioranza giovani, che venivano non solo dall’Italia, ma da tutta Europa e con delegazioni anche da altri continenti. Questa è stata un’autentica "università a cielo aperto" che riprendeva le modalità e gli stessi contenuti che avevano animato, solo sei mesi prima, a gennaio 2001, il primo Forum Sociale Mondiale di Porto Alegre. Invito, chi è interessato, ad approfondire quelle vicende e a leggere le registrazioni delle assemblee del Forum di Genova, perché ascoltandole si capisce l’attualità dei temi che il movimento sollevava.

Si comprende quanto noi avevamo ragione. Nell’assemblea di apertura, uno dei principali relatori era Walden Bello che era il direttore di Focus on the  Global South, uno dei dirigenti del movimento antiliberista più conosciuto in tutto il continente asiatico e non solo. Walden intervenendo nel Forum di apertura, disse: “Attenzione se continua questo modello di sviluppo, nel giro di pochi anni, noi assisteremo a tali cambiamenti a livello del pianeta che produrranno un forte rischio per la vita di milioni e milioni di persone". Walden Bello parla nel 2001 prima dello tsunami che travolge una parte del continente indiano e prima che i cambiamenti climatici e il tema dello scioglimento dei ghiacciai e dell’aumento delle temperature diventassero argomenti di discussione quotidiana. Nella stessa assemblea di apertura Susan George, allora presidente di Attac Francia, una delle principali organizzazioni europee, aveva detto: "Attenzione! se prosegue la finanziarizzazione dell’economia, nel giro di pochi anni l’Europa andrà incontro a una crisi economica e sociale senza precedenti". È esattamente quello che è avvenuto. Tutti i temi oggi di grande attualità che erano già presenti allora.

Per fare un altro esempio, a Genova 2001 abbiamo pesantemente criticato le politiche del Fondo Monetario Internazionale, le politiche di aggiustamento strutturale che avevano messo in ginocchio la grande maggioranza dei paesi dell’Africa Subsahariana. Funzionava così: il Fondo Monetario Internazionale garantiva prestiti ai paesi africani, imponendo loro il taglio delle politiche di sanità pubblica e istruzione pubblica. Questo è stato uno dei temi attraverso cui abbiamo ricevuto la solidarietà di padre Alex Zanotelli e la partecipazione al Forum da parte di tanti missionari. Mai avremmo potuto immaginare che pochi anni dopo, la troika avrebbe applicato esattamente queste politiche anche in Europa, a cominciare dalla Grecia.

Un altro tema che abbiamo sviluppato era la questione della distribuzione delle ricchezze. Allora noi dicevamo: non è possibile che il 20% della popolazione mondiale possieda l’80% delle ricchezze. Oggi, secondo i dati pubblicati da una banca svizzera, la Credit Suisse, risulta che nel 2017 l’8,6% della popolazione possedeva oltre l'85% della ricchezza mondiale. Ciò vuol dire che un numero sempre più ristretto di persone possiede capitali sempre maggiori e che aumenta ulteriormente il numero delle persone più povere. Oggi il 70% della popolazione mondiale possiede il 2,7% della ricchezza del pianeta.

Un altro tema era la campagna contro la vendita delle armi. Anche questo è un tema attualissimo, è sufficiente ricordare che poche settimane fa varie associazioni genovesi hanno bloccato una nave saudita che cercava di trasportare armi e voleva attraccare nel porto di Genova.

Penso che, se si vuole capire quanto avvenuto in questi ultimi 10 anni, per avere chiavi interpretative è utile tornare a quanto noi avevamo detto a Genova. Avevamo capito dove stava andando il mondo, ma chi governava ha fatto finta di non capirlo e la storia è andata come si sa. 

 

2 - Dal 1992 al 2001 lei è stato presidente nazionale della LILA (Lega Italiana per la Lotta contro l'AIDS). Ha avuto importanti incarichi presso il ministero della salute e nel 1994 è stato “medico dell’anno” secondo la rivista specializzata “Stampa Medica”. La visibilità che le ha dato l’essere stato il portavoce del Genoa Social Forum, ha in qualche modo determinato cambiamenti nella sua vita professionale? Ha subito ritorsioni a causa delle sue scelte?

 

 

Indubbiamente essere stato il portavoce del Genoa Social Forum ha modificato completamente la mia vita e per la verità, non solo essere stato il portavoce, ma l’aver voluto dopo il G8 continuare, senza far sconti a nessuno, ad impegnarmi nella battaglia per ottenere verità giustizia su quanto avvenuto in quei giorni. Da più parti, da molti ambiti politici anche differenti, non solo dalla destra, ma anche da settori della sinistra, subito dopo il G8 e anche negli anni seguenti, mi venne caldamente consigliato di chiudere quel capitolo, non parlarne più e non insistere a chiedere verità e giustizia. Sono andato avanti, fino ad arrivare nel 2011 alla pubblicazione de "L’Eclissi della democrazia. Le verità nascoste sul G8 2001 di Genova". Questo è il libro scritto insieme a Lorenzo Guadagnucci, una delle vittime della Diaz e con il contributo del Pubblico Ministero nel processo Diaz, Enrico Zucca. Nell’”Eclissi della democrazia” abbiamo raccontato tutto quello che accadde in quei giorni e che conoscevamo sia per il ruolo che avevamo svolto, sia per la possibilità di accedere ad una gran mole di documenti e atti processuali. Abbiamo indicato per nome e cognome i responsabili dei vari e differenti episodi che si erano svolti in quelle giornate e questo ha contribuito a creare una situazione nei nostri confronti di forte isolamento. Isolamento che però era già iniziato i giorni seguenti al G8.

Nei 15 giorni dopo la conclusione del G8, sono stato estromesso dalla Commissione Nazionale AIDS del Ministero della Sanità; sono stato estromesso dalla Commissione per la Lotta alla Droga della Presidenza del Consiglio; ho perso non solo la docenza, ma anche la direzione di corsi di formazione sull’HIV dell’Istituto Superiore della Sanità che dirigevo da anni. Ero responsabile scientifico di vari progetti finanziati dall’Istituto Superiore di Sanità e da fondi pubblici nazionali e di altri progetti di ricerca finanziati dalla Commissione Europea: erano progetti e bandi che avevo vinto con la mia associazione in collaborazione con diverse associazioni ed enti di ricerca; nel giro di pochi mesi ho perso tutto.

Vi sono contemporaneamente state anche forti ricadute sulla LILA, l’associazione di cui ero presidente: ci sono stati tagliati molti fondi e parecchi enti pubblici non hanno più voluto collaborare con la LILA. Quello che mi sorprese allora fu che non si trattava solo delle amministrazioni governate dalla destra, ma anche delle amministrazioni governate dal centrosinistra. Ricordo che nell’autunno 2001 avevo organizzato con la LILA, insieme alla regione Toscana, un grande convegno internazionale sui temi dell’AIDS. Dovevano partecipare personalità provenienti da tutto il mondo per parlare dei temi inerenti la lotta all’HIV. La regione Toscana ci ha fatto sapere che se io fossi stato presente non si sarebbe fatto il convegno. Io allora ero il presidente della LILA e avevo organizzato tutto. Per salvare l’attività della LILA fui costretto a dimettermi un po’ di mesi prima della scadenza del mio mandato, per permettere la sopravvivenza dell’associazione.

In quei mesi molte delle collaborazioni lavorative che avevo sono state bruscamente interrotte. Sono stato praticamente estromesso da tutto.

È il prezzo che in questo Paese si paga se si vuole condurre una battaglia di verità e giustizia scontrandosi con il potere, il potere vero.

A fianco di quello che è avvenuto in ambito lavorativo, ho subito diverse forme di minacce. La situazione era molto complicata perché le intimidazioni, in questo caso, non mi arrivavano certo dalla mafia.

Le minacce si sono riproposte in modo altrettanto pesante nel 2010 quando ho cominciato a scrivere il libro che è uscito nel 2011 in occasione del decennale; le ho raccolte e raccontate proprio in un’appendice di quel volume.

È indubbio che quanto avvenuto ha contribuito radicalmente a cambiare la mia vita. È stata una forma di ostracismo che purtroppo non ha avuto solo il volto delle istituzioni dominate del centro destra. D’altra parte, nel libro che abbiamo pubblicato, abbiamo attribuito a ciascuno le sue responsabilità ed è innegabile che negli eventi di Genova abbiano avuto grandi responsabilità anche personaggi che devono la loro carriera al centrosinistra e che a tale schieramento politico facevano riferimento. Non abbiamo scritto un libro a tesi precostituite, ma un libro dove a ciascuno abbiamo attribuito le responsabilità che gli competevano, ovviamente quelle che eravamo stati in grado di individuare, senza fare alcuna eccezione. 

  

3 - Dopo Genova 2001, lo smarrimento si è impadronito di molte persone, molti giovani soprattutto che hanno sperimentato il volto feroce dello Stato.  Quel volto feroce che, anche oggi si manifesta verso le persone più deboli e indifese. Lei pensa che l'azione nonviolenta che comincia a manifestarsi, soprattutto in forma spontanea, possa diventare contagiosa ed essere motivo di speranza?

 

 

Si è parlato molto delle forme di repressione di piazza utilizzate per stroncare il movimento del 2001. Si è parlato forse poco, perché tanti sono i responsabili, dell’operazione repressiva mediatica che è stata attuata e che ha teso a delegittimare quel movimento che, non dimentichiamolo, è stato enorme. Solo per fare qualche esempio, in un paio di mesi avevamo raccolto 150.000 firme per ottenere l’attuazione della Tobin Tax, cioè la tassazione sulle transazioni finanziarie speculative. Quindi un movimento molto forte che stava crescendo in Italia e in tutta Europa; oltre a reprimerlo è stato anche delegittimato. Il tentativo è stato quello di descrivere il Genoa Social Forum come una organizzazione sovversiva.

Quando questi attacchi si susseguono per settimane e per mesi un certo risultato lo ottengono. Su un punto fondamentale. La forza del Genoa Social Forum era stata la sua capacità di raccogliere attorno a una piattaforma unica 1015 associazioni italiane e 171 associazioni internazionali di quasi 50 Paesi sparsi in tutto il mondo, e far sì che, oltre a una piattaforma condivisa, queste associazioni fossero capaci di darsi anche un punto di riferimento unico, cioè un consiglio che le rappresentava tutte. Io ero il portavoce, ma c’era un consiglio di diciotto persone scelte di comune accordo da tutte le realtà che avevano aderito al GSF. E quella è stata la nostra forza, il GSF veramente andava dai missionari, agli scout ai centri sociali; eravamo in grado di trasmettere gli stessi contenuti parlando diversi linguaggi che rompevano gli steccati, rompevano le barriere. Prima del G8 la rivista Famiglia Cristiana, che allora era il settimanale letto da centinaia di migliaia di persone, aveva riportato in varie occasioni i temi che ci stavano a cuore; inoltre andava a verificare quale fosse l’opinione degli italiani verso le nostre battaglie ad esempio la lotta per la pace, e si scopriva come la maggioranza dei cittadini italiani fossero con noi.

Uno dei primi risultati che la repressione mediatica, unita a quella di piazza, ha prodotto è stata la rottura dell’unità del movimento. Molte associazioni del mondo cattolico e parecchie di quelle impegnate nel mondo del welfare e dell’assistenza a un certo punto si chiedevano: "Noi che passiamo la nostra giornata ad assistere i malati, a costruire case-alloggio, ad attivare progetti di assistenza domiciliare, gruppi di auto aiuto ecc. ecc. se continuiamo a essere descritti come sovversivi non riusciamo più a fare le nostre attività, perdiamo tutti i nostri contatti, perdiamo i nostri rapporti e consensi". E allora molte associazioni hanno pensato di tornare a agire unicamente nel proprio specifico.

Prima del G8, centinaia di associazioni avevano ognuna una propria maglia e poi si è deciso di indossare anche la maglia del Genoa Social Forum, cioè qualcosa che ci teneva insieme e uniti. Di fronte alla repressione, ognuno si è tolto quella maglia ed è tornato a occuparsi della sua particolare mission. E questo ha portato alla perdita di forza e di capacità di incidere del movimento.

Ma non dimentichiamoci che il movimento non perde la sua forza immediatamente dopo il G8. L’energia propulsiva del movimento dura fino al 15 febbraio 2003, giornata nella quale si assiste, in tutto il mondo, alle grandi manifestazioni contro la guerra. La giornata di lotta viene lanciata dal movimento italiano durante il Forum Sociale Europeo nel novembre 2002. Sono milioni e milioni le persone che manifestano in tutto il mondo. Al punto che il New York Times esce col famoso titolo "È nata la seconda superpotenza" che sarebbe il movimento pacifista contrapposto alla superpotenza degli Stati Uniti. Un fatto simile   non era mai accaduto nella storia dell’umanità. Ma noi non siamo stati in grado di fermare la guerra e l’attacco americano all’Iraq.

Prima della giornata di mobilitazione mondiale, abbiamo organizzato anche una delegazione a Baghdad con rappresentanti del movimento che provenivano da diverse parti del mondo proponendoci come una sorta di scudi umani per impedire che si scatenasse la guerra.

Ma il conflitto si sviluppa lo stesso; gli Stati Uniti iniziano i bombardamenti sull’Iraq. A quel punto, con un movimento diviso e frantumato, non riusciamo a riconvertire il nostro obiettivo finalizzato a bloccare la guerra, in una serie di obiettivi più piccoli, ma inerenti lo stesso tema; non siamo ad esempio stati capaci di avviare un’ampia campagna in grado di boicottare le molte industrie coinvolte, a vario titolo, nell’attività bellica. In Europa meridionale non vi è una tradizione di lotta nella quale i cittadini si vivono come consumatori, non vi è la consapevolezza di quanto, collettivamente, possiamo pesare sul mercato. Quindi lo scoppio della guerra nel 2003 viene vissuto come una sconfitta di fronte alla quale ci sentiamo impotenti. Era il periodo in cui, in Italia, non c’era paese che non avesse esposte ai balconi le bandiere per la pace. In particolare il coinvolgimento del mondo cattolico era enorme. Non abbiamo avuto la capacità di trovare altri obiettivi unificanti, anche perché continuavamo a dover rispondere nei tribunali agli attacchi repressivi e questo ci sottraeva attenzione e energia. I governi di quegli anni e il sistema politico, hanno fatto di tutto per trasferire il confronto con il movimento solo sul terreno repressivo, ignorando completamente i nostri contenuti e rifiutando qualunque contradditorio sul merito delle nostre proposte.

Su un aspetto dobbiamo fare autocritica, riconoscere un nostro errore: non siamo stati capaci di trasformare la nostra corretta analisi delle conseguenze della globalizzazione liberista in esempi concreti in grado di impattare la realtà quotidiana dei ceti popolari; molti che ascoltavano con interesse le nostre proposte sullo scenario “globale” si sono trovati soli qualche anno dopo di fronte alla crisi. Le nostre analisi non si concretizzavano in proposte semplici e comprensibili da tutti per affrontare la mancanza di lavoro, l’aumento del costo della vita ecc. Incolpare i migranti delle proprie difficoltà è risultato molto più semplice e consolatorio in assenza di messaggi differenti, antitetici, ma altrettanto semplici e facilmente comprensibili. Nonostante questo credo che i nostri contenuti non siano andati persi e come spesso accade nella storia dei movimenti, si sono sviluppati attraverso delle modalità carsiche, non visibili e quando qualcosa è carsico, non lo vedi in superficie, perché scorre non in un grande fiume, ma in tanti piccoli rivoli. Quella sensibilità si è diffusa.

Da qualche mese assistiamo alle manifestazioni di giovani sui cambiamenti climatici. Ho partecipato a queste manifestazioni e ho parlato con i ragazzi e mi sono fatto l’idea che, pur nella loro non conoscenza di quanto avvenuto a Genova 2001, molti di quei contenuti sono alla base del loro movimento. Quando i giovani dicono che abbiamo un solo pianeta, quando dicono che se non fermiamo questo modello di sviluppo non vi è futuro per nessuno, non è molto distante da quanto noi dicevamo a Genova e sintetizzavamo nello slogan: un altro mondo è possibile. Oggi le ragazze e i ragazzi in piazza ci dicono che non solo un altro mondo è possibile ma anche necessario; non ne abbiamo un altro di riserva.

Noi criticavamo questo modello di sviluppo per le tragiche conseguenze che ne sarebbero derivate; purtroppo è accaduto quello che avevamo previsto.

Questi ragazzi si muovono in una società che è il prodotto di quello che noi denunciavamo e che è anche la conseguenza della nostra sconfitta ad opera dei poteri che sostengono il modello neoliberista.

Certamente i nostri contenuti vengono declinati da questa nuova generazione in un modo differente.

Tra il 2001, Genova, Porto Alegre e le manifestazioni di Friday for Future vi sono stati anche nel “nostro campo” alcuni importanti eventi che hanno certamente costruito lo scenario e lo sfondo allo sviluppo di un movimento verso il quale Greta ha funzionato da innesco. Mi limito a citarne due: il referendum in difesa dell’acqua pubblica che ha contribuito a diffondere il senso dei Beni Comuni, l’importanza degli elementi fondanti dell’esistenza umana: acqua e terra; la predicazione di papa Francesco che, mentre sulle tematiche di genere  appare non discostarsi dalla classica rigida dottrina della Chiesa, risulta particolarmente innovativa in campo sociale, in particolare con la Laudato sì che ha contribuito non poco a favorire lo sviluppo di un’ecologia sociale qui e ora, non a caso don Luigi Ciotti si riferisce all’enciclica chiamandola Laudato sì, Laudato qui.

Saranno i giovani, in autonomia a trovare le strade attraverso le quali sviluppare il movimento sui cambiamenti climatici, noi dobbiamo rispettare le loro scelte e al massimo limitarci a mettere a loro disposizione qualche riflessione proveniente dalla nostra esperienza.

Penso, ad esempio, che tale movimento dovrà crescere ancora nella consapevolezza che una parte consistente del conflitto è tra il basso e l’alto, tra poveri e ricchi; i cambiamenti climatici sono certamente frutto di comportamenti individuali, di come ognuno di noi vive dentro la società dei consumi, ma anche di scelte strategiche globali da parte di chi detiene il potere, sono anch’essi espressione di un’enorme conflitto sociale che attraversa tutto il pianeta ed anche in questo caso i primi a pagarne il prezzo saranno i più deboli.  Questo ci rimanda ancora una volta al termine glocal: legare il globale e il locale. D’altra parte vi è sempre un passaggio di staffetta tra i movimenti. Il movimento del 2001 a sua volta risentiva delle tematiche dei movimenti dei decenni precedenti. Proprio sulla base dell’esperienza passata, mi permetto di fornire loro un suggerimento: state attenti; non durerà a lungo l'appoggio della grande maggioranza dei media mainstream. Appena voi giovani passerete da una denuncia generale dei cambiamenti climatici a individuare specifiche responsabilità, appena deciderete di fare dei presidi contro la società che sta a Milano e che costruisce dighe in Etiopia e in Turchia, provocando la modifica del tragitto dei fiumi e obbligando centinaia di migliaia di persone ad abbandonare la loro terra e ad emigrare in condizioni di povertà, appena andrete a denunciare le politiche dell’Enel e dell’Eni, allora diventerete meno simpatici alla grande stampa.

E allora cominceranno a criticarvi e tenteranno di dividervi e di provocarvi. Questo è sempre stato l’atteggiamento del potere.

Prima blandire, tentando di incorporare una parte delle richieste e di far deviare il percorso del movimento. Per esempio vi diranno che dovete prendervela con i paesi del sud del mondo, come la Cina e l’India. Invece, le politiche ambientali devono essere cambiate ovunque, certamente anche in Cina e in India, ma è fuor di dubbio che il potere, quello vero, per ora si trova ancora in gran parte nell’emisfero nord-occidentale del pianeta. Se il movimento per il clima avrà la capacità di individuare obiettivi concreti, dovrà fare i conti con i tentativi da parte del potere di dividerlo, di reprimerlo e dovrà capire che il suo più grande patrimonio è la capacità di restare unito. Unito e globale. 

 

 

4 - In questi anni molti di noi, che facciamo parte di associazioni e movimenti, guardiamo con preoccupazione e spesso con sconcerto a ciò che capita nell’ambito della sinistra italiana. Sembra che anziché impegnarsi per la costruzione di obiettivi comuni e occuparsi della sempre più difficile situazione delle persone fragili, ci sia la sottolineatura della propria identità, delle proprie scelte, di un narcisismo che sembra essere sempre presente, di una litigiosità continua. È un’analisi troppo pessimistica? 

 

Potrei non aggiungere nulla e semplicemente sottoscrivere il contenuto della domanda. Sono totalmente d’accordo. In questi anni abbiamo assistito a una resistenza importante di centinaia, di migliaia di associazioni, collettivi, piccoli gruppi che sul loro territorio e sui loro temi specifici, hanno opposto una resistenza quotidiana agli attacchi del neoliberismo. È evidente che prima di tutto si parla della questione dei migranti. Il simbolo è Riace, ma oltre a Riace sussistono centinaia di esperienze altrettanto interessanti di solidarietà e difesa dei diritti umani di coloro che arrivano da un altro Paese. Pensiamo a tutte le associazioni che in questi anni hanno lavorato sui temi ambientali, dalla vicenda Pfas in Veneto all’ILVA a Taranto fino alle tragedie, alle frane e alle alluvioni che hanno coinvolto il centro e sud Italia; pensiamo alle tante mobilitazioni, alle denunce e alle segnalazioni da parte di gruppi, collettivi e comitati.

Pensiamo alla quantità enorme di associazioni che lavorano nell’assistenza sociale e sanitaria, o ai collettivi che lottano per migliorare condizioni di lavoro inaccettabili ad esempio tra i riders o nel campo della logistica. Questa è la sinistra sociale, è a costoro che dobbiamo la resistenza ai vari governi più o meno di destra, ma tutti con politiche di destra, che si sono succeduti.

Questa sinistra sociale è stata finora e lo è ancora oggi, assolutamente orfana di una rappresentanza politica e credo che le ragioni principali siano quelle contenute nella domanda. Penso che la sconfitta più grande, oltre a quella politica, sia stata la sconfitta culturale. Un filo - non rosso - unisce Craxi, Berlusconi e Renzi. È un filo, prima che politico, culturale, di distruzione di tutti quei valori che simbolicamente e fattivamente sono contenuti nella Costituzione. Hanno lavorato per distruggere il valore dell’agire collettivo; nel tentativo di cancellare l’idea che dalla crisi e dalle situazioni di difficoltà si esce uniti, insieme e non pestando i piedi al proprio vicino più povero.

Un filone culturale che si è alimentato con la nascita delle televisioni private e da come sono nate, cioè con la subcultura del disimpegno, del “mi faccio i fatti mie”, del “posso emergere unicamente sulle spalle di chi mi sta intorno”. Questa subcultura ha dilagato dappertutto e credo abbia purtroppo raggiunto anche settori della sinistra e quando si perde la speranza, si finisce anche per non credere più che l’azione collettiva possa cambiare il mondo; allora ognuno guarda solo a sé stesso e a mio parere questo è avvenuto alle formazioni della sinistra e anche a diversi dirigenti della sinistra: una logica individuale, individualista e superidentitaria. La forza di una sinistra diffusa esiste in Italia e non è vero che è tutto azzerato. Non vi è stata l’umiltà di costruire dal basso un soggetto politico unificante di sinistra. Questo è avvenuto anche non tenendo fede ai nostri stessi valori. Come possiamo, quando ci confrontiamo e ci scontriamo con la destra, parlare di tolleranza, di valorizzazione delle diversità e avere al contrario una storia fortemente divisiva della sinistra politica? Quello che predichiamo dobbiamo essere i primi a realizzarlo.

La speranza non è mai morta, anche perché è un dovere storico ricostruire un soggetto a sinistra. Deve essere un soggetto plurale, unito da obiettivi concreti e fondato sulla partecipazione collettiva, sul protagonismo di gruppi locali. Senza questo non si riuscirà a costruire nulla. Le condizioni sociali oggettive per poter costruire la sinistra ci sono. Il neoliberismo ha fallito e le soluzioni della destra sovranista hanno un tempo limitato perché fondate su delle promesse che non verranno mantenute. L’operazione della destra sovranista, tipica di tutti i regimi populisti di destra, è semplice: ottenere i voti dei ceti popolari per politiche che vanno contro i loro stessi interessi.

Che senso ha che i più deboli, i più poveri, votino un partito che propone la Flat Tax e che in pratica propone di non far pagare le tasse ai ricchi?

Fin dalla nascita della Repubblica, come previsto dalla Costituzione, era stabilita una precisa progressività delle tasse in relazione ai redditi.

Per un po’ la destra può annebbiare la vista dei ceti popolari, facendo loro credere che il nemico sia il migrante; ma quando non ci sono soldi per pagare l’affitto, per arrivare a fine mese e contemporaneamente le tasse sono state abbassate ai più ricchi, qualche dubbio, qualche conflitto si aprirà nel fronte populista di destra. E allora l’opportunità per la costruzione di un soggetto di sinistra sarà ancora più evidente. Ma oggi siamo in presenza di un forte deficit soggettivo della sinistra politica e nulla fa pensare che sia facilmente superabile senza un ricambio generazionale e una forte innovazione culturale.

 

 

5 - Lei è stato parlamentare europeo dal 2004 al 2009 e in seguito, nel 2010, candidato alla presidenza della Regione Lombardia. Poi, nel 2015 ha fondato, insieme ad Emilio Molinari e Piero Basso, l'associazione "Costituzione Beni Comuni". Questa scelta di “uscire” dall’ambito istituzionale da cosa è stata motivata? Quali sono gli ambiti di cui si occupa l’associazione?

 

Questa scelta è stata motivata dalla convinzione che l’incidenza sul piano istituzionale oggi è molto più limitata che nel passato perché, come ormai si sa, molte delle decisioni non vengono prese all’interno delle istituzioni elettive, ma sono assunte in ambiti internazionali che sfuggono a qualunque controllo democratico come ad esempio: la Banca Mondiale, il Fondo Monetario Internazionale, l’ Organizzazione Mondiale del Commercio, varie istituzioni dell’ Unione Europea fra le quali la BCE e i grandi fondi finanziari, solo per fare alcuni esempi.

È evidente che il ruolo istituzionale oggi è molto meno efficace rispetto al passato, anche se rimane un ruolo importante da dove, almeno parzialmente, si può ancora incidere

Inoltre penso che ora la cosa fondamentale sia ripartire dal basso, per costruire consapevolezza, coscienza collettiva e che una sinistra non può essere ricostruita a prescindere dalla centralità dei ceti popolari. Noi non possiamo pensare di costruire una sinistra 'per' qualcuno, noi dobbiamo costruire una sinistra 'con' qualcuno. Non può essere una sinistra che mette insieme un po’ di intellettuali convinti di essere chiamati loro a fare il bene dei ceti popolari, di quelli che hanno un lavoro precario, di quelli che sono disoccupati, di quelli che hanno un lavoro a chiamata, di quelli che non possono sopravvivere con una pensione da fame.

Prima di tutto perché si possa costruire una sinistra deve esserci il protagonismo di questi soggetti fondato su autonomi processi di autoorganizzazione. Questa opera si compie, iniziando dal sociale. Faccio parte ancora di coloro che pensano che il politico sia un prolungamento del sociale e non il contrario.

Una rappresentanza politica a sinistra se non ha gambe sociali non riesce ad avere nessuna incidenza. Per questo ho scelto in questi anni di dare la priorità alla lotta sociale e alla battaglia culturale. 

 

 

6 - Secondo la sua esperienza e guardando alla realtà odierna, su quali temi le realtà attente alla solidarietà e alla costruzione di umanità dovrebbero oggi maggiormente impegnarsi?

 

 

La mia risposta è molto banale in questo caso. Penso che si debba ripartire dalle condizioni materiali. Raramente ci sono state diversità così enormi nei redditi all’interno dello stesso Paese tra i più ricchi e i più poveri. In tutto il mondo occidentale noi stiamo andando verso la cancellazione delle conquiste che sono avvenute nella seconda metà del XX secolo. Penso all’istruzione di massa, al servizio sanitario nazionale, al Welfare, alle pensioni e quindi bisogna cominciare di nuovo da salute, casa, lavoro. I bisogni materiali. Altrimenti si può parlare molto, ma con la pancia vuota non si va da nessuna parte. Però tutto questo non può essere fatto con le modalità passate. 

E sottolineo due aspetti. Penso che sia importante che nella società continuino a esserci dei corpi intermedi. Non condivido l'idea che l’unico rapporto con le istituzioni si fondi su un rapporto diretto tra il singolo cittadino e lo Stato, magari giocato sul computer. Va benissimo l’attività dei social, ma la nostra Costituzione è ancora attuale anche in questo e prevede forme sociali di organizzazione collettiva che sono i corpi intermedi della società. Corpi sociali intermedi sono per esempio i sindacati, i patronati, l’Arci, le grandi organizzazioni che si battono per la salute, i quali fanno sì che il singolo cittadino non resti isolato con il suo problema davanti allo Stato. Una delle difficoltà a sinistra è l’incapacità di ricostruire strutture collettive, che siano capaci di rappresentare la società attuale.

Facciamo un esempio. Ci sono ancora i sindacati, ma si occupano del personale dipendente sostanzialmente con contratti a tempo indeterminato e poco altro. E non riescono, non sono stati capaci di interagire con quella massa enorme di persone che sono fuori da quel mercato del lavoro, con contratti a tempo determinato, contratti a chiamata, contratti a ore, che passano da un stage all’altro, che passano da un corso di formazione all’altro, lavoro nero eccetera… Però la maggioranza delle nuove generazioni ha questo tipo di lavoro, non un contratto a tempo indeterminato. E allora costruire delle realtà collettive, delle strutture intermedie che rappresentano queste persone significa cambiare paradigma. Non possiamo pensare che il modello sindacale ottocento-novecentesco possa coprire la molteplicità di lavori ed i diversi tipi di contratti che esistono oggi o addirittura l’assenza di contratti.

Penso alla necessità di camere del lavoro territoriali, sociali, radicate sul territorio. È necessario un salto culturale. Per esempio, è necessario ricollocare la stessa categoria dei diritti, che devono essere sempre più pensati come diritti universali propri della condizione umana e non più collegati unicamente alla condizione lavorativa. Nel novecento è stata una grande conquista per le donne lavoratrici il diritto alla gravidanza, ma oggi questo diritto deve essere sancito giuridicamente non solo per le donne che hanno un lavoro a tempo indeterminato, ma anche perle tante che si trovano in altre condizioni lavorative e deve essere ampliato e tutelato anche da provvedimenti quali ad es. quelli relativi alla paternità obbligatoria che incentivino   anche   pratiche di equità di genere.

Qualunque donna, che vive nella nostra società, deve avere la possibilità, se lo desidera, di poter procreare senza rischiare economicamente la propria vita e il proprio percorso professionale.

Un altro aspetto da sottolineare è che oggi qualunque riflessione sulla trasformazione delle nostre condizioni di vita non può prescindere dal pensare globalmente; oggi una decisione assunta in un fondo finanziario a Londra, piuttosto che a New York, può cambiare la vita di un contadino che lavora nelle campagne attorno a Napoli. Dobbiamo avere una visione globale, anche per impedire che ci spingano a lottare gli uni contro gli altri.

Un giorno, quando ero al Parlamento Europeo, giunse la notizia del rischio di chiusura di alcune acciaierie italiane; stesi un comunicato stampa e chiesi ai miei colleghi delle altre forze di sinistra presenti in Parlamento di firmarlo e sostenerlo. Mi risposero con un forte imbarazzo; la chiusura delle fabbriche italiane garantiva la sopravvivenza delle acciaierie situate nei loro Paesi.  

È la logica del capitale che contrappone gli uni agli altri. Ecco perché è necessario un pensiero globale. Ma i sindacati non sono stati in grado di fare questo salto; nei fatti i sindacati europei esistono come sigla. Come capacità reale di costruire vertenze europee sono a un livello molto basso.

Sono convinto che sia possibile cambiare con l’impegno collettivo, la realtà attuale. Non è illusorio. Ma necessitiamo di paradigmi interpretativi molto diversi rispetto a quelli del passato.

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    6 giugno 2021 - Laura Tussi
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