La musa nazista dei comunisti cinesi
Quando quest’estate a Hong Kong sono scoppiate le proteste contro una legge sulla sicurezza nazionale imposta da Pechino, il fatto che gli intellettuali si precipitassero a difendere il Partito Comunista era forse prevedibile. Ciò che non era prevedibile è il modo in cui lo avrebbero fatto.
Nonostante i rappresentanti dell’accademia cinese hanno dei limiti per quanto riguarda quello che possono dire, si può comunque affermare che possono anche esprimere pubblicamente il loro dissenso. A volte, seppure in modo cauto e circoscritto, rivolgono persino delle critiche al governo cinese. Questa volta invece, l’enorme quantità di articoli prodotti dagli intellettuali, unita alla natura dei loro argomenti (coerenti, coordinati e spesso formulati con lo stesso sofisticato gergo legale), suggerisce che a Pechino ci sia un nuovo livello di coesione per quanto riguarda i limiti del potere statale.
Il presidente cinese Xi Jinping ha decisamente spostato il centro di gravità ideologico all’interno del Partito Comunista. Quella limitata tolleranza che la Cina aveva nei confronti del dissenso è quasi del tutto sparita, e le regioni che in teoria dovrebbero essere autonome (sia geograficamente che culturalmente), tra cui lo Xinjiang, la Mongolia Interna e Hong Kong, hanno assistito a una riduzione delle loro libertà. Nel frattempo ha preso campo un nuovo gruppo di intellettuali: noti come “statalisti,” questi sottoscrivono la visione di uno stato più autoritario, addirittura più autoritario rispetto alla proposta delle loro controparti della classe dirigente. Credono che una mano pesante sia l’unico modo con cui una nazione possa assicurarsi la stabilità necessaria per proteggere autonomia e prosperità. Come recita un articolo del 2012 su Utopia, un forum online di statalisti cinesi, «La stabilirà ha la precedenza su tutto».
Una tale priorità all’ordine è condannata dalla maggior parte dell’Occidente, eppure prospettive del genere non sono affatto senza precedenti nella storia occidentale. Infatti i nuovi statalisti cinesi hanno molto in comune con una corrente che ha preso piede in Germania all’inizio del XX secolo.
Quest’affinità non è un caso
La fascinazione della Cina per Schmitt si è sviluppata all’inizio del XXI secolo, quando il filosofo Liu Xiaofeng ha tradotto in cinese i principali lavori del pensatore tedesco. In un’ondata di entusiasmo che prese il nome di “febbre di Schmitt,” le sue idee hanno alimentato le scienze politiche, la filosofia e i dipartimenti di legge delle università cinesi. Secondo Chen Duanhong, un professore di legge alla Peking University, Schmitt è stato «il teorico che ha avuto più successo» nell’arricchire questa disciplina apportandovi dei nuovi concetti politici. «Quello che ammiriamo è la sua dottrina costituzionale,» ha scritto Chen nel 2012, e ha in seguito commentato l’adesione di Schmitt al Partito Nazista come «una scelta personale». Un allievo alla Peking University’s, che per via della delicatezza dell’argomento ha chiesto di non rendere pubblico il suo nome, mi ha detto che all’università il lavoro di Schmitt è «diffuso nel linguaggio comune, ed è ormai parte dell’istituzione accademica.»
L’influenza di Schmitt è particolarmente evidente se si guarda alle politiche di Pechino nei confronti di Hong Kong. Da quando la Gran Bretagna ha ceduto Hong Kong alla Cina, la città era ufficialmente governata secondo il principio “Una Cina, due sistemi,” per cui pur essendo considerata parte della Cina, per cinquant’anni avrebbe preservato le sue libertà, la sua indipendenza giudiziaria e altre forme di autonomia. Nel tempo, con la tendenza del CCP ad aumentare il controllo, queste libertà si sono indebolite, e di recente, per via della legge sulla sicurezza nazionale, sono state del tutto compromesse.
Chen, che sin dal 2014 ha scritto molto sulle politiche di Hong Kong, e che stando al New York Times è stato un consulente di Pechino riguardo alla questione, nel 2018 ha direttamente citato Schmitt in difesa dell’idea di una legge sulla sicurezza nazionale. «Il giurista tedesco Carl Schmitt,» ha scritto in un articolo, distingue tra norme statali e norme costituzionali. «Quando lo stato è in grave pericolo» continua Chen citando Schmitt, i capi di stato hanno il diritto di sospendere le norme costituzionali, «in particolar modo le disposizioni sui diritti civili». Jiang Shigong, anche lui professore alla Peking University, ha portato avanti delle idee simili. Jiang, che dal 2004 al 2008 ha lavorato come ricercatore all’ufficio di collegamento del governo cinese a Hong Kong, nel suo libro del 2010, China’s Hong Kong, attinge ampiamente alle idee di Schmitt e le usa per risolvere in favore del Partito Comunista le tensioni tra sovranità e imperio della legge.
Nel 2014 Jiang ha partecipato alla redazione del libro bianco che sottopone Hong Kong alla totale giurisdizione di Pechino. Alludendo a Schmitt, il documento sostiene che la necessità di preservare la sovranità «di un paese» deve avere la precedenza sulle libertà civili di «due sistemi». Servendosi della logica di Schmitt, si è così alzata tantissimo la posta in gioco per quanto riguarda la possibilità di azione a Hong Kong: la legge sulla sicurezza ha smesso di essere una trasgressione liberale, ed è diventata una necessità esistenziale.
Come ha fatto un pensatore nazista a ottenere un’accoglienza del genere in Cina? In parte è una questione di convenienza. «Schmitt fa quello che avrebbe dovuto fare il marxismo ma che adesso il marxismo non è più in grado di fare» mi ha detto Haig Patapan, professore di scienze politiche alla Griffith University in Australia, che ha studiato la ricezione di Schmitt in Cina. Grazie alle idee di Schmitt, gli intellettuali in favore di Pechino trovano il modo di ancorare la legittimità del Partito a forze più primordiali, quelle del nazionalismo e dei nemici esterni, piuttosto che servirsi della ormai logora idea di lotta di classe.
La pandemia ha ulteriormente rinsaldato le teorie degli statalisti. Il fatto che la Cina sia riuscita a sbarazzarsi di un virus che il presidente Donald Trump ha chiamato “il nemico invisibile,” mentre gli Stati Uniti vi rimangono ancora impantanati, è presentato dagli statalisti cinesi come un trionfo per la visione schmittiana del mondo.
«Da quando Xi Jinping è diventato il leader principale della Cina,» ha scritto Flora Sapio, sinologa all’Università di Napoli,“ la filosofia di Carl Schmitt ha trovato delle applicazioni ancora più ampie, sia nelle teorie del partito che nella vita accademica». Questo è uno spostamento significativo: a Pechino segna il passaggio da un governo illiberale, che per una questione di convenienza trasgredisce le norme liberali, a un governo antiliberale, che per principio ripudia le norme liberali.
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