Torture sistematiche a Nassiriya, il Ministero della Difesa italiana sapeva
ROMA - Nelle camere di sicurezza della galera di Nassiriya, la polizia irachena ha sistematicamente torturato e abusato dei prigionieri che in quei fetidi stanzoni venivano scaricati. Non era un segreto per nessuno. Non in Iraq, perché di quelle violenze erano stati più volte testimoni i carabinieri italiani del Msu (Multinational specialised unit). Non a Roma, al Comando Operativo di vertice interforze (Coi) del ministero della Difesa, dove, dal giugno del 2002, siede il tenente generale Filiberto Cecchi.
Almeno uno dei comandanti che si sono avvicendati al comando dell'unità del Msu dell'Arma, il colonnello Carmelo Burgio, di quelle violenze ripetute informò infatti nel tempo la sua catena gerarchica che al ministero della Difesa faceva riferimento. A Nassiriya, il comandante della task force italiana, generale Gian Marco Chiarini (e prima di lui il generale Bruno Stano). A Bassora, il comandante del nostro contingente, generale Francesco Paolo Spagnuolo.
Non si tratta né di una parziale ricostruzione, né dei soli ricordi della vedova del maresciallo Bruno. Ma delle prime circostanze di fatto che il procuratore militare di Roma, Antonino Intelisano, è in grado di mettere in fila ventiquattro ore dopo aver aperto un'indagine "conoscitiva" ("atti di indagine relativi a possibili notizie di reato", il termine tecnico) sui fatti denunciati dal Tg3. Se non altro, perché questo raccontano, oggi, le due testimonianze raccolte a verbale dallo stesso Procuratore militare nella concitata mattinata di ieri. Quella del colonnello Carmelo Burgio, comandante del Msu fino al marzo scorso. Quella della signora Pina Bruno.
Il racconto della vedova del maresciallo morto nella strage di Nassiriya è fatto noto. E la signora, ieri, non ha fatto altro che riannodare di fronte al procuratore militare quanto riferito al Tg3. Ha contestualizzato le confidenze di suo marito. Le ha collocate con precisione nella prigione di Nassiriya. Ha spiegato che non intendeva accusare i carabinieri di violenze, ma far sapere ciò di cui erano stati testimoni, dei loro tentativi di sottrarre almeno qualcuno di quei disgraziati ai tormenti di quell'inferno.
E' toccato quindi al colonnello Carmelo Burgio. Il perno di quest'affare. Martedì sera, nelle stesse ore in cui i ricordi della vedova Bruno accendono il Parlamento e fibrillano gli stati maggiori, l'ufficiale dei carabinieri, rientrato dall'Iraq il 25 marzo scorso e oggi comandante del reggimento "Tuscania", affida al Corriere della Sera una lunga intervista. Delle camere di sicurezza di Nassiriya, dice: "Credo che il povero Massimiliano (il maresciallo Bruno ndr.) facesse parte di una squadra addetta alla supervisione. Assisteva a scene disumane... Legnate sugli arrestati, bruciature di ferri da stiro sui corpi, uomini in fin di vita in spazi angusti infestati da topi". Sui rapporti fuori controllo con la polizia locale irachena, aggiunge: "Con loro, il 9 marzo scorso, abbiamo addirittura ingaggiato un conflitto a fuoco per liberare due persone tenute prigioniere da giorni e vittime di orribili torture...". Ce n'è abbastanza per il procuratore Intelisano per chiedere conto a Burgio di quelle circostanze. Ma, soprattutto, per incardinarle in una domanda chiave. Se è vero che il maresciallo Bruno affidò ciò che vide alle sole confidenze con la moglie, cosa ne fece Burgio di quelle informazioni?
Ad Intelisano, l'ufficiale risponde con precisione. Della situazione delle camere di sicurezza di Nassiriya - spiega - informò per tempo i suoi superiori gerarchici nel teatro di operazioni. Dunque, il comando della Task force a Nassiriya (il generale Chiarini), quello del contingente a Bassora (il generale Spagnuolo). Di più: stilò un primo rapporto scritto che consegnò alla magistratura irachena e di cui mise a conoscenza il generale Spagnuolo non appena questo assunse il comando, l'11 marzo scorso. Ancora: riferì in altro rapporto delle ragioni della sparatoria del 9 marzo tra carabinieri e polizia locale.
A sostegno di quel che dice, Burgio consegna alla Procura militare "documentazione" definita "di interesse". In grado di far muovere l'indagine lungo la catena di comando che annoda Roma a Nassiriya. Di dare risposta ad una domanda che, oggi, sembra interpellare più la sfera della responsabilità politica ed etica (chi sapeva?), che non quella del codice penale militare di guerra cui gli uomini del nostro contingente sono soggetti. Aver assistito a torture della polizia locale e non averle impedite non è infatti un reato.
E non lo è perché sebbene quella polizia sia addestrata dal nostro contingente, priva com'è di ogni nesso di subordinazione gerarchica nei confronti dei nostri militari, dei suoi atti risponde penalmente in maniera autonoma. Di fronte alla magistratura irachena. Una circostanza che, evidentemente, non chiude l'affare. Burgio informò i suoi superiori. Ora, Intelisano - e non solo lui evidentemente - vuole capire se e fin dove nella catena di comando italiana gli "obblighi di comunicazione ai superiori" vennero osservati. Il generale Spagnuolo dice a Repubblica: "E' vero, Burgio mi informò". Non sarà l'unico chiamato a rispondere alla domanda.
(13 maggio 2004)
(ANSA) - ROMA, 13 MAG - Degli abusi nel carcere di Nassiriya da parte dei poliziotti iracheni si sapeva. Lo ha detto il maresciallo dei carabinieri Ernesto Pallotta. Il fondatore del Giornale dei carabinieri ha reso pubblico un colloquio che ha avuto con due carabinieri reduci dall'Iraq: 'Non hanno affermato di aver visto personalmente le torture - spiega - ma entrambi hanno spiegato di essere a conoscenza dei maltrattamenti e degli abusi sui prigionieri iracheni, da parte dei poliziotti iracheni'.
2004-05-13 - 14:28:00
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