Iraq: "Ci siamo trovati a volte davanti a detenuti mezzo morti, con bruciature di ferro da stiro sul corpo", dice il colonnello Carmelo Burgio
http://www.corriere.it/edicola/index.jsp?path=POLITICA&doc=BURGIO - 12 maggio 2004
«La signora Bruno racconta che suo marito Massimiliano era sconvolto per come trattavano i prigionieri? Lo credo bene, il carcere di Nassiriya era orrendo. E lui solo sa quello che può aver visto». Parla il colonnello Carmelo Burgio, comandante dei carabinieri paracadutisti del Tuscania, rientrato in Italia dopo alcuni mesi passati a Nassiriya.
Perché lei dice che può aver visto solo quel carcere?
«Era l’unico in cui noi mettevamo piede. In tutta la provincia di Dhi qar, sotto il nostro controllo, non ci sono altre prigioni. Quel carcere era spaventoso. I detenuti erano ammassati dentro stanzoni cupi. Almeno trenta in ogni camerone. Erano sporchi, affamati, pieni di pidocchi. E credo che il povero Massimiliano facesse parte di una squadra addetta alla supervisione. Assisteva a quelle scene disumane. Capisco che ne abbia parlato alla moglie con un senso di pena».
Chi gestiva questo carcere?
«La polizia irachena. Noi andavamo spesso a fare controlli e più volte abbiamo riscontrato segni di torture sui detenuti. Ne abbiamo sempre informato l’autorità giudiziaria irachena».
Ma facevate notare agli agenti iracheni i risultati delle torture?
«Sicuro. Ma loro si meravigliavano della nostra reazione scandalizzata. Per la polizia irachena accogliere un arrestato con una trentina di legnate era una pratica normalissima. E non parliamo dell’edificio in cui erano rinchiusi i prigionieri. Uno schifo. I militari italiani hanno cercato di rimediare. Hanno aggiustato qualche parete, hanno disinfestato gli ambienti invasi dai topi. Poi hanno capito che ogni sforzo era vano. E hanno deciso di costruire un carcere nuovo che adesso dovrebbe essere quasi ultimato».
Che tipo di soprusi venivano compiuti?
«Ci siamo trovati a volte davanti a detenuti mezzo morti, con bruciature di ferro da stiro sul corpo e lividi terrificanti a causa delle bastonate. Non era solo la polizia irachena a usare la mano pesante. I più bestiali erano alcuni gruppi di miliziani legati a formazioni politiche che si arrogavano il diritto di svolgere compiti di polizia per mantenere l’ordine. Spesso la loro attività consisteva nell’andare a scovare esponenti del vecchio regime per compiere vendette. Li trascinavano in qualche sotterraneo e li sottoponevano a sevizie di una ferocia inimmaginabile».
E voi non potevate intervenire?
«Come no? Il 9 marzo scorso abbiamo addirittura ingaggiato un conflitto a fuoco per liberare due persone tenute prigioniere da giorni e vittime di orribili torture. In quell’occasione abbiamo arrestato nove responsabili».
Le persone da voi arrestate che fine facevano?
«Se prendevamo gente che si era macchiata di reati comuni, come per esempio i tombaroli, li consegnavamo alla polizia irachena. Se invece ci capitava di arrestare terroristi, li affidavamo agli inglesi. Il contingente italiano a Nassiriya dipende dal comando inglese, perciò eravamo obbligati a portare i prigionieri sospetti di attività terroristica nel carcere di Um Qasr, vicino a Bassora».
E poi potevate controllare le condizioni dei detenuti in questa prigione?
«Assolutamente no. Se ne occupavano solo gli inglesi. Noi però eravamo molto preoccupati riguardo alla possibilità che ai detenuti, sia a quelli arrestati per reati comuni sia ai terroristi, potesse succedere qualcosa in prigione».
Temevate che potesse succedere, oppure sapevate che si verificavano episodi di tortura?
«Sapevamo cosa accadeva nel carcere controllato dalla polizia irachena. Cosa avveniva in quello diretto dagli inglesi onestamente non potevamo saperlo».
Mai avuto sentore di comportamenti illeciti da parte degli inglesi?
«Mai sentito nulla. Ad ogni modo noi ci siamo premuniti. Abbiamo le prove che gli italiani non hanno mai torto un capello alle persone arrestate. Se ad esse è successo qualcosa dopo, quando le abbiamo consegnate agli altri, noi possiamo dimostrare di essere puliti. Se hanno subito violenze, responsabili sono gli altri».
Che tipo di prove potete esibire?
«Ogni volta che compivamo un arresto procedevamo in questo modo: varie fotografie della persona a torso nudo, visita medica e certificato sul quale veniva annotato tutto, anche un graffio. Dopodiché avvertivamo i responsabili del carcere: queste sono le condizioni in cui vi consegniamo i detenuti, qui c’è scritto tutto, se da ora in poi gli succede qualcosa sappiamo di chi è la colpa».
Quanti arrestati avete avviato verso il carcere iracheno e quanti verso quello inglese?
«Varie decine, forse centinaia, il numero esatto adesso mi sfugge. Ad ogni modo, noi fin dall’inizio ci siamo posti il problema. Avevamo alle spalle una brutta esperienza. Ricordavamo bene quello che era accaduto in Somalia, con i problemi che poi hanno avuto i nostri. Volevamo assolutamente evitare di finire nei guai».
E che avete deciso di fare?
«Ci siamo consultati con il comandante del nostro contingente, prima il generale Bruno Stano e poi l’attuale Gian Marco Chiarini. E insieme abbiamo deciso una procedura di trattamento nei confronti degli arrestati che ci poteva mettere al riparo da qualsiasi brutta sorpresa. Una procedura che consiste in un’attenzione massima a non commettere qualsiasi forma di sopruso. E poi fotografie e certificati. A tutti quelli incaricati di compiere arresti raccomandavamo sempre di mantenere la calma, di evitare maniere troppo dure. Ragazzi, dicevamo, cerchiamo di stare sempre molto attenti e tutto filerà liscio».
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