Con la spesa critica si può colpire l’occupazione militare israeliana: i marchi da boicottare
Anche verso Israele esiste da tempo una campagna di boicottaggio, coordinata dalla Rete BDS (Boicottaggio, disinvestimento e sanzioni): è così temuta dallo stato israeliano che i suoi coordinatori sono stati accusati nientemeno che di “terrorismo”. Ma la loro attività prosegue ed esiste una lista precisa di marchi che si invitano a non acquistare allo scopo di rendere l’occupazione economicamente insostenibile e partecipare attivamente alla sua fine.
La campagna di boicottaggio, disinvestimento e sanzioni contro Israele é nata nel 2005. Dopo aver partecipato alla conferenza mondiale contro il razzismo in Sud Africa, un gruppo di attivisti palestinesi hanno capito che il regime che li opprimeva da decenni aveva un nome preciso: apartheid. Una verità che negli anni successivi è stata sancita anche da numerosi rapporti indipendenti. Per questo proposero uno di quegli stessi strumenti che si inventarono nel 1959 un gruppo di militanti sudafricani esuli a Londra: il boicottaggio. Smettere di comprare i prodotti israeliani e le merci che arrivano dai territori occupati palestinesi; fare pressioni a istituzioni e aziende affinché disinvestano (tolgano i propri investimenti) dalle banche e dalle aziende israeliane; spingere i propri stati ad emettere sanzioni contro Israele.
La campagna BDS ha tre obiettivi principali: mettere fine all’occupazione israeliana e alla colonizzazione delle terre palestinesi; riconoscere i diritti fondamentali dei palestinesi cittadini d’Israele e garantirgli la piena uguaglianza; rispettare il diritto al ritorno dei profughi palestinesi. Più di 170 gruppi della società civile palestinese sottoscrissero la sua nascita e oggi è sostenuto da individui, associazioni, sindacati, chiese, organizzazioni non governative e movimenti che rappresentano milioni di persone in tutto il mondo.
La campagna é da anni una spina nel fianco del governo israeliano, che l’ha definita una minaccia “esistenziale” e “strategica”. «Chi promuove il boicottaggio di Israele, di qualsiasi sua parte, non è amico di Israele. È suo nemico. Quindi va combattuto», ha dichiarato in passato Kuperwasser, ex-capo della divisione di ricerca nella divisione dell’intelligence militare della Forza di difesa israeliana. Per cercare di arginarla, Israele non si è limitata a emettere una legge che vieta l’ingresso nel paese agli stranieri che hanno appoggiato pubblicamente il boicottaggio di Israele, ha anche fatto pressione sui governi occidentali affinché condannassero la campagna BDS. Francia e Germania – che avevano prontamente iniziato a perseguitare gli attivisti pro-palestinesi – hanno dovuto ritirare le condanne verso chi proponeva pubblicamente il boicottaggio dei prodotti israeliani dopo la sentenza della CEDU (Corte Europea dei Diritti dell’Uomo) del 2020. La Corte infatti emise all’unanimità una sentenza secondo la quale la condanna penale dei sostenitori del boicottaggio di Israele da parte della Corte suprema francese violava l’articolo relativo alla libertà d’espressione della Convenzione europea dei diritti umani (articolo 10). Per Strasburgo quindi criticare Israele e chiedere il boicottaggio dei suoi prodotti non è antisemitismo, ma libertà di espressione.
I marchi al centro della campagna di boicottaggio
Ma quali sono i marchi coinvolti direttamente o indirettamente nell’appoggio all’occupazione israeliana? Gli attivisti di BDS hanno compilato una lunga lista, piena di prodotti che ogni giorno finiscono sulle nostre tavole e non solo.
CARREFOUR, multinazionale della grande distribuzione alimentare con sede in Francia, oltre ad aver aperto una franchising con aziende israeliane direttamente coinvolte nel progetto coloniale dello stato ebraico l’anno scorso, é accusata di essere nuovamente complice per aver donato migliaia di pacchi personali all’esercito israeliano. Nel post di sostegno si vedono i soldati con ai piedi sacchetti della spesa marca Carrefour.
McDonald’s, Domino’s Pizza, Pizza Hut e Papa John, hanno fatto generose donazioni all’esercito di Israele che sta mietendo migliaia di vittime civili solo in queste settimane. La filiale di McDonalds israeliana ha dichiarato recentemente di aver regalato 100mila pasti all’esercito e ha inoltre dichiarato di offrire uno sconto del 50% per i soldati e le forze dell’ordine israeliane. Forte lo scalpore e l’indignazione scoppiato nei paesi arabi, e in Turchia, Libano, Egitto, numerose sedi McDonald’s sono state vandalizzate durante i cortei. Gli attivisti hanno inoltre chiamato i cittadini al boicottaggio della multinazionale degli hamburger, obbligando numerose filiali – dall’Oman alla Turchia all’Arabia Saudita – a prendere le distanze dalle attività della filiale israeliana. Varie filiali hanno così dichiarato di essere contro il massacro in Palestina e hanno raccolto soldi e aiuti da mandare alla popolazione di Gaza. In Libano i manifestanti hanno anche attaccato uno Starbucks e il cancello della università Americana di Beirut.
In un’altra delle foto che circolano sui social, si vedono dei soldati israeliani con i panini di Burger King sorridenti; accanto, il testo dell’azienda: «siamo usciti per rafforzare la nazione di Israele. Le nostre squadre stanno lavorando diligentemente per continuare a donare migliaia di pasti ai nostri eroi». Scegliere di finanziare i soldati israeliani in questo momento é una precisa scelta politica: significa aiutare direttamente le azioni di guerra israeliane. Per gli attivisti BDS “Tutte meritano il boicottaggio e il disinvestimento, a prescindere dall’affermazione che le loro filiali nei vari Paesi sono interamente o parzialmente di proprietà di aziende locali. La società madre è complice per aver permesso alla sua filiale in Israele di sostenere un’aggressione militare in corso”. Scrivono su un loro comunicato: “Incoraggiamo una pressione continua sulle entità che sostengono l’apartheid di Israele e la sua guerra genocida contro il nostro popolo a Gaza.”
Le aziende il cui coinvolgimento nell’apartheid é più che comprovato sono molte, e la campagna BDS chiama al loro boicottaggio. La multinazionale statunitense dell’informatica HP (Hewlett Packard) aiuta Israele a limitare gli spostamenti dei palestinesi fornendo un sistema di identificazione biometrico. I cosmetici AHAVA hanno il loro sito di produzione in un insediamento israeliano illegale. DANONE è una multinazionale francese di prodotti alimentari che detiene il 20% delle azioni dell’azienda alimentare israeliana Strauss Group, investendo nei territori occupati. AXA investe in banche israeliane che finanziano il furto di terre e risorse naturali palestinesi. PUMA sponsorizza l’Associazione calcistica israeliana, che comprende squadre negli insediamenti di Israele sulla terra palestinese occupata. SODA STEAM è attivamente complice della politica israeliana di sfollamento dei cittadini beduini-palestinesi autoctoni di Israele nel Naqab (Negev), oltre ad avere una lunga storia di maltrattamenti e discriminazioni nei confronti dei lavoratori palestinesi. SIEMENS è complice attiva nella proliferazione delle colonie israeliane in territorio palestinese attraverso la costruzione del progetto dell’Interconnettore EuroAsia. Questo collegherà la rete elettrica israeliana con quella europea, permettendo agli insediamenti illegali di beneficiare dell’elettricità prodotta. SABRA Dipping Company è una joint venture che produce prodotti alimentari ed è co-proprietaria di PepsiCo e del Gruppo Strauss, che fornisce sostegno finanziario all’esercito israeliano. STARBUCKS sponsorizza anche raccolte di fondi per Israele.
Frutta, verdura e vini provenienti da Israele sono spesso erroneamente etichettati come “Made in Israel” quando invece provengono da terre palestinesi occupate. Un codice a barre che inizia con 729 indica solitamente un prodotto di Israele. Non è del tutto affidabile, perché in verità la cifra identifica il Paese dove l’azienda ha ottenuto il prefisso aziendale, quindi possono esserci casi in cui non si rivela in metodo preciso, ma nella gran parte dei casi lo è.
COCA-COLA sostiene lo stato di Israele dal 1966. La società svizzera NESTLÈ possiede il 50,1% dei capitali della catena alimentare Osem israeliana. INTEL produce la maggior parte dei chip PENTIUM 4 utilizzati dagli elaboratori PC nella sua fabbrica di Kyriat Gat, installato nel sito di Iraq Al-Manshiya, un villaggio palestinese raso al suolo dopo il suo sgombro nel 1949 da parte dei soldati egiziani. L’Oréal ha anche investito milioni creando un’unità di produzione a Migdal Haemeck, a tal punto che il congresso ebreo americano ha espresso la sua soddisfazione nel vedere L’Oréal “diventare un amico caloroso dello Stato di Israele”. ESTÉE LAUDER, oltre ai suoi investimenti, ha come direttore il presidente di una delle organizzazioni sioniste più potenti negli Stati Uniti, il Fondo Nazionale Ebreo. DELTA GAIL é un’impresa israeliana che subappalta prodotti tessili; numerosi indumenti intimi di marchi stranieri come Marks & Spencers, Calvin Klein, DKNY tra altri arrivano da lì.
LEVI STRAUSS JEANS E CELIO finanziano le nuove colonie in Palestina ma anche le scuole degli estremisti religiosi nel mondo. Il presidente di TIMBERLAN, Jeffrey Swartz, è un membro attivo della lobby sioniste negli Stati Uniti. Ha incoraggiato la Comunità ebraica americana a trasferirsi in Israele e i soldati israeliani a dirigere la propaganda pro-israeliana negli USA. NOKIA commercia attivamente con lo Stato di Israele, dove ha un centro di ricerca. CATERPILLAR contribuisce alla distruzione delle case in Palestina con i suoi bulldozer giganti. La catena alberghiera ACCORHOTEL ha molti hotel in Israele ha anche una succursale nei territori siriani occupati, il Golan.
L’importanza del boicottaggio
Manifestare a sostegno della Palestina e condannare il genocidio é importante soprattutto in Occidente, dove si sta cercando di eliminare qualsiasi narrativa che non sia quella dell’appoggio incondizionato a Israele dei governi e dei grandi media. Serve a dimostrare che l’opinione pubblica non condivide le azioni del governo: ma non basta.
«Esistono fondamentalmente due tipi di proteste: le proteste dimostrative, e quelle distruttive» spiega l’analista Shahid Bolsen. Per lui, gridare il proprio dissenso senza creare un problema concreto a Israele ha una portata limitata: «Affinché le proteste in Occidente diventino davvero distruttive [e con distruttive intende realmente problematiche per il governo, ndr], è necessario che si focalizzino sul settore privato». Colpire le tasche delle imprese che guadagnano dai loro affari con Israele. Insomma, boicottaggio, disinvestimento e sanzioni. «Non voglio che l’occidente venga a salvarci. Non sto chiedendo all’Occidente d’invadere Israele. Chiedo solo che smetta di finanziare la nostra oppressione. L’obbligo etico più profondo in questi tempi è quello di agire per porre fine alla complicità. Solo così possiamo sperare di porre fine all’oppressione e alla violenza», ha scritto recentemente Omar Barghouti, co-fondatore del movimento del BDS, per rilanciare la campagna che da anni mette in difficoltà Israele.
Sono 16 anni che Gaza é sotto embargo e assedio. 54 anni che migliaia di palestinesi vivono in campi profughi senza poter tornare nella propria terra. Le occupazioni israeliane continuano ad allargarsi, distruggendo terreni, case e rubando l’acqua ai palestinesi che si ostinano a vivere dove sono nati. L’apartheid continua in Israele e nei territori occupati, appoggiata dai governi occidentali e supportata attivamente da decine di grandi aziende. «E’ nostro compito far sì che appoggiare il genocidio diventi costoso, troppo costoso, insostenibile» dice Bolsen nel video in cui invita ad agire e a fare pressioni affinché tutte le aziende e le istituzioni prendano una posizione sul massacro in corso. I danni economici sono una delle poche cose che, forse, il governo israeliano ad un certo punto sarà costretto ad ascoltare.
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