«Quand’è che una guerra è matura per la pace?»
Signor Leonhard, si può imparare dal passato come porre fine alle guerre?
La storia non offre modelli per il presente. Non le si possono delegare decisioni che vanno prese ora. Aiuta però a guardare con precisione: quali costellazioni occorre attendersi al termine di una guerra? Quali sono gli ostacoli, quali gli spazi di manovra? Si osserva meglio il presente, se si conosce il ventaglio delle possibilità.
Al momento siamo particolarmente preoccupati da due conflitti, molto diversi tra loro: quello in Medio Oriente e quello in Ucraina. Come li inquadrerebbe?
In Ucraina - come nella maggioranza dei conflitti - abbiamo a che vedere con una commistione di diversi tipi di guerra. Dalla prospettiva russa, è uno scontro che ha moltissimo a che fare con la visione imperialista della storia. Dal punto di vista di Putin, è però anche una guerra per un sistema di valori. Attacca la presunta decadenza morale dell’Occidente, praticamente, in ogni suo discorso. Da quello dell’Ucraina, è invece una guerra di difesa della sovranità territoriale e per la propria costituzione nazionale. In questa guerra, tuttavia, c’è anche in gioco la possibilità di vedersi instaurare nel XXI secolo un ordine mondiale basato su regole. Perché, se la Russia avesse successo, incoraggerebbe altri ad agire allo stesso modo.
E in Medio Oriente?
Questa guerra ha antefatti più remoti. Una differenza sostanziale con l’Ucraina è che in Medio Oriente ci sono mediatori consolidati, gli Stati Uniti con Israele, Arabia Saudita, Qatar, e probabilmente anche Egitto, con i palestinesi. Il conflitto di Gaza ha proporzioni più contenute. E, dal momento che Hamas non è uno Stato, ma un’organizzazione terrorista, anche la relazione tra guerra e terrore vi assume una connotazione inedita. Hamas non ha un mandato politico che Israele possa accettare per dei negoziati seri. Da ciò emerge esemplarmente come sia il carattere di una guerra a determinare quali siano gli attori politici in grado di costruire la pace.
Nel Suo libro sull’esito delle guerre distingue quattro scenari. Può abbozzarli brevemente?
Il primo scenario, che in fase d’avvio è spesso preso in considerazione, è una vittoria celere grazie a una battaglia decisiva. Le forze armate danno a intendere che, con piani sofisticati e la tecnologia bellica, possano imporre una decisione rapida. La prima guerra mondiale ebbe inizio con l’aspettativa che di lì a tre mesi i soldati sarebbero tornati a casa. E così anche l’aggressione tedesca all’Unione Sovietica nel 1941. E anche all’inizio dell’esteso attacco all’Ucraina da parte della Russia molti esperti erano certi che la prima non sarebbe sopravvissuta 72 ore. Risoluzioni veloci sono però l’eccezione, e nel XXI secolo la maggior parte dei grandi conflitti si è tramutata in una guerra lunga. Ecco perché guardare gli altri scenari è più istruttivo.
Quali ne sono i tratti principali?
Il secondo scenario è lo stallo militare. Anche questo però è di frequente caratterizzato dalla speranza di poter forzare una risoluzione sul campo di battaglia. Dove ciò non accade, dall’empasse spesso nasce un’interminabile guerra di logoramento. In questa le risorse giocano un ruolo centrale - non si tratta solo del numero di granate e carri armati, ma anche di mezzi finanziari e del controllo interpretativo delle immagini e delle notizie. Tutto quel che stiamo attualmente vivendo in Ucraina. L’opinione pubblica occidentale e le presidenziali Usa divengono risorse di guerra, proprio come, durante la guerra del Vietnam, i nordvietnamiti prestarono particolare attenzione al movimento pacifista in America.
Esiste una via d’uscita dalla guerra di logoramento, oltre a quella di continuare a combattere fino allo sfinimento totale?
Questo sarebbe il mio terzo scenario. Quando tra gli attori cresce la consapevolezza che la guerra non può essere decisa militarmente e che dalla prosecuzione dei combattimenti occorre aspettarsi meno passi avanti che da una soluzione politica, potrebbe essere giunto il momento dei negoziati. A quel punto un mediatore credibile può delineare per gradi una soluzione, sia essa il cessate il fuoco, l’armistizio o un’area di sicurezza protetta da forze internazionali. Il quarto scenario rimanda all’epilogo sempre più frequente dopo il 1945: la guerra non si conclude con un classico trattato di pace, ma con un armistizio prolungato che congela il conflitto ma lascia spazio a escalation con un grado minore di violenza.
Ha qualche esempio?
La guerra di Corea nel 1953 terminò con un armistizio, che da allora è stato violato più di 100mila volte, se si sommano tutti gli incidenti di frontiera. Purtroppo è uno scenario realistico anche in Ucraina. È vero che da principio la grande escalation militare cessa, ma si viene a sviluppare una sanguinosa frontiera lungo la quale scoppiano ripetutamente conflitti locali. Un simile armistizio può anche essere usato da una delle parti come pausa tattica per riarmarsi e tornare a colpire alla successiva occasione.
Attualmente in Ucraina vede una guerra di logoramento?
Una guerra di logoramento presupporrebbe che l’Ucraina continui a ricevere forte sostegno da parte dell’Occidente, perché altrimenti perderebbe la capacità di difendersi e non avrebbe nulla per contrastare gli aggressori russi. Al momento Putin conta sulla risorsa tempo, che sta giocando a suo favore. Che negli Stati Uniti, sotto l’influenza di Trump, i repubblicani stiano facendo marcia indietro sugli aiuti all’Ucraina, è un segnale devastante. In Europa, stiamo assistendo a una serie di crepe nell’appoggio a Kiev in Ungheria, Slovacchia e nei Paesi Bassi, dopo il successo elettorale di Geert Wilders. E Parigi e Berlino non hanno una risposta strategica al possibile cambio della guardia alla Casa Bianca.
Nei conflitti armati le autocrazie hanno vantaggi sulle democrazie, visto che, per esempio, possono passare più agevolmente a un’economia di guerra e non c’è un’opinione pubblica che valuti criticamente le decisioni?
Sulle prime, senz’altro sfruttano i vantaggi tattici, ma alla lunga possono andare incontro a crisi di credibilità. Le democrazie sono generalmente meglio attrezzate per ripartire nel lungo periodo gli effetti della guerra, e anche nel mezzo di crisi agiscono in modo più trasparente nella comunicazione. Durante la prima guerra mondiale, i governi di Parigi e Londra si rivolsero prontamente ai sindacati per integrare i lavoratori. Nel corso dello stesso conflitto, in Germania, a fronte di una monarchia militare autocratica, la mancata parlamentarizzazione del regime fu criticata sempre più aspramente. A partire dal 1917, negli imperi centrali, la fiducia nei leader politici si andò erodendo. Nelle guerre lunghe e che provocano continue perdite, di colpo la credibilità di un sistema politico può arrivare a un punto critico, e non è un caso che, nelle autocratiche Germania e Russia, tra il 1917 e il 1918, si svilupparono delle rivoluzioni, mentre le democrazie sopravvissero.
«Inviare un primo segnale di disponibilità a una risoluzione pacifica, spesso si rivela particolarmente problematico», scrive nel Suo libro. Perché questo accade?
Una delle questioni più intricate è: quand’è che una guerra è veramente matura per la pace? In quell’istante tutti gli attori coinvolti nel conflitto dovrebbero aspettarsi più progressi da una soluzione politica che dalla prosecuzione degli scontri. Se è solo uno di essi a mostrarsi pronto a fare delle concessioni, ciò può condurre a un’escalation della violenza. Da un segnale del genere, infatti, l’altra parte deduce fiacchezza e aumenterà i suoi sforzi militari per raggiungere i suoi obiettivi. Molte volte è stata proprio la fase finale delle guerre a rivelarsi segnatamente cruente. In merito all’Ucraina, sono scettico sul fatto che sia già giunto il momento per intavolare negoziati credibili.
Nel Suo libro mette in guardia anche dal pericolo di una pace oziosa.
Un fenomeno frequentissimo nella storia. L’esempio più noto del XX secolo sono le concessioni degli Alleati occidentali rispetto alla politica di aggressione perseguita da Hitler dopo il 1936. Quando nell’accordo di Monaco del 1938 Gran Bretagna e Francia abbandonarono la Cecoslovacchia al suo destino, il primo ministro britannico, Neville Chamberlain, credeva di aver preservato la pace in Europa. Di fatto, però, questa politica rafforzò in Hitler la convinzione che le democrazie avrebbero accettato di vederlo oltrepassare altre linee rosse.
Guardando indietro, riusciamo a riconoscere una pace oziosa, ma come funziona nel presente, quando non si sa ancora come andrà a finire? A cosa va data attenzione per rendersi conto che la via d’uscita offerta non è seria?
Sondare eventuali concessioni non è di per sé sbagliato. È importante per non sprecare nessuna opportunità risolutiva, per verificare linee d’azione possibili, per tenere aperti i canali della comunicazione. Ma la diplomazia deve saper rispondere alla domanda su come bisogna comportarsi con un aggressore che non accetta veramente le concessioni delineate. Per esempio, quando si oppone alle garanzie di sicurezza internazionali o a un mandato forte per un mediatore. Putin vuole concessioni territoriali e la smilitarizzazione e la neutralità dell’Ucraina, che, a quel punto, in una nuova crisi si troverebbe in una posizione debolissima.
Un’altra questione che molti esempi storici ci mostrano: la strada della pace è spesso lunghissima.
La pace non è un momento, ma un processo lungo e, spesso, contraddittorio. Il primo passo di frequente è la tregua, durante la quale è possibile testare se la comunicazione e un minimo di fiducia funzionino. Il secondo passo può essere allora la formalizzazione di un ben più solido armistizio. A partire da questa situazione, così stabilizzata, il passo successivo sarebbe la soluzione politica. I cessate il fuoco vengono spesso concordati dai comandanti militari. Con un armistizio e i susseguenti negoziati di pace entra in gioco la politica. Come storico, sono particolarmente interessato al lungo processo di costruzione della pace, una volta che l’inchiostro in calce ai documenti si sarà asciugato. A differenza delle fasi storiche precedenti, noi alla pace non associamo solo l’idea di assenza di violenze belliche. Vi colleghiamo anche la giustizia, per esempio l’azione penale contro i criminali di guerra e il riconoscimento delle vittime, indipendentemente da quanto tempo ci voglia. Per una pace riuscita, che metta a tacere la guerra e i nemici nella testa delle persone, occorre una prospettiva per le società, dunque sicurezza economica, partecipazione politica, fiducia in un futuro migliore. Senza il piano Marshall sotto la regia degli americani, la storia europea dopo il 1945 avrebbe avuto un altro corso.
Durante il primo conflitto mondiale, attorno al Natale del 1914, in alcune zone del fronte ci fu una serie di tregue spontanee. I soldati tedeschi e inglesi lasciarono le rispettive trincee e si incontrarono nella terra di nessuno.
A dicembre è un episodio ricordato frequentemente, ed è assolutamente comprensibile che le persone siano affamate di questi racconti, che da storico osservo invece con distacco. Incontriamo questo fenomeno in svariate guerre di posizione: i soldati in trincea cominciano a parlarsi spontaneamente e concordano un cessate il fuoco, anche per recuperare i morti e portare in salvo i feriti nella terra di nessuno posta tra i fronti. Qui si incontrano e si scambiano derrate alimentari e sigarette. Ciò avvenne anche in alcune zone del fronte occidentale. Quando i comandanti ne furono informati, espressero preoccupazione per la disciplina, e le truppe delle relative zone furono sostituite. Questi incontri attorno al Natale del 1914 furono eventi molto circoscritti. Non rispondono però alla domanda su come si esce da una guerra e si stipula una pace duratura.
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Lo storico
Jörn Leonhard (1967) è professore di Storia moderna e contemporanea all’Università di Friburgo. Si occupa, tra le altre cose, di imperi e storia dei conflitti e della pace. Per il suo lavoro, è stato recentemente insignito del più importante premio tedesco alla ricerca, il Gottfried Wilhelm Leibniz-Preis.
Il libro
Lo scorso ottobre è uscito il suo libro Über Kriege und wie man sie beendet (C.H. Beck).
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