Noam Livne, refusenik israeliano: storia di una ribellione
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Mi chiamo Noam Livne e sono nato in un kibbutz in Israele. Sono sempre stato quello che in Israele si definisce “uno di sinistra”, ma data la storia particolare del mio Paese, là si è formata un tipo particolare di sinistra, un tentativo di combinare umanesimo e nazionalismo. Mi sono sempre opposto agli insediamenti nei territori occupati, ho sempre pensato che si dovesse costituire uno Stato palestinese accanto a quello israeliano e ho creduto profondamente nel fatto che tutte le persone nascono uguali e meritano uguali diritti.
Però mi sono anche formato nell’adorazione dell’esercito. In Israele l’esercito è la marca più popolare, viene iniettato nel sangue dal giorno della nascita. Fin da piccolo sai che da grande dovrai fare tre anni di servizio militare e dovunque tu vada vedi gente giovane in uniforme. Ci sono libri per bambini sull’esercito e al liceo si fa una settimana di addestramento in una base militare. Usano l’esercito per fare la pubblicità ai formaggi e ai telefoni cellulari. Quand’ero adolescente nel kibbutz, sapevo in quale unità prestava servizio militare ognuno e in quali unità mi sarebbe piaciuto stare. Più avanti spiegherò i motivi di questo fenomeno.
Durante il servizio militare sono diventato ufficiale e ho dovuto fare un anno in più; in questo periodo ho trascorso alcuni mesi nei territori occupati (TO). Questo era in contrasto con le mie convinzioni, ma alcuni motivi mi hanno permesso di accettarlo.
- Era il periodo dei colloqui di pace a Oslo; sembrava che il conflitto fosse quasi terminato e che bastasse solo “lasciare tranquille le cose” per arrivare alla soluzione definitiva.
- In questo contesto, a livello locale, le mie missioni non mi sembravano immorali: dovevo accompagnare i bambini a scuola, oppormi ai tentativi palestinesi di attaccare i coloni, ecc.
- Facevo parte di un grande “branco” di uomini. Ci vogliono molta forza e molto coraggio per mettersi contro il branco. E’ più facile affrontare le pallottole nemiche che rivoltarsi contro il proprio ambiente sociale.
Una volta lasciato l’esercito, ho viaggiato per un po’ per il mondo. Al mio ritorno mi sono a messo a leggere molto su quello che succedeva nei TO e quando avevo appena finito di leggere “La storia” di Elsa Morante, otto anni fa, mi hanno chiamato come soldato della riserva a prestare servizio militare nei territori occupati. Ero più vecchio e più saggio e i negoziati di pace di Camp David erano appena falliti. Questa volta non mi facevo illusioni. Credevo che la presenza dell’esercito nei TO non c’entrasse nulla con la sicurezza di Israele e che l’occupazione non avesse alcuna giustificazione. Di fatto l’unica ragione per mantenere l’esercito nei TO erano gli insediamenti dei coloni, a cui sono profondamente contrario.
Anche così, rifiutarmi di servire nei TO è stata una decisione difficilissima, la più difficile che abbia mai preso. Probabilmente nessuno che non sia vissuto là può capirlo fino in fondo: stavo andando contro tutta la mia educazione, mi stavo togliendo dalla società, mettendomi “contro” di essa. Era come affermare implicitamente che tutti gli altri si sbagliavano, sapendo che mi avrebbero chiamato “traditore, vigliacco ed egoista”. Una volta compresa la scelta morale che avevo davanti, però, non ho più potuto mentire a me stesso. Avrei potuto scegliere una via d’uscita facile: alcuni vanno dallo psichiatra e si comportano da pazzi, altri si comprano un biglietto per l’estero per il periodo di servizio militare; io invece ho deciso di proclamare pubblicamente il mio rifiuto. Sapevo che mi avrebbero messo in prigione e proprio questa era la mia intenzione. Volevo poter dire agli altri che non avevo scelto la via d’uscita più facile, che la mia non era una scelta di convenienza, ma una scelta morale e sfidare così i miei oppositori.
Così mi sono rifiutato di obbedire. Ho informato i miei superiori che ero disposto a svolgere qualsiasi compito difensivo, ma che i miei piedi non avrebbero attraversato la linea verde e io non avrei preso parte in nessun modo all’occupazione. Naturalmente loro non hanno accettato questa posizione e io sono finito in prigione. Poi insieme ad altri obiettori ho fondato il gruppo “Coraggio di rifiutare” e siamo diventati degli attivisti per la pace molto entusiasti. Il nostro principale obiettivo era la fine dell’occupazione; abbiamo organizzato decine di manifestazioni e iniziative, con forti messaggi contro l’occupazione e ottenuto un grande spazio nei mass media.
Il mio rifiuto, insieme all’attivismo, ha avviato un processo lungo e profondo, in cui ho riconsiderato tutto quello che mi era stato insegnato nella vita. Una volta che cominci a scollegarti dal lavaggio del cervello e dall’indottrinamento che hai assorbito, non riesci più a fermarti. Ho impiegato molto tempo per sentire lo stesso dolore davanti a un morto palestinese, rispetto a quando si parla di un morto israeliano. Oggi sono maggiormente in grado di osservare la realtà senza i preconcetti generati dalla mia nazionalità formale, dalla mia storia personale e dall’indottrinamento israeliano. Ritengo che la mia capacità di osservare il conflitto tra Israele e i palestinesi sia molto maggiore. Ecco quello che vedo:
- Quando i negoziati di Camp David sono falliti, la gente si è chiesta che cosa era andato storto, ma il problema non erano i dettagli, bensì qualcosa di molto più profondo. A Camp David non si è raggiunto un accordo di pace perché i due popoli non erano e ancora non sono in una situazione che permetta di mettersi d’accordo per trovare una soluzione. Non possono “incontrarsi a metà strada”. Un leader può arrivare fino a un certo limite, sentendosi appoggiato dalla sua gente, ma non può superarlo, perché altrimenti perderebbe l’appoggio. Così che i due leader non hanno potuto “incontrarsi a metà strada.”
- Pertanto oggi, come attivista, non credo nel tentativo di influenzare le decisioni dei leader, ma di cercare di influenzare le percezioni della gente. Di conseguenza la mia prospettiva non è di giorni, ma piuttosto di decenni.
- Credo che oggi i due popoli siano molto lontani dal poter porre fine al conflitto. Entrambe le parti sono dominate da concezioni sbagliate. Elencherò qui quelle che a mio parere sono le principali:
I palestinesi:
- Gli unici ebrei che i palestinesi conoscono sono soldati e coloni, pertanto la maggioranza non riesce a considerare Israele se non come un Paese oppressore. Non credono che Israele possa esistere in pace accanto a loro, senza tentare di conquistarli e opprimerli. Di conseguenza alcuni di loro si oppongono alla sua esistenza. In realtà negli ultimi vent’anni in Israele si è formata una chiara maggioranza a favore del ritiro dai TO.
- Un’altra conseguenza è che la maggioranza dei palestinesi non riesce a capire veramente le principali preoccupazioni degli israeliani, la più importante delle quali è il bisogno di sicurezza (più avanti spiegherò meglio questo punto).
- E soprattutto, visto che nel corso degli anni Israele ha dimostrato di comprendere solo la forza, molti palestinesi pensano che l’unico modo di ottenere la libertà sia attraverso la forza. Per quanto sia triste dirlo, potrebbe anche essere vero, ma il problema è che i palestinesi attaccano gli israeliani anche all’interno della linea verde. Questo convince molti israeliani che non ci si può fidare dei palestinesi; li spinge a non appoggiare il ritiro dai territori occupati e a credere che la sicurezza si ottiene solo con l’uso della forza. Per esempio il bombardamento di Sderot, oltre ad essere immorale, è anche controproducente.
Gli israeliani:
- Dato che la storia israeliana è dominata dalla Shoah (Olocausto), non riescono a capire che ciò che è successo ai palestinesi nel 1948 (la Nakba) è stato un disastro terribile. La Shoah è stata certamente un disastro più grande, uno dei peggiori della storia, ma i palestinesi non ne sono responsabili. Da questo punto di vista, non hanno fatto niente per meritarsi la Nakba del 1948. Siccome gli israeliani non riescono a vedere questo, non possono nemmeno comprendere le principali preoccupazioni dei palestinesi, come per esempio:
- Che il “problema dei profughi” non è solo una carta da giocare nei negoziati, ma un problema reale, che coinvolge milioni di persone e si è creato per il modo in cui è nato lo Stato di Israele. I palestinesi non accetteranno mai una soluzione che non tenga conto di questo tema.
- Anche se Israele si ritirerà da tutti i territori occupati nel 1967, dal punto di vista palestinese loro hanno perso comunque il 78% della Palestina storica.
- Siccome gli israeliani non comprendono veramente questi temi, pensano che le richieste palestinesi siano irragionevoli.
- Inoltre i preconcetti comuni nei Paesi colonialisti impediscono agli israeliani una visione obiettiva della realtà. Per esempio, gli israeliani definiscono Gillad Shalit un ostaggio, mentre i giovani palestinesi portati via di casa in mezzo alla notte e tenuti in prigione senza processo vengono chiamati prigionieri.
- Israele si percepisce come più forte dei palestinesi e si aspetta che questa asimmetria si rifletta in qualsiasi risoluzione. Certo, dal punto di vista militare Israele è senz’altro più forte, ma la forza non si misura solo con il parametro del potere militare. Personalmente, penso che quando si considerano tutti questi parametri, Israele non è il più forte e comunque l’occupazione deve finire perché è immorale e per nessun’altra ragione. La sensazione di forza degli israeliani e di debolezza dei palestinesi costituiscono un grosso ostacolo per la pace.
E dunque che cosa si può fare?
Visto quanto detto sopra, credo che l’attivismo debba prendere una direzione più educativa, puntando all’obiettivo che ogni parte si familiarizzi con la storia dell’altra. Il periodo di tempo dovrebbe definirsi in termini di decenni e i messaggi diventare più astratti e generali. Penso che ogni parte disumanizzi l’altra; il nostro obiettivo è aiutare ogni parte a comprendere l’umano dell’altra. Solo in questo modo ogni parte potrà comprendere l’altra, accettare le sue richieste ed essere disposta a “incontrarsi a metà strada.”
Come possono aiutare gli europei?
Penso che gli europei possano appoggiare le cause che vanno nella direzione appena esposta. Naturalmente, essendo Israele il più forte e l’oppressore, gli vengono rivolte la maggior parte delle critiche, però gli europei dovrebbero andarci cauti e capire in profondità il ruolo della Shoa nella storia israeliana.
La Shoah è un trauma reale per gli israeliani; per migliaia di loro è ancora un ricordo vivo e vive nei ricordi dei loro antenati. Per esempio, sette parenti di mio nonno, oltre ai suoi genitori, sono stati uccisi nei lager e anche mia nonna ha perso parte della sua famiglia nella Shoa. Sono emigrati entrambi in Israele e mia madre è cresciuta in questo ambiente, come migliaia di altri israeliani.
La lezione più grande appresa dagli ebrei riguardo alla Shoa è la necessità di diventare abbastanza forti come nazione perché tutto questo non succeda più. Questo spiega il tentativo di combinare umanesimo e nazionalismo e l’adorazione dell’esercito. In Israele esiste una paura reale e autentica rispetto all’esistenza come Stato, una paura che viene dal trauma della Shoah. Chi non capisce questo non potrà mai comprendere Israele.
La Shoah è stata causata dagli europei. La maggior parte dei Paesi ha svolto un ruolo attivo in essa e gli altri non hanno fatto niente per evitarla. Inoltre quasi tutti i Paesi europei hanno avuto colonie fino a poco tempo fa, pertanto per Israele è difficile accettare le critiche degli europei. Tutto questo porta gli israeliani a reagire alle critiche definendole espressioni dell’antisemitismo e a usare la Shoah come scusa per le atrocità, ma l’Europa non è priva di responsabilità rispetto a questa reazione.
Pertanto a mio parere gli europei dovrebbero usare un po’ di cautela quando prendono parte alla risoluzione dei conflitti. Dovrebbero evitare di imporsi come gli unici con la verità in tasca, tener conto e accettare la loro responsabilità nella storia e allo stesso tempo essere molto chiari nel rifiutare l’oppressione israeliana sui palestinesi. Gli europei non dovrebbero separare la critica a Israele da un modo profondo e coraggioso di affrontare il proprio passato, cosa che dovrebbe riflettersi nella critica.
La seconda lezione importante della Shoah, oltre a “cosa possiamo fare perché questo non succeda più” e che gli israeliani non vogliono apprendere, è “come evitare di fare questo ad altri”. L’Europa e in particolare l’Italia, come uno Stato che ha preso parte alla Shoah, dovrebbero aiutare Israele a imparare questa lezione, condividendo le proprie esperienze negative. Con Israele le accuse dirette non funzionano, perché vengono prese come un atteggiamento di superiorità, di chi si crede nel giusto. Un messaggio migliore sarebbe: “Ci stiamo assumendo la responsabilità per la nostra storia e la stiamo affrontando e vi incoraggiamo a imparare dalle nostre brutte esperienze e ad evitare gli errori che abbiamo commesso.”
Vorrei ringraziarvi ancora per essere venuti qui ad ascoltare. Israele e Palestina sono un pezzo di terra piccolo e lontano, ma in un certo senso tutte le tensioni tra l’Occidente e l’Islam si concentrano là. Riuscire a risolvere il conflitto tra loro può mandare un messaggio di pace e speranza a tutto il mondo.
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