La nave che bloccò 7.000 migranti e contrabbandò 700.000 sigarette
Questo lavoro le valse il plauso dell’allora ministro Matteo Salvini, nazionalista antimigranti, che la elogiò per avere “difeso la nostra sicurezza”, come scrisse sui social media. “Onore!”
C’era un solo problema: la Caprera trasportava in Europa merce di contrabbando.
Durante un’ispezione della nave il giorno del suo rientro in patria, la guardia di finanza scoprì circa 700.000 sigarette di contrabbando e diverse confezioni di Cialis, un farmaco contro la disfunzione erettile. Tutta la merce era stata acquistata mentre la Caprera si trovava a Tripoli, nel quadro di una missione di contrasto al traffico di esseri umani condotta dalla Marina italiana, dal marzo al luglio 2018.
“Mi sono sentito come Dante all’inferno”, commentò il tenente colonnello Gabriele Gargano, che ha diretto l’operazione di polizia e l’inchiesta che ne è seguita. “Ho visto tanti casi di contrabbando, ma settanta sacchi di sigarette su una nave militare no, non li avevo mai visti in vita mia”.
L’episodio ha gettato un’ombra su quello che i leader europei hanno presentato come un tentativo duro ma fondato su giusti principi di arginare l’ondata di immigrazione nel continente. All’epoca dell’incidente gli stati europei, in particolare l’Italia, stavano chiudendo i loro porti ai migranti, criminalizzando gli operatori civili che li soccorrevano nel Mediterraneo e delegando la responsabilità degli interventi di ricerca e salvataggio alla guardia costiera libica.
A Brindisi è in corso un processo nel quale cinque marinai sono accusati di avere partecipato all’operazione di contrabbando, ma l’inchiesta è andata oltre il caso della sola Caprera.
Fatture di cui il “New York Times” ha preso visione dimostrano che gli uomini della Caprera acquistavano le sigarette in Libia con un sistema a quanto pare elaborato da una seconda nave italiana, la Capri, ormeggiata a Tripoli nel gennaio 2018. Stando ad altri documenti giudiziari consultati dal “New York Times”, a maggio una terza nave coinvolta nella missione è stata perquisita a Napoli per sospetto contrabbando.
“Questa vicenda potrebbe essere molto più grossa e coinvolgere altre navi”, ha commentato Gargano, che sta indagando sui membri dell’equipaggio di almeno un’altra nave. “Siamo in attesa di sviluppi”.
Da documenti che il “New York Times” ha consultato e da interviste a inquirenti e funzionari italiani emergono particolari di rilievo su come i membri dell’equipaggio di una nave tanto importante per lo sforzo europeo di arginare il traffico di esseri umani dalla Libia conducevano sottocoperta un’attività criminosa.
Nel 2019 un collegio di esperti delle Nazioni Unite ha accertato che la missione navale italiana ha violato l’embargo delle NU sulle armi riparando una nave da guerra libica, ma dai documenti risulta che la Caprera avrebbe trasgredito in almeno tre altre occasioni. Dimostrano anche che la missione ritardò di avvisare la guardia costiera italiana sulla presenza di migranti nel Mediterraneo meridionale, lasciando che i militari libici li intercettassero e li riportassero nella Libia dilaniata dalla guerra.
Il “New York Times” ha accertato il coinvolgimento della Caprera nell’operazione di contrabbando intervistando rappresentanti delle forze di polizia, marinai di servizio nella missione e gli avvocati degli imputati, e ha suffragato tale documentazione con sms, fotografie e registrazioni di intercettazioni telefoniche acquisite dalle indagini giudiziarie e militari di cui è entrato in possesso.
“Sono un po’ nella cacca”, scrive un marinaio della Caprera, Antonio Mosca, in un sms inviato dopo il sequestro della nave. “Le autorità portuali sono salite sulla Caprera. Noi stavamo scaricando i sacchi con le sigarette”.
I fatti che portarono la Caprera a Tripoli iniziarono nel 2011, quando le rivolte che infiammavano il Medio Oriente aprirono un vuoto di potere in gran parte della regione, Libia compresa. I disordini spinsero centinaia di migliaia di profughi, molti dei quali proprio dalla Libia, a fuggire verso la sicurezza dell’Europa.
Per fermare quell’esodo, nel 2017 il governo italiano sottoscrisse un accordo con il governo di Tripoli sostenuto dalle NU.
L’Italia prometteva supporto economico e logistico, parzialmente finanziato dall’Unione Europa, per ricostruire la guardia costiera libica. In base a tale accordo, l’Italia donò alla Libia alcune vecchie navi della guardia costiera, oltre a spiegare le proprie unità navali a rotazione a Tripoli per coordinare le rispettive attività di contrasto della migrazione.
Poiché la guarda costiera libica era scarsamente equipaggiata e non disponeva delle radio necessarie a comunicare con le sue unità in mare, le operazioni venivano segretamente dirette dalle navi da guerra italiane, nonostante l’impegno assunto da Tripoli nel sottoscrivere l’accordo a condurre autonomamente tali operazioni – e questo stando a due marinai partecipanti alla missione, a un comandante della guardia costiera libica, alle prove contenute nell’inchiesta giudiziaria e a Salvini.
“Coordinavano le operazioni di soccorso”, ha detto Salvini al “New York Times” all’inizio di quest’anno.
L’obiettivo dell’Italia era permettere alla guardia costiera libica di impedire che i migranti raggiungessero le acque internazionali, rendendo più difficile il soccorso della flotta di navi civili e della guardia costiera italiana che portavano i rifugiati in porti sicuri europei.
A quello scopo gli equipaggi delle navi italiane a Tripoli ritardavano talvolta di trasmettere le informazioni al comando della guardia costiera a Roma, come si ricava dai giornali di bordo esaminati dal “New York Times” e da un’intervista a un capitano di vascello della stessa guardia costiera.
Dai diari di bordo relativi a una fallita intercettazione coordinata da marinai italiani nel novembre 2017, durante la quale annegarono diversi migranti, risulta che l’ambasciatore italiano a Tripoli e il suo addetto navale arrivarono a chiedere alla guardia costiera italiana di ritirare le sue navi da quell’area per dare più spazio di manovra alla controparte libica.
Stando ai documenti, anche prima che i suoi marinai si dessero al contrabbando la Caprera aveva violato i termini dell’embargo sulle armi delle NU in almeno tre occasioni. L’embargo vieta a soggetti stranieri sia di fornire armi a qualsiasi fazione coinvolta nella guerra civile libica, sia di riparare equipaggiamenti militari.
“Abbiamo riparato le armi dei libici nonostante l’embargo”, ha detto un ingegnere della Caprera in una telefonata intercettata dalla polizia, “se viene fuori, è un casino”.
La marina italiana ha rifiutato di commentare questo e ogni altro aspetto della vicenda.
L’attività di contrabbando a bordo della Caprera ha preso forma nella primavera del 2018, quando alcuni marinai del reparto di ingegneria, un po’ alla volta, riempirono un’officina con sacchi di sigarette. La merce, acquistata in Libia, poteva essere rivenduta in Italia con un notevole margine di profitto eludendo gli elevati dazi di importazione.
Una prova decisiva per gli inquirenti è costituita dalle fotografie scattate a una festa d’addio organizzata a maggio per Marco Corbisiero, ingegnere capo della Caprera giunto al termine del suo incarico a bordo prima del resto dell’equipaggio. Le immagini condivise sul gruppo WhatsApp della Caprera mostrano Corbisiero sorridente davanti a una grande torta al cioccolato preparata in suo onore.
Alle sue spalle c’erano parecchi sacchi di sigarette di contrabbando.
Come affermano i pubblici ministeri, sms e registrazioni di telefonate intercettate dalla polizia nello stesso anno dimostrano che Corbisiero, che ora ha 44 anni, era una figura chiave del contrabbando. Corbisiero è uno dei cinque uomini dell’equipaggio sotto processo a Brindisi e secondo Fabrizio Lamanna, il legale che lo difende, è il capro espiatorio della vicenda.
Dalla fine del 2017 i resoconti bancari mostrano che ha ricevuto decine di migliaia di dollari da privati, tra cui marinai italiani; gli inquirenti ritengono che si tratti di cifre versate a titolo di anticipo per le sigarette di contrabbando. Dalla vendita delle sigarette Corbisiero avrebbe ricavato quasi 120.000 dollari – circa 90.000 più del prezzo pagato per acquistarle in Libia.
La maggior parte delle sigarette è stata caricata sulla Caprera dopo che Corbisiero aveva lasciato la nave. Prima della partenza, nell’officina dove erano nascoste i membri dell’equipaggio potevano muoversi agevolmente; quando la nave è arrivata a Brindisi, la sala era talmente stipata di sacchi che i poliziotti hanno avuto difficoltà a entrare.
Gli inquirenti ritengono che i marinai acquistassero le sigarette con banconote prelevate da un fondo di emergenza di diverse centinaia di migliaia di euro messo a disposizione dallo stato italiano e custodito a bordo della Caprera. Per coprire la malversazione, consegnavano il denaro a un intermediario, un funzionario della guardia costiera libica di none Hamza Bin Abulad.
Bin Abulad, ora trentanovenne, era stato addestrato in Italia dalla guardia di finanza; al momento dei fatti lavorava come collegamento tra gli italiani e le loro controparti libiche.
Bin Abulad forniva a marinai italiani come Corbisiero fatture per articoli regolari, come pezzi di ricambio per navi, con il timbro di una società fittizia chiamata Tikka – che in arabo significa “fiducia”.
Un’amara ironia, ha commentato Gargano, visto che le fatture della Tikka servivano a occultare il fatto che i marinai usavano denaro appartenente allo stato italiano per acquistare ingenti quantitativi di sigarette libiche – nonché le confezioni di Cialis.
E ci sono segnali che le fatture della Tikka, diciotto in tutto, coprivano molto più che delle semplici sigarette. Le fatture, infatti, documentano pagamenti per più di 145.000 dollari, ma gli inquirenti ritengono che soltanto circa 26.000 dollari siano stati spesi per le sigarette: ciò significa che la maggior parte dei prodotti o servizi acquistati attraverso la Tikka rimane ignota.
Attraverso un portavoce, Bin Abulad ha rifiutato di rilasciare commenti.
La Caprera è tornata in Italia alla metà di luglio con quello che la guardia di finanza ha definito il più grosso carico di contrabbando mai rinvenuto su una nave da guerra italiana.
Il traffico è stato scoperto quando un marinaio ha visto i suoi compagni mentre scaricavano sacchi di sigarette sul molo di Brindisi e ha mandato una fotografia al capitano della nave, Oscar Altiero.
“Comandante, mi scusi se la disturbo”, gli ha scritto il marinaio. “Dentro questi sacchi si trovano quelle famose stecche di sigarette”.
La nave è stata sequestrata dalla guardia di finanza, dando il via a un’indagine durata ventidue mesi.
In Libia, Hamza Bin Abulad non è incorso in alcuna sanzione. Recentemente è stato promosso ingegnere capo della guardia costiera libica.
Jason Horowitz ha fornito la corrispondenza da Roma.
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