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Razzismo negli Usa

La bambina e la gang

Aveva sei anni e solo con la scorta riuscì a entrare in classe. Nel 1960 Ruby Bridges fu la prima afroamericana della sua scuola a New Orleans. All'esterno, una combriccola aggressiva le fece la posta, un gruppo di donne ostili le rese la vita un inferno
22 novembre 2020
Jasmin Lörchner
Tradotto da Stefano Porreca per PeaceLink
Fonte: Spiegel Online - 13 novembre 2020

I marshal degli Stati Uniti hanno scortato Bridges da e per la scuola.

La mattina del primo giorno di scuola, per Ruby Bridges, fu entusiasmante. Sua madre Lucille si dava un gran daffare, in seguito quattro uomini dall'aspetto autorevole, in completo e con le fasce da braccio, comparvero sulla porta d'ingresso e, insieme a loro, raggiunsero la scuola elementare William Frantz, nel quartiere 9th Ward di New Orleans. La 6enne e sua madre scesero dall'auto e, attorniate dai quattro uomini, si diressero verso l'entrata. Ruby vide barricate, una folla schiamazzante e degli agenti di polizia.

"Pensai che fosse Mardi Gras", ricorda nel suo libro Through my eyes a distanza di quasi quarant'anni. Quel 14 novembre 1960, tuttavia, New Orleans non festeggiava il Carnevale. La folla chiassosa protestava contro il fatto che la piccola afroamericana frequentasse la scuola insieme ai bambini bianchi. La bimba udì fischi e urla: "I negri vogliono prendere il potere, ci vogliono cacciare tutti!"

Sessant'anni fa, il primo giorno di scuola di Ruby Bridges segnò il culmine della lotta per la segregazione razziale nelle scuole dello Stato federato della Louisiana. È vero che, nel 1954, la Supreme Court, il più alto tribunale degli Stati Uniti, aveva sentenziato che la segregazione negli istituti d'istruzione violava la Costituzione e andava perciò revocata. Ciò nonostante, gli Stati federati degli Usa meridionali si opposero all'esecuzione allo stesso modo in cui già per decenni si erano opposti all'uguaglianza dei diritti per i cittadini neri. 

L'unica bambina nera della scuola

Adesso tentavano di eludere la sentenza. Quando, nel 1957, in Arkansas, i primi nove giovani afroamericani si iscrissero alla Little Rock Central High School, per impedire loro di entrare a scuola, il governatore dello Stato federato inviò perfino la guardia nazionale. Il presidente degli Stati Uniti, Dwight D. Eisenhower, fu costretto a mandare in Arkansas l'esercito al fine di fornire protezione. Ciò malgrado, i nove studenti furono pesantemente insultati e molestati.

In ultimo, allo Stato federato della Louisiana un giudice federale pose un ultimatum: all'inizio dell'anno scolastico, il 14 novembre 1960, insieme agli alunni bianchi, per la prima volta sarebbero stati ammessi anche gli alunni afroamericani.

Con un test attitudinale svoltosi l'anno precedente erano stati individuati i candidati idonei. Tre bambine afroamericane superarono l'esame e furono inserite nella scuola elementare McDonogh 19, situata in un distretto limitrofo, Ruby Bridges nella William Frantz.

Quando l'organizzazione per i diritti civili NAACP comunicò la notizia ai suoi genitori, Lucille e Abon Bridges, tralasciò un dettaglio: "Non sapevo che Ruby sarebbe stata l'unica bambina nera della scuola, non sapevo quanto male si sarebbero messe le cose", disse tempo dopo Lucille Bridges.

Il carico di odio delle cheerleader

Dei 575 alunni dell'istituto, il primo giorno di scuola si presentarono solo 105. Dall'ufficio della direttrice, Lucille Bridges e Ruby osservarono le madri bianche mentre prelevavano i loro figli dalle aule - in segno di protesta contro la presenza di Ruby. La gang davanti alla scuola le incitava. Anche nel pomeriggio, i federal marshal scortarono Ruby e sua madre. "La cosa che mi ricordo di più è una bambola nera in una bara. Mi ha fatto più paura di tutto il resto", così Ruby Bridges.

Con particolare aggressività agì un gruppo di donne che la stampa bianca locale di lì a breve chiamò “cheerleader”. Già a Little Rock, nel 1957, le donne del vicinato si erano organizzate. Quelle di New Orleans sapevano che lì la protesta non aveva fermato l’integrazione e si comportarono perciò in modo ancora più estremo.

“Non si era mai visto che delle donne bianche agissero in quel modo”, sostiene la storica di Bochum Rebecca Brückmann, che sulle donne bianche coinvolte nella resistenza contro la fine della segregazione razziale ha scritto un libro (Massive resistance and southern womanhood: white women, class, and segregationist resistance).

Molte di loro in quella scuola non avevano neppure un figlio. Agitavano teschi di carta e cappi, sputavano, sbraitavano, lanciavano oggetti. "Non si sforzavano minimamente di apparire rispettabili. Agivano esplicitamente da donne di bassa estrazione. Ne andavano fiere e avevano un vero e proprio ethos del lavoro rispetto alla protesta", afferma la professoressa junior (NdT: In Germania viene così denominata la carica accademica di primo livello) Brückmann. "Usavano l'idea della maternità come pretesto per fonderla con quella della superiorità bianca."

Quanto meno un volto bianco gentile salutava Ruby tutti i giorni: Barbara Henry. La maestra si era trasferita a New Orleans poco tempo prima ed era pronta a insegnare a una classe integrata. Henry si sedeva accanto alla sua unica alunna e insieme studiavano l'alfabeto, svolgevano calcoli, dipingevano e cantavano. Poiché a Ruby non era consentito di giocare nel cortile della scuola, talvolta Henry toglieva di mezzo i tavoli, e insieme eseguivano dei leggeri esercizi di ginnastica. Durante la lezione, le guardie del corpo sedevano nel corridoio della scuola e scortavano Ruby anche quando doveva andare al bagno.

Il forte legame con la maestra

Per la pausa pranzo, Henry andava in sala insegnanti, dove i colleghi la accoglievano con commenti dispregiativi. Ruby mangiava sola all'interno dell'aula, all'area ristoro non le era permesso di accedere. Da quando il bidello trovò prima degli insetti e poi dei sandwich che Ruby aveva nascosto nella sua solitudine dentro la classe, maestra e alunna trascorsero assieme l'intervallo. Il loro legame divenne così stretto che Ruby abbandonò il suo accento meridionale e prese a parlare come Barbara Henry.

Per fermare del tutto l'attività scolastica, le cheerleader organizzarono un boicottaggio: secondo una vecchia legge della Louisiana, le scuole con dieci o meno alunni potevano essere chiuse. I genitori bianchi che continuavano a mandare a scuola i loro figli furono tormentati e attaccati.

Le razziste insultarono, spinsero e picchiarono Daisy Gabrielle, perché portava a scuola sua figlia Yolanda. Gabrielle si difese agitando la sua borsa. La gang si appostò così davanti all'abitazione della sua famiglia. Per tre settimane, i Gabrielle resistettero alle pressioni, dopodiché si trasferirono in un altro Stato federato.

"Ti avvelenerò!"

Anche il pastore metodista Lloyd Andrew Foreman continuò a mandare a scuola sua figlia 5enne, finché dopo alcune settimane anche i Foreman si arresero e traslocarono. Le donne astiose lo denigravano come white trash, come "feccia", termine sprezzante con cui negli Stati del Sud ci si riferiva ai membri dei ceti inferiori. "Così facendo, esse adoperarono un marchio che si voleva imprimere su costoro e lo ribaltarono: per queste donne, immondizia era chi non condivideva la loro ideologia razzista", sostiene Rebecca Brückmann.

Per Ruby, dover passare vicino alle cheerleader significò finire ogni giorno sotto le forche caudine. Ogni volta, una di loro urlava: "Ti avvelenerò! Troverò un modo!" Ruby soffrì di disturbi dell'alimentazione e del sonno. Uno psicologo, che durante il primo anno si occupò di lei e delle tre bimbe afroamericane della scuola McDonogh, incontrava Ruby regolarmente e le faceva ritrarre sé stessa, la scuola e le sue esperienze. Gradatamente, la bambina andò migliorando.

La protesta delle cheerleader si placò solo dopo alcuni mesi. Ora, anziché con la scorta dei marshal, a scuola e a casa Ruby si recava in taxi. Verso la fine dell'anno scolastico, qualche studente bianco tornò: certi genitori, a lungo andare, non poterono permettersi di mandare i figli alle scuole private, dove continuavano a non esserci afroamericani.

In tal modo, però, il razzismo entrò direttamente in aula. "Un giorno mi si accese una lampadina quando un ragazzino bianco si rifiutò di giocare con me: 'Non posso giocare con te. Mia madre me l'ha proibito, perché sei una negra'. In quel momento, tutto acquistò un senso per me. Finalmente capii che tutto quello che era successo era dovuto al fatto che ero nera", così Bridges.

Negli anni a seguire, le cheerleader mandarono i loro figli nelle scuole del distretto limitrofo o traslocarono per evitare l'integrazione. Nel corso della white flight, della fuga bianca, numerose famiglie bianche si trasferirono dai quartieri etnicamente misti ai sobborghi in cui tornavano a vivere tra i loro simili.

Il 10 novembre 2020, Lucille Bridges si è spenta all'età di 86 anni. Sua figlia Ruby portò a termine gli studi secondari, restò a New Orleans, lavorò nel settore viaggi e in seguito divenne una mamma a tempo pieno. Nel 1999, ha creato una fondazione che promuove la tolleranza e si batte contro il razzismo. Oggi, lei si chiama Ruby Bridges Hall e la sua ex scuola elementare, dal 2013, Akili Academy. La maggior parte degli alunni è afroamericana. Nel cortile della scuola, una statua in bronzo ricorda l'alunna più famosa, che da piccola dovette sopportare così tanto odio razzista.

Tradotto da Stefano Porreca per PeaceLink. Il testo è liberamente utilizzabile a scopi non commerciali citando la fonte (PeaceLink) e l'autore della traduzione.
N.d.T.: Titolo originale: "Das Mädchen und der Mob"

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