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La musa nazista dei comunisti cinesi

Un vecchio argomento usato da Hitler riportato in auge da molti intellettuali cinesi
15 dicembre 2020
Chang Che
Fonte: The Atlantic - 01 dicembre 2020

Quando quest’estate a Hong Kong sono scoppiate le proteste contro una legge sulla sicurezza nazionale imposta da Pechino, il fatto che gli intellettuali si precipitassero a difendere il Partito Comunista era forse prevedibile. Ciò che non era prevedibile è il modo in cui lo avrebbero fatto.

Demonstration Hong Kong 11

«A partire da quando Hong Kong è stata ceduta» ha scritto su People’s Daily Wang Zhenmin, professore di legge alla Tsinghua University (una delle istituzioni più prestigiose della Cina), «ci sono stati alcuni eventi che ne hanno minacciato la prosperità e la stabilità». La città, sosteneva di fatto Wang, non poteva permettersi di preoccuparsi delle libertà civili quando era in gioco la sua stessa sopravvivenza. Qi Pengfei, un esperto della questione di Hong Kong alla Renmin University, ha fatto eco a quest’opinione, insistendo sul fatto che la legge sulla sicurezza mira a proteggere la città «dall’infiltrazione di forze straniere». In articoli, interviste e conferenze stampa, nel corso di tutta l’estate moltissimi studiosi hanno portato avanti delle idee simili a queste.

Nonostante i rappresentanti dell’accademia cinese hanno dei limiti per quanto riguarda quello che possono dire, si può comunque affermare che possono anche esprimere pubblicamente il loro dissenso. A volte, seppure in modo cauto e circoscritto, rivolgono persino delle critiche al governo cinese. Questa volta invece, l’enorme quantità di articoli prodotti dagli intellettuali, unita alla natura dei loro argomenti (coerenti, coordinati e spesso formulati con lo stesso sofisticato gergo legale), suggerisce che a Pechino ci sia un nuovo livello di coesione per quanto riguarda i limiti del potere statale.

Il presidente cinese Xi Jinping ha decisamente spostato il centro di gravità ideologico all’interno del Partito Comunista. Quella limitata tolleranza che la Cina aveva nei confronti del dissenso è quasi del tutto sparita, e le regioni che in teoria dovrebbero essere autonome (sia geograficamente che culturalmente), tra cui lo Xinjiang, la Mongolia Interna e Hong Kong, hanno assistito a una riduzione delle loro libertà. Nel frattempo ha preso campo un nuovo gruppo di intellettuali: noti come “statalisti,” questi sottoscrivono la visione di uno stato più autoritario, addirittura più autoritario rispetto alla proposta delle loro controparti della classe dirigente. Credono che una mano pesante sia l’unico modo con cui una nazione possa assicurarsi la stabilità necessaria per proteggere autonomia e prosperità. Come recita un articolo del 2012 su Utopia, un forum online di statalisti cinesi, «La stabilirà ha la precedenza su tutto».

Una tale priorità all’ordine è condannata dalla maggior parte dell’Occidente, eppure prospettive del genere non sono affatto senza precedenti nella storia occidentale. Infatti i nuovi statalisti cinesi hanno molto in comune con una corrente che ha preso piede in Germania all’inizio del XX secolo.

Quest’affinità non è un caso

Carl Schmitt quand'era studente

Negli ultimi anni in Cina si è assistito a un interesse crescente nei confronti del lavoro del giurista Carl Schmitt. Noto come il “Giurista di corte” di Hitler, Schmitt si è unito al Partito Nazional Socialista nel 1933, e sebbene fosse ufficialmente un membro del Partito solo da tre anni, la sua teoria del diritto antiliberale ebbe un impatto durevole, sia al suo tempo, contribuendo alla giustificazione degli omicidi extragiudiziali degli ebrei e degli oppositori politici, che fino a molto tempo dopo. Mentre per quanto riguarda i conflitti sui valori gli intellettuali liberali si rivolgevano all’imperio della legge come l’autorità ultima, Schmitt credeva che dovesse invece essere sempre la sovranità ad avere l’ultima parola. Mantenere la fedeltà all’imperio della legge porterebbe solo a indebolire il potere di una comunità nel prendere delle decisioni, e a «deprivare lo stato e la politica del loro significato più autentico». Secondo Schmitt, se uno stato viene ostacolato in questo modo, non potrà essere in grado di proteggere i suoi cittadini dai nemici esterni.

La fascinazione della Cina per Schmitt si è sviluppata all’inizio del XXI secolo, quando il filosofo Liu Xiaofeng ha tradotto in cinese i principali lavori del pensatore tedesco. In un’ondata di entusiasmo che prese il nome di “febbre di Schmitt,” le sue idee hanno alimentato le scienze politiche, la filosofia e i dipartimenti di legge delle università cinesi. Secondo Chen Duanhong, un professore di legge alla Peking University, Schmitt è stato «il teorico che ha avuto più successo» nell’arricchire questa disciplina apportandovi dei nuovi concetti politici. «Quello che ammiriamo è la sua dottrina costituzionale,» ha scritto Chen nel 2012, e ha in seguito commentato l’adesione di Schmitt al Partito Nazista come «una scelta personale». Un allievo alla Peking University’s, che per via della delicatezza dell’argomento ha chiesto di non rendere pubblico il suo nome, mi ha detto che all’università il lavoro di Schmitt è «diffuso nel linguaggio comune, ed è ormai parte dell’istituzione accademica.»

L’influenza di Schmitt è particolarmente evidente se si guarda alle politiche di Pechino nei confronti di Hong Kong. Da quando la Gran Bretagna ha ceduto Hong Kong alla Cina, la città era ufficialmente governata secondo il principio “Una Cina, due sistemi,” per cui pur essendo considerata parte della Cina, per cinquant’anni avrebbe preservato le sue libertà, la sua indipendenza giudiziaria e altre forme di autonomia. Nel tempo, con la tendenza del CCP ad aumentare il controllo, queste libertà si sono indebolite, e di recente, per via della legge sulla sicurezza nazionale, sono state del tutto compromesse.

Chen, che sin dal 2014 ha scritto molto sulle politiche di Hong Kong, e che stando al New York Times è stato un consulente di Pechino riguardo alla questione, nel 2018 ha direttamente citato Schmitt in difesa dell’idea di una legge sulla sicurezza nazionale. «Il giurista tedesco Carl Schmitt,» ha scritto in un articolo, distingue tra norme statali e norme costituzionali. «Quando lo stato è in grave pericolo» continua Chen citando Schmitt, i capi di stato hanno il diritto di sospendere le norme costituzionali, «in particolar modo le disposizioni sui diritti civili». Jiang Shigong, anche lui professore alla Peking University, ha portato avanti delle idee simili. Jiang, che dal 2004 al 2008 ha lavorato come ricercatore all’ufficio di collegamento del governo cinese a Hong Kong, nel suo libro del 2010, China’s Hong Kong, attinge ampiamente alle idee di Schmitt e le usa per risolvere in favore del Partito Comunista le tensioni tra sovranità e imperio della legge.

Nel 2014 Jiang ha partecipato alla redazione del libro bianco che sottopone Hong Kong alla totale giurisdizione di Pechino. Alludendo a Schmitt, il documento sostiene che la necessità di preservare la sovranità «di un paese» deve avere la precedenza sulle libertà civili di «due sistemi». Servendosi della logica di Schmitt, si è così alzata tantissimo la posta in gioco per quanto riguarda la possibilità di azione a Hong Kong: la legge sulla sicurezza ha smesso di essere una trasgressione liberale, ed è diventata una necessità esistenziale.

Xi Jinping (2015)

Chen e Jiang finora «sono l’espressione più concreta della svolta schmittiana avvenuta [in Cina] dopo gli anni ’90» ha dichiarato in un saggio uscito a luglio Ryan Mitchell, professore alla Chinese University of Hong Kong. Entrambi sono l’avanguardia del movimento statalista, forniscono una giustificazione agli impulsi autoritari dei leader cinesi. E seppure non è chiaro quanto potere esercitino fra i ranghi più alti del partito, questi statalisti condividono la visione del loro leader supremo. «Il grande progetto di Xi Jinpingè è quello di reinventare e rivitalizzare la potenza dello stato,» mi ha detto Jude Blanchette, presidente del Center for Strategic and International Studies, «Anche lui è uno statalista».

Come ha fatto un pensatore nazista a ottenere un’accoglienza del genere in Cina? In parte è una questione di convenienza. «Schmitt fa quello che avrebbe dovuto fare il marxismo ma che adesso il marxismo non è più in grado di fare» mi ha detto Haig Patapan, professore di scienze politiche alla Griffith University in Australia, che ha studiato la ricezione di Schmitt in Cina. Grazie alle idee di Schmitt, gli intellettuali in favore di Pechino trovano il modo di ancorare la legittimità del Partito a forze più primordiali, quelle del nazionalismo e dei nemici esterni, piuttosto che servirsi della ormai logora idea di lotta di classe.

Chiang Kai-Shek alla Wuhan University

Ma l’ideologia è solo un aspetto della vicenda. Un’altra spiegazione si può trovare nella storia della Cina. Negli anni ’30 Chiang Kai-Shek, allora al governo del paese, sviluppò una grande ammirazione per la Germania nazista. «[La Germania] era un paese che come la Cina aveva raggiunto tardi l’unificazione,» mi ha detto William Kirby, professore di cultura cinese alla Harvard University e autore di Germany and Republican China (La Germania e la Cina repubblicana). Per la Cina, un paese confinante con avversari stranieri, l’esempio della rapida modernizzazione della Germania veniva visto come esemplare. Nel 1927 Chiang aveva assunto Max Bauer, un esperto tedesco di artiglieria, come consigliere militare; suo figlio Chiang Wei-Kuo, si è arruolato nella Wehrmacht, le forze armate naziste, durante l’invasione dell’Austria del 1938.

Peoples daily headquarters

Una lezione dal governo di Chiang è che le minacce dall’estero possono alimentare l’autoritarismo interno. E per quasi un secolo, mentre il potere passava dai nazionalisti di Chiang ai comunisti di Mao Zedong, la paura dell’infiltrazione “nemica,” terreno fertile per il fascismo, è rimasta nella psiche nazionale cinese. «Chi sono i nostri nemici? Chi sono i nostri amici?» chiede Mao proprio nella prima riga dei suoi Scritti scelti. Più tardi, dal 1989 al 1991, in cinquecento articoli pubblicati nel People’s Daily, il giornale controllato dallo stato, si incontra la formula “forze ostili”: la minaccia di invasione, o comunque il sospetto nei confronti degli stranieri, continuano a caratterizzare anche la politica contemporanea. Un’ansia del genere dà credito alle teorie antiliberali di Carl Schmitt, il quale una volta ha asserito che tutte «le azioni e le ragioni politiche si possono ridurre [a questa distinzione] tra amici e nemici».

La pandemia ha ulteriormente rinsaldato le teorie degli statalisti. Il fatto che la Cina sia riuscita a sbarazzarsi di un virus che il presidente Donald Trump ha chiamato “il nemico invisibile,” mentre gli Stati Uniti vi rimangono ancora impantanati, è presentato dagli statalisti cinesi come un trionfo per la visione schmittiana del mondo.

«Da quando Xi Jinping è diventato il leader principale della Cina,» ha scritto Flora Sapio, sinologa all’Università di Napoli,“ la filosofia di Carl Schmitt ha trovato delle applicazioni ancora più ampie, sia nelle teorie del partito che nella vita accademica». Questo è uno spostamento significativo: a Pechino segna il passaggio da un governo illiberale, che per una questione di convenienza trasgredisce le norme liberali, a un governo antiliberale, che per principio  ripudia le norme liberali.

Tradotto da Laura Matilde Mannino, revisione di Giacomo Alessandroni per PeaceLink. Il testo è liberamente utilizzabile a scopi non commerciali citando la fonte (PeaceLink) e l'autore della traduzione.

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